mercoledì 24 giugno 2009

Freschi di stampa: 7. Paul-Èric BLANRUE: «Sarkozy, Israël et les Juifs».

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Finalmente, ho potuto ritirare ieri il libro ordinato nella Libreria francese, dove mi servo per i libri in lingua francese. Credo di essere uno dei pochi italiani ad avere la disponibilità diretta del libro, ma anche un privilegiato rispetto ai francesi, che non possono acquistare il libro in Francia perchè se ho ben capito il suo distributore si è rifiutato di distribuirlo in Francia. Su Internet, con Google, si può seguire meglio uno scandalo e una polemica su cui io qui posso essere inesatto, giacchè mi accingo appena alla lettura diretta del libro. Ne voglio già incominciare a parlare prima di aver terminata la lettura, che potrebbe richiedere non poco tempo non gi per la mole del libro di appena 201 pagine a fronte della circa 1200 del libro di Fisk, appena terminato di leggere. Mi ci vorrà del tempo perché sono contemporaneamente impegnato nella lettura di parecchi libri: mi distribuisco ora sull’uno ora sull’altro. Quanto alla mole dico subito che avrei preferito uno studio delle consistenza fisoco-materiale del volume di Mearheimer e Walt sulla “Israel lobby e la politica estera americana”. Il libro di Blanrue è sullo stesso tema ma la seconda parte del titolo suonerebbe: «…e la politica estera francese». La “lobby ebraica” per sua natura opera nell’ombra: fa ma non vuole si sappia quel che fa. Ed invece si tratta di far sapere, di conoscere, la rete di associazioni, contatti, forme in cui opera per influenzare la legislazione che poi colpisce tutti i cittadini – fra queste la famigerata legge Fabius-Gayssot – e particolarmente gli impegni di politica estera. Sappiamo tutti, o quasi, che l’armamentario nucleare israeliano – non sono queste armi di “distruzioni di massa”? – ha origine in Francia, ma a tutti o quasi mancano i dettagli, le fasi, i personaggi, le modalità con cui si è giunti a fornire di “armi di distruzione dell’intera umanità” di una banda di esaltati, i sionisti, ben più temibile di quanto ci si vorrebbe far credere siano stati i nazisti.

Il libro rivela la rete della Israel lobby in Francia. Da Paul-Èric Blanrue avrei voluto non 201 pagine, ma almeno un libro di 700 pagine, quanto quello di Mearheimer e Walt. Ed altri volumi di eguale consistenza devorebbero essere scritti per ognuno dei paesi europei dove sono presenti lobbies ebraiche che influenzano e condizionano la politica interna ed estera degli Stati Europei. Di un Sarkozy era ure corsa la voce, su Figaro, che fosse stato un agente del Mossad. Se ciò è vero, ma vi sono parecchi altri indizi sulle inclinazioni sioniste del presidente francese, non possiamo che essere preoccupati in quanto cittadini italiani ed europei. Del nostro ministro degli esteri Frattini, sia egli o non sia ebreo, non possiamo non notare le chiare e smaccate inclinazioni. Insomma, in un futuro molto prossimo potremmo trovarci in una guerra ancora più coinvolgente con l’intero mondo arabo-musulmano per il solo fatto di esservi stati trascinati dalla lobbies ebraiche presenti nei nostri paesi e senza che ciò corrisponda minimamente ai nostri interessi politici, economici, culturali, religiosi.

I tempi sono davvero tristi. Ormai neppure i preti conoscono più il Vangelo, base del loro mestiere, ed ebrei come Dershowitz possono dire di partecipare ai “conclavi” (sic!) dove si eleggono i papi. La Lobby punta addirittura all’elezione di un papa “ebreo” che affossi definitivamente ogni traccia di cristianesimo. Cito una frase introduttiva di Blanrue, che riprende e commenta Michelet, rapportandosi ai nostri giorni, dico ai nostri giorni, ieri, oggi, domani, mentre io qui scrivo e forse qualcuno legge: «…La compréhension réelle du quotidian nous échappe». Ci sfugge la comprensione della nostra quotidianità. Ma a ciò si è giunti per l’infiltrazione capillare delle lobbies in ogni anfratto della comunicazione, insieme con la repressione sistematica di ogni voce avversa: da una parte controllo dei media, dall’altra riduzione in carcere di ogni dissenziente. Guardano all’Iran, dove già nel 1953 CIA e Gran Bretagna organizzarono un colpo di stato per rovesciare il governo democratico di Mossaqued, e dove in questi giorni ritentano l’operazione del 1953, ma non guardano alle prigioni di Francia, Germania, Austria, etc., piene di persone di niente altro colpevoli che di reati di opinione. Davvero ci viene tolta con ogni mezzo la comprensione della quotidianità. Non possiamo fare altro che resistere ed ognuno di noi che appena un poco arriva a comprendere la quotidianità ha il dovere morale di aprire gli occhi al suo vicino: solo così possiamo difenderci e riconquistare le nostre libertà.

