martedì 22 settembre 2009

I. L’apartheid dei Checkpoints: 1. Anin

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Dizionario del sionismo
«Non mi faccio illusioni: ci vorrà ben più di questo libro per ribaltare una realtà che demonizza un popolo colonizzato, espulso, occupato, e glorifica invece quello stesso popolo che l’ha colonizzato» (ivi, 220). I Lettori di “Civium Libertas” sono invitati a collaborare alla redazione di un Memoriale per ogni singolo villaggio distrutto durante la pulizia etnica del 1948 e negli anni successivi fino al nostro presente.

La pulizia etnica della Palestina non è un evento limitato e confinato nel 1948. Storicizzarre la Nakba sarebbe come consegnarla al passato ed accettarla con rassegnazione per il presente. In realtà il genocidio del popolo palestinese continua al presente, ogni giorno, sotto i nostri occhi. I “Territori Occupati” con i suoi “insediamenti e insieme con il reticolo dei checkpoints sono la continuazione del progetto politico del 1948, già implicito all’epoca del primo insediamento sionista nel 1882 e nell’ideologia fondativa del sionismo. Solo l’analisi costante della sua ideologia in tutte le sue attualizzazioni e riformulazioni ci potrà conentire di comprendere e spiegare quanto gli israeliani stanno facendo giorno per giorno e ci darà la speranza di poter forse i prossimi casi di genocidio e massacro. Voglio ripetere che la nozione di genocidio su cui mi baso non è la semplice soppressione fisica di un numero più o meno elevato o indiffererenziato di esistenze umane, ma la semplice volontà di scardinare l’unità organica di un popolo con le sue espressioni comunitarie (“capi”, lingua, costumi, religione, cultura, economia, ecc.) per trasformarla nell’hobbesiana o manzoniana moltitudine dispersa senza un nome, praticamente in profughi come possiamo largamente osservare. L’esistenza dei campi profughi è in questa accezione la prova vivente dell’esistenza del genocidio politico e culturale. Per chi non ha mai messo piede in Israele, ma vuol rendersi conto della realtà di un’occupazione finalizzata alla pulizia etnica e al genocidio, diventa piuttosto difficile comprendere il concetto di ckeckpoint. Ve ne sono innumerevoli e la loro funzione è di ostacolare al massimo la circolazione dei palestinesi. In pratica sono un popolo tenuto in condizione di prigionieri, di ostaggi. Le angherie sono continue e finalizzate a produrre l’abbandono del territorio. Certamente, la soluzione “finale” più propria sarebbe l’eliminazione fisica immediata di tutti i palestinesi, ma non è praticabile benchè molto desiderata. In una nuova serie di post che si aggiunge all’elenco dei villaggi distrutti nel 1948 ed alla ricostruzione della loro storia per quanto possibile, quindi all’elenco degli insediamenti colonici in Cisgiordania il cui numero e consistenza cresce continuamente, si aggiunge ora un elenco dei checkpoint, dove opera un’apposita organizzazione di donne pacifiste israeliane che stazionano ogni check point e forniscono testimonianze. Hanno un apposito sito: machsomwatch.org, che sarà la nostra prima fonte di informazione. L’elenco dei Chekpoints si trova a questa pagina. Il primo nome in ordine alfabetico è ’Anin. La documentazione più efficace sarà quella fotografica, se riusciremo a trovarne esplorando la rete o mantendoci in contatto con l’organizzazzione pacifista israeliana.

Links:
1. Machsomwatch.org -

1. → Abu Dis

Anin

Per l’ubicazione geografica si rinvia direttamente alla mappa. Il check point affligge le persone che sono residenti nel villaggio di Amin. Il passaggio è regolato secondo giorni ed orari. In pratica una forma di prigione. Le foto che seguono sono tratte dall’archivio fotografico Machsom Watch (MW) e vengono disposte in ordine cronologico. Le riproduciamo corredandole ed integrandole con i possibili commenti e con tutti dati che riuscimemo a trovare ora ed in seguito. Per le altre foto illustrative attingiamo liberamente dalla rete, ma in genere senza poterne indicare la fonte iconografica originaria, spesso non disponibile o irreperibile.

mw.anin
1.

