giovedì 4 giugno 2009

Citazioni: 1. Terrorismo.

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Di tutte le 450 pagine del libro di Fisk che ho finora lette la citazione che segue le vale tutte. Delle altre 500 e passa pagine che mi restano ancora da leggere non so. Capita ad ognuno di noi che ci colpiscano particolarmente alcune frasi o brani dei libri che leggiamo. In fondo un libro non è che una costruzione artificiale, una mera tecnica di scrittura, non necessaria. I filosofi antichi li abbiamo così bene interiorizzati anche perché di essi ci restano pochi frammenti su cui però si esercita tutta la nostra riflessione. Non potevo passare ad altra pagina del libro – dovrò pur giungere alla fine!| – senza prendere nota di questo suggestivo brano sul terrorismo. Nasce così l’idea di una nuova rubrica: brevi «Citazioni» che per loro brevità ben si prestano alla tipologia dei blogs. Beninteso, citazioni con un minimo di valore aggiunto, ché altrimenti sarebbe un mero copiare. Quando penso all’uso propagandistico del termine terrorismo, terrorista perdo facilmente la calma, quella compostezza di atteggiamento e di espressione che si addice all’età che avanza. Ma in questo sono ahimé rimasto sempre un ragazzino non avendo mai perso la capacità di indignarmi. Una delle immagini più indigeste che conservo al riguardo è quella del nostro attuale ministro degli esteri, Franco Frattini, allora però non ancora ministro di questo nostro disgraziato paese. La scena è uno dei tanti talk show televisivi dove Frattini era intervistato o interloquiva con una giornalista. Di tutto il contesto ricordo soltanto la giornalista che parlando della “restistenza” irachena all’invasione amicana diceva appunto “resistenza” o “resistenti” per indicare i combattenti che resistevano a chi invadeva il loro paese. Ebbene, questo figuro – lui sì calmo e con faccia bronzea – rimproverava la giornalista perché senza nessuna particolare consapevolezza o intenzione aveva detto “resistenza” anziché... terrorismo o terrorista. Credo che per il resto dei miei giorni il nome di Franco Frattini qualunque possa essere la sua ulteriore carriera e fortuna politica resterà sempre associata a questo istente. Giunge opportuno questo brano di Robert Fisk per bene esprimere l’uso mediatico del termine terrorismo che ci viene quotidianamente inflitto.

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La parola «terrorismo» è diventata il flagello del nostro vocabolario, la scusa, la ragione, la giustificazione morale della violenza di stato - la nostra violenza - che oggi ricade sugli innocenti del Medio Oriente in modo sempre più vergognoso e indiscriminato. Terrorismo, terrorismo, terrorismo. È un punto a capo, un segno di interpunzione, una frase fatta, un’orazione, un sermone, l’alfa e Iomega di tutto ciò che dobbiamo odiare per riuscire a ignorare l’ingiustizia, l’occupazione, l’assassinio su scala di massa. Terrore, terrore, terrore, terrore. È una sonata, una sinfonia, un’orchestra sintonizzata su ogni stazione radio e televisiva, su ogni dispaccio di agenzia, la telenovela del diavolo, servita calda in prima serata, o stancamente distillata nelle forme più noiose e mendaci dai «commentatori» di destra della costa orientale degli Stati Uniti, o dal Jerusalem Post, o dagli intellettuali europei. Colpire il Terrore. Vittoria sul Terrore. Guerra al Terrore. Guerra eterna al Terrore. Di rado, nella storia, soldati, giornalisti, presidenti e re sono stati tanto pronti a schierarsi compatti in questi ranghi stolidamente acritici. Nell’agosto 1917 i soldati erano convinti che sarebbero tornati a casa per Natale. Oggi, si è decisi a combattere per sempre. La guerra è eterna. Il nemico è eterno; cambia solo la sua faccia sui nostri teleschermi. Una volta stava al Cairo, aveva i baffoni e nazionalizzava il canale di Suez. Poi stava a Tripoli, vestiva con una ridicola uniforme militare, aiutava l’IRA e metteva le bombe nei bar americani a Berlino. Poi portava la veste di un imam musulmano, mangiava yogurt a Teheran e progettava la rivoluzione islamica. Poi indossava una veste bianca, e viveva in una caverna dell’Afghanistan, e poi ancora ripescava quegli stupidi baffi e risiedeva in una serie di palazzi intorno a Baghdad. Terrore, terrore, terrore. Infine, ostentava la kefiyah e una vecchia mimetica di taglio sovietico, si chiamava Yasser Arafat, ed era il signore del terrore nel mondo, poi un superstatista, poi ancora un signore del terrore collegato - a detta dei suoi nemici israeliani - al Meister di tutti i terrori, quello della caverna afghana.

(Robert FISK, Cronache mediorientali,
Il Saggiatore, 2006, pp. 450-51)


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Di Robert Fisk non condivido alcuni giudizi che sono contenuti nel suo libro. Ma non è questo il momento di parlarne. A mo’ di inadeguato commento alla sua splendida citazione vorrei qui rappresentare un caso ipotetico. In un documentario ho visto la scena reale, o almeno realistica, di un’anziana signora, araba, che abitava in una di quelle case di Gerusalemme che sono state espropriate, tolte, ai suoi originari proprietari, per poi passare in proprietà agli ebrei, sionisti o come si voglia, debba o possa dire. L’anziana signora che ancora ricorda perfettamente la disloacazione della sua casa si trova davanti ad un cancello che non può più varcare. Vede il giardino. Riconosce gli alberi. Ne intuisce le trasformazioni. Chissà quante volte la sera, forse tutte le sere, torna per vedere quella che era la sua casa, alla quale chissà quanti ricordi sono associati. Poi ad un tratto arriva una comitiva vociante, forse escono da uno di quei numerosi ristoranti di cui è esperto frequentatore Michael Sfaradi, come abbiamo altrove notato. Guardano la signora davanti al “loro” cancello e magari si chiedono chi sia mai. Qui finisce il documentario ed incomincia la mia immaginazione. E se quella signora, o un suo figlio, ritenendo che la sua vita non abbia più senso ad esser continuata, si introduce con un sotterfurgio dentro la casa, al cospetto dei nuovi inquilini, e magari imbottito di tritolo o di qualche potentissimo esplosivo, si fa saltare lui stesso con tutta la casa e i suoi abitanti? Bene! Cioè male. Da un punto di vista morale io qui non saprei dire chi è colpevole e chi è innocente. Durante la nostra gloriosa resistenza e non meno gloriosa guerra partigiana io ho sentito da più fonti, e ritengo ciò altamente verosimile, come i nostri eroici “terroristi”, ma legittimi “resistenti” – come recita la Cassazione – usavano fare attentati, salvando in primo luogo la loro pelle, uccidendo soldati tedeschi o italiani, anche civili di passaggio, sapendo che sarebbe seguita immancabilmente la rappreseglia e proprio per questo! Perché vi fosse la rappresaglia secondo contorti calcoli strategici. Ebbene, a me viene spesso da pensare alla differenza fra un attentatore che uccide altri mettendo in salvo se stesso e l’attentatore che uccide altri uccidendo prima se stesso. Esiste una differenza etica e morale? Le mie riflessioni al riguardo non sono ancora concluse ed ho davvero posto un quesito senza una tesi preordinata,

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