Questo non è che un inizio di lettura. Ritornerò su questa pagina via via che proseguo nelle lettura del libro, che ho avuto solo ieri sera, leggendone al capezzale le prime pagine... Ho terminato di leggere il libro in tutte le sue pagine. Non devo modificare quanto prima scritto e fin dalle prime pagine ne ho intuito esattamente il contenuto, che è sostanzialmente una continuazione per la Francia in particolare del lavoro di individuazione di una Lobby, analoga e strettamente collegata con quella descritta da Mearsheimer e Walt. Operano su un piano internazionale, strettamente collegati, meglio collegati di tutte le altre organizzazioni, ma non vogliono che le vittime del loro lobbismo possono né divenire consapevoli del loro essere vittime né potersi organizzare e reagire in un qualsiasi modo. Da qui si spiegano le censure e le difficoltà che il libro di Blanrue incontra. Su di esso, a lettura terminata, osservo che è un lavoro pioneristico. Molto resta da fare e mi è ormai chiaro che un libro simile deve abbracciare l’intera Europa e non i singoli paesi. Intanto pubblico di seguito un testo relativo al libro, che leggo questa mattina su Facebook, e dove si richiede l’ulteriore diffusione. Questa pagina resterà a disposizione, periodicamente aggiornata, per tutte le vicende europee collegate al libro. Mi auguro che presto un editore italiano ne curi un’edizione.

APPENDICE
1.
Traduzione spagnola

Une annonce pour éditeur espagnol, ainsi que la traduction de la conclusion, toujours en espagnol : à diffuser !
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Oggi, 30 giugno 2009, alle 10.30

SARKOZY, ISRAEL Y LOS JUDIOS, por Paul-Eric Blanrue

[Este libro no encontró editor en Francia; salió en Bélgica en mayo 2009, pero es imposible comprarlo en las librerías francesas, porque el distribuidor se niega a repartirlo, en vistas a su contenido. Los medios se niegan a comentar el caso, pero no hay ninguna demanda judicial contra el mismo. El autor está dando múltiples entrevistas e Internet, y anuncia otro libro acerca de la “censura por el vacío” del que está siendo víctima, a pesar de haber publicado varios libros bien acogidos. Ver

http://www.blanrue.com y
http://sarkozyisraeletlesjuifs.blogspot.com/.

Conclusión: Por una nueva “noche del 4 de agosto” protagonizada por los franceses judíos.

Traducción al español: Gastón Pardo, México, y María Poumier, París.

“Cuando Israel transforme su venganza eterna en una bendición eterna para Europa,
entonces amanecerá ese séptimo día en el que el viejo dios de los judíos
podrá enorgullecerse de sí mismo,
de su creación y de su pueblo elegido;
ese será el momento de regocijarnos con Él.”
(Frederic Nietzsche, Aurora, 1881).
Los judíos de Francia deberían ser cautelosos, y desconfiar tanto de sus propios representantes como de Nicolás Sarkozy. Tomando la palabra en nombre de las redes pro israelíes francesas, de las cuales el presidente francés es hoy uno de los más eminentes portavoces, dan de sí la imagen de ser partidarios incondicionales de Israel. Son ellos quienes condujeron al Estado a adoptar una posición unilateral, antitesis de nuestros principios rectores, según los cuales la República «garantiza la igualdad ante la ley de todos los ciudadanos, sin distinción de origen, raza o religión » (artículo 1 de la Constitución de 1958), no reconociendo de ninguna manera la legitimidad de los grupos particularistas.


Si un día Francia debiera entrar en guerra al lado de Israel, en Irán, Líbano o en algún otro país, ¿quién sabe cómo el repliegue comunitario de los judíos de Francia y el apoyo sistemático parecen aportar à un Estado extranjero serían evaluados en nuestro país? Dada la manera tan sanguinaria como el ejército israelí lleva a cabo sus operaciones, ¿quién puede decir cómo reaccionarán los franceses no judíos ante las nuevas matanzas, de las cuales serán considerados cómplices? El riesgo de ver reaparecer las acusaciones de «doble lealtad» no es sólo algo imaginario. En su diario (no destinado a la difusión), el fundador del sionismo, Theodor Herz, escribió: « hay que escoger entre Sión y Francia» ¿Es ésta la imagen que los judíos franceses quieren dar hoy de sí mismos?


Destaquemos en qué medida en el presente, la evolución de la imagen de los judíos en la opinión pública contribuye a exacerbar las tensiones. Las manifestaciones contra la operación « Plomo endurecido» de Gaza, en diciembre de 2008, son la irritante demostración de ello, como lo es el aumento (relativo pero real) del comportamiento antisemita. Ya no hay tiempo para lamentar que el conflicto israelí - palestino haya sido importado a Francia; el mal está ya hecho, la información se ha mundializado y las conciencias también. Ahora se trata de evitar que la situación se degrade aun más.

***


Para restablecer el orden en el flujo de informaciones contradictorias y de propaganda que nos llega de todas partes, es importante antes que nada cortar de un tajo las aproximaciones falaces. Acortar distancias es lo propio del espíritu humano; en lugar de estimular simplificaciones, sería necesario comenzar por evitar que se instalen permanentemente en la opinión, antes de que otros dramas se presenten. Aprovecho para recordar lo explicado al principio de este libro: no hay motivo serio para confundir a los judíos con los sionistas, todo lo contrario de lo que pretenden los representantes de la comunidad judía, reunidos en el CRIF (Consejo Representativo de las Instituciones Judías de Francia) con Nicolas Sarkozy a la cabeza. Históricamente hablando, sionismo y judaísmo no tienen nada en común. El judaísmo es una religión milenaria, la religión de la Torah y del Talmud, mientras que el sionismo es una opción política de creación reciente, cuyo principal iniciador, el periodista y escritor Theodor Herzl, nació en 1860.