22 marzo 2007

Si vedono qui dei palestinesi che attendono al “cancello agricolo”. Devono passare attraverso questo cancello per raggiungere i loro campi. Sul villaggio di Anin abbiamo trovato questa scheda:
«Il villaggio di Anin, sorge sulle colline a nord di Jenin. Qui il muro separerà alcuni insediamenti illegali confiscati arbitrariamente al territorio palestinese. Uno di questi, prima dell’invasione del 1967, era una cittadina palestinese, oggi completamente abitata da coloni israeliani. Quì, prima di costruire il muro, l’esercito israeliano ha seminato i filari di ulivi e i campi con volantini su cui era scritto l’ordine di esproprio militare motivato dalla costruzione del muro, con la possibilità di presentare un istanza per l’interruzione dei lavori presso l’Alta Corte Israeliana.

Sono 4.250 le piante di ulivo sradicate per fare spazio alla by pass road e al muro che dovrebbe proteggerla. Piante vecchie di centinaia d’anni, alcune delle quali note per essere di epoca romana, come del resto il villaggio stesso, i cui abitanti a volte trovano nei campi vetuste monete dell’antico Impero.

Oltre alle piante anche i pascoli per le greggi di pecore sono stati resi inutilizzabili, nonostante la pastorizia sia la principale fonte di reddito per gli abitanti del villaggio.

L’unica strada che da Jenin porta al villaggio di Anin, oggi viene spesso bloccata da un check point che impedisce il transito alle persone ma anche ai prodotti agricoli che non potranno trovare sbocchi appropriati sui mercati vicini.

Sono 680 i lavoratori di questo villaggio che hanno perso il lavoro a causa della costruzione del muro che, nella zona di Jenin, ha ritagliato almeno 1.500 ettari di terreno palestinese a favore dei coloni che vivono negli insediamenti.

Per quanto riguarda l’acqua i coloni ne hanno a disposizione cinque volte più dei palestinesi, che hanno perso il controllo delle loro falde acquifere. Molti sono i palestinesi che tentano di attraversare la nuova linea di demarcazione per andare a lavorare nei loro campi o anche semplicemente per recuperare alcuni dei loro beni rimasti dall’altra parte ma, molto spesso, vengono fermati e picchiati duramente dagli stessi coloni.

Non si può accedere ai campi neppure dalla parte palestinese del muro e una fascia che varia dai 50 ai 90 metri sarà spianata per ragioni di sicurezza.

In queste condizioni di grande difficoltà vivono gli abitanti del villaggio di Anin i quali, nonostante tutto, dichiarano che non abbandoneranno mai la loro terra, rivendicando una pace giusta che gli permetta di vivere in dignità sul loro territorio secondo le risoluzioni dell’ONU».

(Fonte: Peacelink, telematica per la pace. Palestina: progetto Go’el)

Diventa qui chiara la politica di genocido, nel senso del termine già precisato, volta a scoraggiare gli abitanti autoctoni, inducendoli con ogni sorta di angherie ad abbandonare la loro terra.

mw.anin
2.

22 marzo 2007
Fotografo: Su. S. con didascalia originale.

Anche qui, su un carro, i palestinesi aspettano al “cancello agricolo” che devono attraversare ogni giorno per raggiungere i loro campi.

mw.anin
← 3.
22 marzo 2007


Stessa storia.
mw.anin
4.
29 marzo 2007
Sempre lo stesso “cancello agricolo” che i contadini palestinesi devono attraversare ogni giorno per raggiungere i loro campi. Un’immagine vale 1000 parole, diceva qualcuno. Ma qui una sola immagine basta ad annullare milioni di parole diffuse ogni giorno dalla propaganda israeliano-sionista. È una propaganda rivolta anche a noi italiani. Dobbiamo respingerlo, facendo esercizio di verità.

mw.anin
5.
29 marzo 2007

La foto è stata scattata nello stesso giorno della precedente e descrive la stessa identica situazione. A mo’ di commento generale di cosa significano i checkpoints, oltre 500, riporto l’intervista di un’architetta palestinese che si trova su Rai 3 e che riprendo dall’Hasbara italo-torinese, cioè «Informazione Corretta», dove è istruttivo leggere gli infami commenti. La nostra attenzione si concentra sull’intervista e sono lasciati i corsivi messi dagli Infami che pensano di ingannarci con le loro menzogne e di renderci così complici dei loro crimini. Il podcast si trova a questo link. Ringraziamo gli hasbariani per la trascrizione, anche se bisogna prenderla con le pinze e si rinvia direttamente al Podcast per il testo integrale. Si parla di un libro di Suad Amiri Murad Murad, che esce in traduzione italiana e che è stato presentato in Roma alla Galleria Colonna. Purtroppo non l’ho saputo in tempo.
«Conduttore: “… insegna alla Birzeit University nella Palestina occupata”.