«¡El año próximo, a Jerusalén!»: esta formula, que tradicionalmente es pronunciada en la fiesta de Pessah, por la comunidad judía, hace creer, según la interpretación sionista, que el pueblo judío, que ha vivido en el nomadismo en los últimos dos milenios, quiere recuperar su Palestina original, perdida desde la destrucción del Templo en el año 70 por Tito. Pero las investigaciones israelíes popularizadas por Schlomo Sand demuestran que no hay la menor continuidad histórica entre los judíos de entonces y los de ahora, mientras que sí la hay para los palestinos, autóctonos y habitantes inamovibles desde entonces. Y la oración de Pessah tiene una significación original mística, no es un llamado a la reconquista militar.

En realidad, antes del primer Congreso sionista, reunido en Basilea, Suiza, en 1987, la mayor parte de los rabinos condenaban sin ambigüedad el sionismo. Esto lo demuestra, por ejemplo, la resolución adoptada en la conferencia de los rabinos estadounidenses en 1869:

«El objetivo mesiánico de Israel no es la restauración del antiguo Estado judío (…), porque ello implicaría la segunda separación de las otras naciones, sino la unión de todos los hijos de Dios que profesan la fe en el Dios único, a fin de que se realice la unidad de todas las criaturas provistas de razón, y sus aspiraciones a la santidad moral».

En 1885, la conferencia de Pittsburg declaró:
« No nos consideramos ya más como una nación, sino como una comunidad religiosa. No estamos pues a la espera ni del retorno a Palestina, ni de un culto de sacrificio bajo la administración de los hijos de Aarón, ni de la restauración de leyes relativas a un estado judío»

Marcados por el desplazamiento de las nacionalidades, propio del siglo XIX europeo, los fundadores del sionismo, de origen ashkenazi, consideraban que en virtud de un hipotético pasado cultural e histórico común, era necesario abordar el judaísmo bajo el ángulo de la
« nacionalidad» y no bajo el de la religión: « Aprovechemos los ejemplos de los italianos, polacos, húngaros», solía decir el rabino Zvi Krish Kalisba. En su obra maestra, El Estado judío, Herzl precisaba: « La cuestión judía no es para mí ni una cuestión social ni religiosa, si bien ella pueda tomar en ocasiones esas formas entre otras más. La cuestión judía es una cuestión nacional (…) Nosotros somos un pueblo, un solo pueblo».


La idea de una «raza judía» estaba en el aire, y no solamente del lado de los antisemitas dedicados a practicar pogromos. Herzl solía escribir cosas como ésta: «Los judíos, material e intelectualmente superiores, habían perdido de manera definitiva el sentimientos de solidaridad de raza (…). Ahora, los judíos sobresalientes se vuelven orgullosamente a su raza cuando aparecen las persecuciones.”


Lejos de seguir alguna tradición religiosa, el judaísmo de Herzl es, de manera paradójica, laico. El fundador del sionismo se definía a sí mismo como libre pensador: « Nuestro principio supone que cada quien busque su salvación a su manera», decía. En su Diario, reconocía de buen grado que su actividad no obedecía «a un impulso religioso». El Jewish Chronicle del 11 de agosto de 1911 destacaba que « para él, las creencias religiosas extendidas sobre la Tierra Santa no eran útiles salvo como une maniobra eficaz para proteger a las fuerzas nacientes del nacionalismo, de cara al elemento devorador que implica la asimilación».


En suma, el sionismo se desprende de las ideas de los pueblos europeos de entonces. Espíritu de su tiempo, Herzl concebía al sionismo ni más ni menos que como una aventura colonial, a imitación de Francia o de la Gran Bretaña: « Mi programa es un programa colonial », solía decir, en relación a sus modelos, dirigiéndose al británico Cecil Rhodes, fundador de Rodesia y primer ministro de la colonia del Cabo, en África del Sur. Quería hacer del Estado de israel un “bastión avanzado de la civilización occidental frente a la babarie oriental”. El programa sionista de Basilea pregona, con toda claridad «la colonización de Palestina por agricultores, artesanos y comerciantes judíos». Y se contemplaron otros asentamientos posibles, en Argentina, Uganda, Congo, Chipre y Mozambique.


Desde que el proyecto sionista fue adoptado, los rabinos se opusieron con todas sus fuerzas a la empresa, hasta el punto de que los rabinos alemanes evitaron que el primer congreso sionista se reuniera en Munich, como Herzl deseaba. El mismo año tenía lugar el famoso congreso de Montreal, encargado de analizar la proposición del muy estimado rabino Isaac Meyer Wise. Fue aprobada entonces la mención siguiente: «Desaprobamos toda iniciativa tendente a la creación de un estado judío (…) Afirmamos que el objetivo del judaísmo no es político, ni nacional, sino espiritual, trabajando para afincar la paz, la justicia y el amor entre los hombres».


La inmensa mayoría de los rabinos, así de Europa como de otras partes, ortodoxos o liberales, compartían esta opinión. Herzl se inclina a polemizar con ellos en el curso de largos intercambios epistolares. Tal oposición declinó con el paso de los años, pero la proclamación del Estado de Israel en 1948 no la hizo desaparecer. En 1947, un representante de Naciones Unidas se encontraría con el rabino Yosef Zvi Duschinsky, de Nueva York, para preguntarle si deseaba un Estado judío; el rabino respondió que ese no era el caso; lo único que él pedía es que Jerusalén quedara administrada por una entidad internacional.