Conduttore: “Che cosa succede quando un palestinese cerca lavoro? Prova ad attraversare il muro per andare in Israele e cercare lavoro. È proibito, è molto rischioso, è molto pericoloso si può anche rischiare la vita […] è un viaggio che dura poco meno di 18 ore …”.

Suad Amiri: “Gli israeliani hanno suddiviso la Palestina in tante piccole aree. Quindi anche per noi, all’interno del paese, è difficile sapere quello che succede agli altri. Nel 2000 Sharon ha preso la decisione secondo la quale nessun palestinese avrebbe mai potuto più lavorare in Israele. All’epoca c’erano circa 200.000 palestinesi che di punto in bianco si sono trovati disoccupati”.

Conduttore: l’autrice del libro si traveste da uomo e “si unisce a questo gruppo di palestinesi che cerca di oltrepassare il muro, e comincia letteralmente questo viaggio, che è breve nel tempo ma lunghissimo. Proprio perché si passa da un mondo, che per molti versi è proprio come una specie di grande prigione, di grande gabbia e improvvisamente dall’altra parte del muro scoprono grandi strade, luci, un altro mondo”.

Suad Amiri: “Questa è la situazione. È vero che Israele continua a dichiarare di voler far parte del Medioriente …. Però più in realtà si parla di pace più ci sentiamo isolati e questo muro che è stato costruito è stato un atto veramente criminale perché ha danneggiato senz’altro il paesaggio, distrutto paesi e villaggi e, soprattutto, seppellito qualsiasi speranza che ci potesse essere la pace”.

Suad Amiri: “…. ci abbiamo messo 18 ore per andare dal Ramallah al villaggio dove i braccianti vogliono cercare lavoro. 16 di queste 18 ore sono state trascorse in Palestina dove i braccianti hanno subito ogni sorta di angheria, questa è la cosa impressionante”.

Conduttore: “Lo dicono chiaramente anche i personaggi del libro. Ma siamo a casa nostra, perché continuamente ci bloccate e ci perquisite, talvolta anche ci sparate?

Suad Amiri: “Ho conosciuto Murad un giorno quando è venuto a lavorare nel mio giardino. Mi ha raccontato ogni sorta di storia che riguardava la sua esperienza di lavoro in Israele. Mi era difficile comprendere quello che aveva vissuto. E, quindi, decisi di intraprendere questa avventura. Ma ci ho messo un mese per decidermi perché dovete capire che effettivamente i soldati israeliani sparano contro questi braccianti e li imprigionano. Se pensate che il nostro viaggio in partenza eravamo in 24 e siamo arrivati in 4 a destinazione, gli altri 20 sono finiti in prigione”.

Conduttore: “Forse non è abbastanza conosciuta questa situazione all’interno della Palestina occupata. Letteralmente ogni villaggio, ogni abitazione si trova come se ci fosse una frontiera. Continuamente c’è un posto di blocco. Come può nascere uno stato in queste condizioni?”.

Suad Amiri: “Vorrei partire da una nota positiva. Se Israele decidesse che già da domani potremmo avere lo stato palestinese le relazioni non sarebbero complicate. Il punto è che Israele vuole avere tutta la terra. Se oggi smettesse di costruire gli insediamenti e se si ritirasse da quel che rimane dal territorio della Palestina così come ha fatto nel passato dal Libano, già domani potrebbe nascere lo stato della Palestina. Il problema è che gli israeliani continuano ad appropriarsi della nostra terra. L’amministrazione Obama sta cercando di convincere gli israeliani a smettere di costruire su quello che rimane della Palestina, che è il 22% di quello che era il territorio originale. Il resto, il 78%, è Israele. Io provengo da Jaffa che oggi è Israele”.

Suad Amiri: “Cerco di descrivere la situazione della Cisgiordania perché pensate che in realtà questa è una zona piccolissima grande forse quanto l’isola d’Elba. Eppure in quest’area così limitata vi sono 500 posti di blocco. Nell’area di 35 Km di cui parlo nel libro ci sono un’infinità di posti di blocco ed è proprio per questo che abbiamo effettuato una buona parte del viaggio attraversando le montagne. Perché se avessimo voluto percorrere le strade non saremmo mai e poi mai arrivati a destinazione. Voi potrete immaginare quanto possa essere difficile muoversi e vivere in una situazione di questo tipo”.