En 1955, el rabino Emmanuel Levyne, hijo de un deportado muerto en los campos, funda el diario Tsedek (Justicia, en hebreo) para expresar sus ideas antisionistas basándose en la tradición religiosa. Levyne era un especialista francés en la mística judía, tal como la refleja la Kabala. En su Judaïsmo contra sionismo, escribió, en 1969: “Los judíos antisionistas, hemos escogido la Paz. Esto explica que no aspiramos a la creación del Estado de Israel y que ahora en cambio pugnemos por su desaparición (por la renuncia del pueblo judío a su empeño sionista y, evidentemente, no por la guerra y el derramamiento de sangre de las poblaciones), en la medida que su existencia –como podría ser el caso de cualquier otro estado particular- sea una amenaza la paz mundial.”


En 1978, el rabino Hirsch declaraba a su vez en The Washington Post del 3 de octubre: «El sionismo es diametralmente opuesto al judaísmo. El sionismo se propone definir al pueblo judío como entidad nacional… Tal propósito es una herejía. Los judíos han recibido de Dios la misión no de forzar su retorno a Tierra Santa contra la voluntad de quienes habiten su
territorio. Y si lo hacen, asumirán las consecuencias. El Talmud dice que esta violación hará de vuestra carne la presa de los ciervos en el bosque».

Crear el lazo de unión de la mayoría de los rabinos en torno a Israel no fue tarea fácil; se logró sobre todo debido a las circunstancias más que a una necesidad religiosa intrínseca. La historia casi desconocida de la revuelta rabínica de cara el sionismo emergente debería por su significación inspirar a los judíos de Francia, en el caso de que deseen tomar el problema por la raíz y emprender el camino de un proceso de paz.

***

Los rabinos no han sido los únicos miembros de la comunidad judía que decidieron guardar distancia con el sionismo y sus pronunciamientos; numerosos « judíos laicos» se asociaron en ese combate.

El psicoanalista Sigmund Freud, citado como ejemplo por Nicolas Sarkozy con ocasión de ese famoso discurso expresado ante la Knesset (ver capítulo 4), fue una de las primeras luminarias judías mundiales que expresaron serias reservas de cara al proyecto de Herzl. En febrero de 1930, Freud se abstuvo de firmar el llamado de la asociación sionista de Jerusalén Keren Hajessod, contra los impedimentos establecidos por los árabes de Palestina al ejercicio del culto judío en la ciudad santa. El psicoanalista respondió en estos términos:


« No creo que Palestina llegue jamás a ser un Estado judío ni que los mundos cristiano e islámico lleguen a aceptar que sus lugares sagrados se encuentren bajo control judío. Yo
hubiera apreciado como más sensato fundar una patria judía en una tierra menos cargada de historia. Mas reconozco que un punto de vista racional tendría pocas posibilidades de atraer el entusiasmo de la gente y el apoyo financiero de los ricos».


Otra referencia del presidente de la República es el premio Nobel de física, Albert Einstein, que firmó con la filósofa Hannah Arendt y más de veinte personalidades judías, una carta virulenta enviada al redactor en jefe del New York Times, que fue publicada el 4 de diciembre 1948:


« Es incomprensible que quienes se oponen al fascismo en el mundo, si están bien informados de las actividades y proyectos de Begin, sean capaces de apoyar con todo el peso de sus nombres al movimiento que representa. El público estadounidense debe ser informado de los actos y proyectos de Begin antes de que se produzca lo irreparable por medio de contribuciones financieras, de manifestaciones públicas en su favor, y la convicción en Palestina de que un amplio sector estadounidense apoya a los componentes fascistas del Estado de Israel. Los pronunciamientos públicos del partido de Begin no son la fuente adecuada para entender su política. Se refieren a la libertad, la democracia y el anti imperialismo, mientras que hace no mucho tiempo proclamaban abiertamente la doctrina del Estado fascista. Con tales actos el partido terrorista traiciona su verdadera naturaleza. Por sus acciones del pasado podemos juzgar lo que nos depara el futuro».


Era una condena sin equívoco de la política del naciente Estado de Israel, en respuesta a la matanza de Deir Yasín, el 9 de abril de 1948, perpetrada por el Irgún, la fuerza paramilitar de Menahem Begin. Más tarde el eminente físico exclamaría: «Yo apreciaría mucho más un acuerdo razonable con los árabes (sobre la base de una coexistencia pacífica) que la creación de un Estado judío. Más allá de toda consideración práctica, mi convicción relativa a los fundamentos del judaísmo choca con la idea de un Estado judío provisto de fronteras, un ejército y una parte del poder temporal, aunque sea limitado. Temo que el judaísmo pueda algún día sufrir en su interior por el desarrollo en nuestra propia casa de un nacionalismo estrecho, contra el cual ya nos enfrentamos sin necesidad de un Estado judío».


Por su parte, uno de los intelectuales israelíes más importantes del siglo XX, Yeshayahu Leibowitz, gran admirador de Maimónides, no vacila, en 1994, en declarar que los soldados del ejército israelí y los colonos de los territorios ocupados eran “judeo nazis”. En una
serie de entrevistas sostuvo puntos de vista extremadamente críticos en relación al sionismo:


“El Estado de Israel pierde progresivamente significación de cara a los problemas existenciales del pueblo judío y el judaísmo, exclamó. De hecho ha dejado de ser el Estado del pueblo judío para convertirse en un aparato de opresión judía sobre otro pueblo. Ni uno solo de los problemas actuales del pueblo judío puede ser abordado en el
marco del Estado de Israel. (…) ¡El Estado de Israel se ha transformado en un
aparato de violencia! ¿Quién ha hecho nacer esta situación proclamando que no
existe el pueblo palestino? Golda Meïr, la ashkénatzi de los ashkénatzis. (Declaración al Sunday Times el 15 de junio de 1967)
Ya sabemos ahora lo que significa la consigna que dice que no existe el pueblo
palestino: ¡el genocidio! No en el sentido de una eliminación física, sino en
el de la eliminación de una entidad nacional y/o política”.


Yo podría citar, en su apoyo, a centenares de personalidades judías, de Maxime Rodinson a
Abraham Leon, pasando por Israell Shahak, Ernest Mandel, el poeta Erich Fried, el violinista Yehudi Menuhin,16que, en el pasado, condenaron sin reserva al espíritu de los crímenes del sionismo. En lugar de aumentar la irritación, sería conveniente su lectura para quienes desean poner fin a su alienación y convertirla en fuente de inspiración.

***

En nuestros días, algunas voces disidentes se siguen escuchando desde la comunidad judía. Pero se escucha en el caso de algunas de ellas, una especie de reticencia para tratar de esclarecer las desviaciones de las redes sionistas, los proyectos que éstas defienden y la política de Israel.


Es el caso de Noam Chomsky, pensador estadounidense anti imperialista, reconocido por su lenguaje directo al hablar Estados Unidos, pero extrañamente timorato a la hora de expresarse sobre el tema que nos ocupa. En 2006, al aparecer el artículo de John Mearsheimer y Stephen Walt, dedicado al tema del lobby pro-israelí en Estados Unidos, analizó la sugerencia que hacían los investigadores acerca de un “lobby pro-israelí informal”; Chomsky calificó el concepto de «etiqueta vacía», bajo el pretexto de que ese «lobby » tendría que incluir, según los investigadores, a «la mayoría de los miembros de la clase política e intelectual: la tesis pierde casi toda su consistencia », dijo Chomsky. Para él, pues, el lobby pro-israelí no existe porque está omnipresente, como si la potencia de un grupo de presión resultara anulada a medida que crecía. Esto no era más una coartada…


Al leer la crítica de Chomsky, el sociólogo estadounidense James Petras reaccionó así: «A pesar de su buena reputación, que es debida a su amplia cultura, su instrucción, su preferencia por el análisis y su denuncia de la hipocresía de los regímenes estadounidense y europeos, así como la precisión de su estudio de los engaños intelectuales de los exegetas del imperialismo, esas virtudes analíticas desaparecen totalmente cuando se trata de discutir sobre la génesis de la política exterior de EU en el Medio Oriente, y muy particularmente sobre el papel que juega el grupo étnico al que pertenece Chomsky, es decir, acerca del lobby judío pro israelí y sus apoyos en el gobierno».

Cuando se trataba de criticar la actividad de Israel en Estados Unidos, Chomsky se sentía intimidado. Felizmente, otras personalidades judías de su estatura salvaron el
honor. La periodista y cineasta canadiense Naomi Klein, una de los dirigentes de la corriente alter mundialista y autora del best-seller No Logo, fue una de los que tomaron parte, de manera decisiva y sin restricción, en el combate contra Israel, sus prácticas coloniales y sus
empresas guerreras.

En un artículo aparecido en The Guardian del 10 de enero de 2009, anuncia que el «tiempo del boicot había llegado». En ese texto planteaba una gran iniciativa: era necesario actuar ante Israel como, en el pasado, la comunidad internacional se comportó con Africa del Sur, el país del apartheid:
«Eso ha durado demasiado, escribió Klein. La mejor estrategia para detener esta ocupación cada vez más sangrienta es que Israel es ahora el objetivo del movimiento mundial que antes ha puesto final al apartheid en África del Sur. (…). Las sanciones económicas representan el arma más eficaz del arsenal de la no violencia: y renunciar al boicot se confunde con la complicidad activa»


Chomsky, el hombre reservado, y Klein, la mujer intrépida, se reencontraron, a pesar de todo, en el mismoTribunal Russell sobre Palestina, que apadrinn en compañía del egipcio Butros Butros Gali, antiguo secretario general de la ONU. Fundado en marzo de 2009, sobre el modelo del Tribunal internacional para los crímenes de guerra creado en la época de la guerra de Vietnam por Bertrand Russell y Jean-Paul Sartre, ese tribunal tenía por objeto «movilizar las opiniones públicas para que Naciones Unidas y los estados miembros adopten las medidas
indispensables para poner punto final a la impunidad del Estado de Israel, y para alcanzar una solución justa y permanente de este conflicto». El nuevo tribunal de opinión dará su fallo en 2010; por ahora está investigando los hechos. Por la parte francesa, se destaca la presencia prestigiosa del periodista Henri Alleg, el antiguo resistente Raymond Aubrac, el filósofo Etienne Balibar, el editor y escritor Eric Hazan, Stephane Hessel, embajador de Francia, uno de los iniciadores de la Declaración universal de los Derechos del Hombre, el genetista Albert Jacquard, Alain Joxe, director de Estudios en el EHESS; el escritor François Maspero; Gustave Massiah, presidente del CRID (Centro de investigación e información para el desarrollo), el escritor y antiguo embajador Eric Rouleau, el abogado François Roux, y el físico Gerard Toulouse.

Ante la lectura de estos nombres, la pregunta que surge es: ¿dónde están los intelectuales parisinos que militan por Darfur, a nombre de los derechos del hombre, con una vehemencia sorprendente, pues se trata de un país que nada vincula a la historia de los franceses en general, ni de los franceses judíos en particular? Bernard Henri Levy (al que los franceses se refieren como BHL), autor de una biografía de de Sartre, no parece querer seguir el ejemplo de su héroe cuando se trata de adaptarlo al tiempo presente. Ni él ni sus colegas, ni el CRIF, y ni mucho menos los políticos próximos de la mayoría presidencial; todo lo contrario: las redes pro israelíes francesas no toleran la menor crítica, creando así un entorno orweliano, donde la paz se convierte en el nombre de la guerra y donde la libertad se reduce a la esclavitud. Sus débiles argumentos les obligan a reclamar una verdadera dictadura del pensamiento para imponer puntos de vista que los hechos contradicen; y buena parte de las elites, animada por el temor de los suburbios (sospechosos de ser un refugio de terroristas en potencia en tanto que congregan a una fuerte población inmigrante), siguen sus pasos, como lo indica su silencio sobre ese asunto.


Es un hecho indiscutible que el judaísmo y el sionismo son entidades de naturaleza diferente. Uno y otro pueden cruzarse en un momento dado, reencontrarse, sobreponerse, pero también entrar en conflicto e incluso excluirse. Esta información capital ha sido disimulada por las redes pro-israelíes, que unifican estas dos nociones para satisfacción de los intereses inmediatos, sin parar en mientes por los daños que puedan causar. Antes de que una catástrofe nos llegue sería el momento, como dijo Naomi Klein, de que la comunidad judía de Francia denuncie el comportamiento irresponsable de sus representantes para comprometerse en un camino que la libere de las significaciones inmóviles y estereotipadas.

***

Mientras tanto, Israel pasó a ser nuestro socio privilegiado en el Medio Oriente. Insatisfecho de colocar a nuestro país a remolque de Estados Unidos (aun cuando el nuevo presidente estadounidense, Barack Obama, parece desconfiar de su homólogo francés), Nicolas Sarkozy ha comprometido a Francia en el circuito del sionismo. El presidente estaba convencido de que Francia era algo trasnochado en la medida que se negara a seguir la ruta trazada por Estados Unidos, y en realidad todo indica que es él quien baila a contra-reloj.

Su propuesta de los «dos Estados» como solución al conflicto israelí - palestino ya perdió cualquier seriedad. El embajador de Francia, Stéphane Hessel, antiguo deportado en Buchenwald, lo reconoció así hacia el final de 2008: «Poco después de la evacuación de las colonias israelíes en Gaza, y desde el confinamiento de este pequeño territorio que ha perdido el contacto con el mundo exterior, desde que es inevitable la presencia de Hamas por un lado, y el Fatah por el otro, la única solución que parecía ser razonable y posible (la de los dos Estados –el israelí y el palestino– viviendo codo a codo como resultado de una negociación) ya no es de actualidad. Todos nuestros interlocutores presentes nos dijeron: "¡Eso está descartado! ¡Eso ya no es posible!" ¿Por qué? Esencialmente a causa de la manera en la que los israelíes han proseguido la colonización de Cisjordania y nada han hecho para facilitar el trabajo de Mahmud Abbas; ninguno de estos problemas ha evolucionado en los años últimos, con lo que la solución de dos Estados ya es hoy caduca».

Sarkozy apostó por el triunfo de Israel; una apuesta que perderá. Pues como Estados Unidos, país del que Emmanuel Todd ha demostrado su decadencia irreversible, el primer efecto es que Israël queda también en situación de potencia en declive.

Mejor que nadie, Jacques Attali demuestra estar bien informado al respecto. Invitado por la Cámara de Comercio France-Israel para presentar su último libro, Une brève histoire de l’avenir, el ensayista declaró sin ambigüedad, y con el riesgo de conmocionar a sus interlocutores, que Israel está «condenado a desaparecer». No sólo como lo pretenden los sionistas, a causa de los países hostiles que le rodean, sino por el hecho de su propia evolución:

«El pueblo judío representaba el 10 por ciento de la población en el Imperio romano, pero constituye menos del 2 por mil en el mundo moderno”, informó el antiguo consejero de François Mitterrand. “Y la nación judía va a continuar su disminución por la inexorable asimilación y porque la identidad judía se mantiene cerrada a los nuevos habitantes. Además, la élite ya no es agrícola y, por tanto, sedentaria, sino tecnológica y, por lo tanto, nómada: es capaz de abandonar cualquier país sin sentimentalismo alguno, dirigiéndose a nuevos entornos que considere más favorables a su profesión. Sería necesario un milagro para que esta evolución se modifique».


En una conferencia ante el Fondo social judío unificado, en marzo de 2007, Attali pronunció de nuevo un discurso del mismo tenor:

« Nada es eterno en la historia humana, reconoció (…) La probabilidad de que la comunidad judía represente ahora una parte decreciente de la especie humana es una evidencia absoluta, debida a (…) la asimilación alcanzada por la vía de los matrimonios mixtos (…) En Israel propiamente dicho, expresó, se plantea la cuestión de la población judía en relación a las poblaciones vecinas, que son cada vez más numerosas en la región, y que en un periodo de 50 años, serán no sólo más numerosos en el amplio ámbito palestino, sino asimismo en el ámbito israelí. En una escala de 60 a 70 años será más numerosa sobre el territorio israelí la población no judía que la judía. Y no tardaremos en afrontar el hecho de que la población judía pasará rápidamente a ser minoritaria, a la vez que se debilita y se coloca en la vía de la extinción».

A imagen de Estados Unidos, Israel también está en vías de ser un país rechazado, lo que explica que se comporte de manera agresiva. El aplastamiento de los pequeños Estados (Irak, Corea, Cuba), por Estados Unidos; y el de los palestinos, Irán, Siria, Líbano, por Israel), no es un signo de poder, sino una confesión de debilidad, sean o no concientes de ello esos países agresores.

Los tiempos han cambiado; las alianzas evolucionan. Se pasa ahora por alto que Estados Unidos no ha apoyado a Israel todo el tiempo. En 1957, la doctrina Eisenhower planteaba el apoyo a los países árabes llamados «moderados». Al finalizar la década de los años sesenta la ayuda militar estadounidense a Israel, que había sido de varios centenares de miles de dólares al terminar la década de los años cincuenta, alcanzará la cifra de varias decenas de millones de dólares. Se trataba, entonces, de asegurarle una superioridad estratégica regional. Pero ¿qué pasará mañana? Si la protesta se hace mayor, el pueblo estadounidense podría empeñarse en poner un término a esta coalición. Y si no lo hace, Israel podría verse en la necesidad de jugarse el todo por el todo ¿Qué deberemos hacer ante este escenario inédito?

Al defender a Israel contra viento y marea, Nicolás Sarkozy demuestra retraso en su comprensión de la marcha de la historia y por ello conduce a Francia a un impasse. El mundo está en plena transformación: Rusia, China, América del Sur, al emerger provocan la caducidad de los viejos esquemas ideológicos y de las alianzas de los años setenta. Nuestro país, en lugar de consolidar un sistema que colapsa, debería interrogarse y reconducir las energías del Estado por una vía distinta de la que ha tomado Nicolás Sarkozy. Un nuevo ritmo repercutiría en favor de nuestro glorioso interés. Tenemos aún la posibilidad de integrarnos en una lucha emancipadora, como lo hicimos en la época de la Declaración de los derechos del hombre y nuestro gobierno no era el taparrabos del imperialismo. No dejemos pasar esta oportunidad.

La renovación de las alianzas nos permitiría ponernos a la vanguardia del radicalismo y a la altura de nuestra tradición moral. Pero seguir la política ciega del presidente de la República nos condena a convertirnos en una potencia supletoria en un juego la historia ya está condenando.

***

Como en Israel, la comunidad judía de Francia está al pie del muro; y no sólo la minoría judía en sí misma sino las capas superiores de la burguesía, que Sarkozy quiere poner a salvo de lo que se denomina el «peligro del suburbio», porque se encuentran en situación de riesgo a
medida que avanza la crisis.

Los sionistas privilegiados, judíos o no, ya actúan como perdedores puestos contra la pared. Su estrategia es suicida. La restricción de las libertades que han conseguido que el legislador imponga desde 1990 priva a la nación de expresión y la separa así de esta ultra minoría. El diálogo entre los representantes de la comunidad judía y el resto de la sociedad es sólo una simulación. Los sionistas se refugian en su torre de marfil y se transforman en exiliados mentales, que intentan consolarse diciendo que habrían estado mucho mejor amparados en Estados Unidos. Pero a imagen de Israel, Estados Unidos se está desintegrando también y los sionistas franceses no pueden escabullirse fuera del escenario….

De manera paradójica, asistimos, al mismo tiempo al triunfo de los valores judíos laicos («visión mundial», materialismo, confianza en el progreso por la ciencia, en la liberación que acarrea la libertad para los desplazamientos de capital, la libre circulación de mercancías y personas, las migraciones), valores regados ya en todas las capas de la sociedad. Son esos valores, y los intereses materiales subyacentes, los que atraen a los inmigrantes, y hacen que todos se sumen en la creencia que concibe a la globalización como proceso irreversible y positivo.

Históricamente, muchos son los judíos que trabajaron para aflojar rigideces, y para quebrantar las estructuras opresivas en las cuales las sociedades occidentales se ahogaban. Sus actividades comerciales distendieron las fronteras, y su oposición al pensamiento dominante hizo evolucionar mentalidades y comportamientos. El filósofo Spinoza (1632-1677) fue uno de esos espíritus grandes y judíos, subversivo hasta ser excluido por su propia comunidad. ¿Dónde están sus herederos disidentes en Francia? El pobre Alain Minc, quien publicó una biografía de Spinoza, fue condenado en 1999 por plagio de la obra de otro, el verdadero especialista Patrick Rödel…

Si se liberaran de sus representantes y se distanciaran de Sarkozy, los judíos de Francia podrían volver a desempeñar el papel de aliados de las mayorías lastimadas contra los poderes arcaicos y las minorías escleróticas. Pero necesitan volver a practicar la imaginación creadora, y para ello tienen que aceptar el fin de algunos de sus privilegios. Deberían proponer ellos mismos la abolición de dichos privilegios de estilo feudal, como lo hizo la nobleza francesa el 4 de agosto de 1789, dando el impulso decisivo a la revolución, en medio de una gran euforia popular.

Para nuestros tiempos, el equivalente sería exigir la abolición de la Ley Fabius-Gayssot, última ley que permite en Francia llevar presos a los franceses por delito de opinión, si los judíos consideran que se les está vejando en algo propio. Semejante exigencia, procedente de algunas personalidades judías, sería una señal inequívoca. Esta ley se dictó en momentos en que el Frente Nacional de Le Pen parecía ser un peligro, y se temía el auge del antisemitismo, en 1990. Pero ya la explosión temida no tendrá lugar, porque dicho partido está en plena decadencia; al contrario, es la permanencia de la ley anti-revisionista la que opera como una bomba de reloj, pues engendró otras leyes que amenazan la cohesión nacional. Ahora tenemos leyes que protegen a ciertas comunidades, a semejanza de esta ley concebida para proteger a los judíos, para armenios y negros, y ya se están planteando otras, como en la región de Vendea, en memoria del genocidio allí cometido por Robespiere: reviven y se multiplican los rencores históricos en competencia unos con otros; además la ley Gayssot alimenta cierto antisemitismo basado en el resentimiento, pues cada comunidad demandante de reconocimiento legal percibe a los judíos como aquellos que quieren mantener sólo para sí mismos el privilegio de una ley protectora. Ya el rechazo de la ley Gayssot, que va a cumplir veinte años, es algo que comparten franceses viejos y franceses nuevos, los jóvenes hijos de los inmigrantes.

En realidad, los blancos pobres, aquellos que alentaron a Le Pen en un tiempo en su campaña contra la inmigración, están pactando con los “morenos” de los suburbios, e imitándolos en su estilo, musical y mental; y naturalmente se identifican con los palestinos, sintiéndose tratados como palestinos en su propia tierra. Sólo se frenan en la expresión de la crítica a Israel los jóvenes que hacen estudios superiores, los que aspiran a formar parte de la élite dirigente. Pero el filosemitismo de los dientes para afuera no basta para fundar una opción verdaderamente nacional.

En tiempos de Internet, la juventud no soporta la represión ideológica, histórica o política. Por eso interpretan la ley Gayssot como un instrumento para garantizar la impunidad a los intereses sionistas. Mientras exista Internet como alternativa a la versión oficial, la Ley Gayssot actúa como un boomerang…

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Los judíos deberían tomar distancias también de aquellos irresponsables que toman la palabra en su nombre, sacar del escenario público no solamente al funesto Sarkozy, sino también a sus secuaces en sionismo Alain Finkielkraut, BHL, André Glucksman, y los que les siguen la corriente. Al CRIF debería sustituir un órgano de debate, en vez de que funja como el gran Sanhedrín que reparte condenas y beneplácitos. De hecho, ya se han oído disonancias; así el presidente de una de las asociaciones fundadoras del CRIF, el sr. Jacques Lewkowicz, ha cortado relaciones con el CRIF, por considerarlo “en ruptura con sus valores fundadores”, al negarse a invitar al partido ecologista y al partido comunista, para su cena anual de febrero de 2009.

Para resolver los problemas dolorosos que dividen a los franceses, como eutanasia o inmigración, las soluciones sencillas aparecerán fácilmente, a partir del momento en que la rigidez del CRIF se vea invalidada. Los franceses encontrarán nuevas definiciones de la felicidad y la justicia social, acorde con los tiempos, y en continuidad con su tradición intelectual de vanguardia del continente europeo. Una vez reconquistada la libertad de pensamiento, la nación le reconocería nuevamente su autoridad al Estado, y tendría fuerzas para exigir prioridades, tales como una educación nacional que vuelva a ser bastión de idealismo y base de moralidad en las relaciones entre clases sociales. Podríamos definir un proyecto de sociedad que no esté simplemente encajado en las ilusiones del crecimiento sin fin y el consumo desaforado. Volverían a ser creativos y respetados los intelectuales, artistas, escritores e historiadores franceses. Pero las aguas vivas del pensamiento, que hacen presión sobre la represa en estos momentos, amenazando con anegarlo todo, volverán a fecundar armoniosamente la tierra solamente si los promotores históricos de todas las libertades, esto que han sido los judíos en otros tiempos, deciden abrirles paso.

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Los franceses se encuentran ante una disyuntiva; emanciparse de los mandamientos de los representantes de las redes pro israelíes, volver a su tradición nacional republicana y asociarse a las luchas liberadoras de los países pobres para rechazar con ellos la tiranía del nuevo orden mundial, o entrar en decadencia junto con los amos del presente, en una muerte anunciada. Los judíos también pueden elegir: encontrarse más tarde o más temprano, en el banco de los acusados, o adelantarse a los antisemitas y crear las condiciones de la obra emancipadora. Nuestra nación no puede limitarse a ser una entidad opresora, y reducirse ella misma a la esclavitud, el colmo.

(Segue)

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