Conduttore: “Cosa cercano i personaggio del suo libro? Cercano lavoro. C’è lavoro in Palestina per tutti questi giovani?”.

Suad Amiri: “Il lavoro non c’è, naturalmente. L’occupazione che dura ormai da 43 anni ha completamente devastato la nostra economia. E dall’oggi al domani Sharon ha deciso che nessun palestinese avrebbe mai più lavorato in Israele. Per questo 200.000 lavoratori non l’hanno più potuto fare, e questo ha danneggiato di riflesso la bellezza di un milione di persone. La nostra economia non si può sviluppare, non possiamo esportare, non c’è movimento di persone né di prodotti. Nel libro cerco di descrivere la situazione di quelle persone che non si arrendono a questa situazione. Sono persone che hanno famiglia e che devono trovare lavoro. Sono disposte ad iniziare a lavorare alle 2 di mattino, a lavorare la notte per non farsi trovare dai soldati israeliani. Da noi non ci sono neanche grandi prospettive. Oltretutto non vengono concessi i visti ai palestinesi”.

Conduttore: “E’ vero c’è un occupazione, c’è un muro, questa sorta di trasformazione in prigione di quel territorio. Ma l’Autorità Palestinese è sufficientemente democratica per garantire uno stato civile. Non c’è una responsabilità anche dell’ANP per questa situazione?”.

Suad Amiri: “L’ANP naturalmente ha delle responsabilità nei confronti dei lavoratori. C’è da dire che quando chi lavorava per l’ANP non aveva ricevuto lo stipendio tutto il mondo ne è venuto a conoscenza, mentre invece quando i lavoratori non solo non trovano lavoro ma non vengono pagati nessuno se ne interessa. L’ANP è fortemente limitata da Israele quindi non ha la libertà di cercare di far crescere in qualche modo questa economia”.

Suad Amiri: “Questo viaggio di 18 ore mi ha completamente cambiato la vita e il mio atteggiamento nei confronti dei giovani, dei lavoratori, degli operai. Fare questa esperienza è stato anche molto divertente. Ho sentito molti racconti. È entrato in gioco un po’ di tutto, delle storie d’amore, per esempio”.

Conduttore: “Uno dei punti più belli di questo libro è quando finalmente siete in Israele vi sdraiate in un parco e scoprite che quel parco è un’invenzione recente. Prima c’erano villaggi palestinesi da secoli, completamente cancellati. Ma allora questa storia del diritto al ritorno cosa vuol dire per lei?”.

Suad Amiri: “Questa è una parte del libro che mi tocca veramente. Veramente quando si parla della soluzione due stati è straordinario pensare a quanto i palestinesi abbiano dovuto accettare questo. Se pensate che io vengo da Jaffa, nel 1948 Israele ha cacciato dalla città ben 800.000 palestinesi. Tra il 1948 ed il 1952 sono stati rasi al suolo 420 villaggi. Durante il viaggio si parlava della destinazione di questa città israeliana “petatifka” [questo è quello che ho capito], mentre sentivo loro che parlavano di “mlavis, mlavis”. In realtà era il nome arabo della città. Alla fine quando arriviamo a destinazione ci fermiamo a riposare in un parco. Quando sento parlare di parchi in Israele entro in uno stato di agitazione perché dovete sapere che tutti i parchi in Israele in realtà sono stati costruiti su di un territorio che era precedentemente occupato da tante case palestinesi che sono state rase al suolo”.

Conduttore: “In realtà il rapporto effettivo con gli israeliani è migliore di quanto ci viene raccontato. Molte di queste persone che cercano di varcare la frontiera hanno qualcuno che gli offre un lavoro. Qualche volta ti inganna ma il più delle volte ti cerca, ti difende anche”.

Suad Amiri: “In effetti esistono dei forti tra le due parti. I braccianti rappresentano proprio un ponte. Murad come lo dobbiamo considerare? Un palestinese, un israeliano? Metà e metà? Ha iniziato a lavorare a 13 anni in Israele e si sente a suo agio lì, conosce la lingua, le strade. E quindi forse c’è già una parte che è pronta mentre forse noi intellettuali la situazione è ancora un po’ virtuale”.

Conduttore: “A Fahrenheit è venuto Jeff Halper che ha detto la sua proposta che non è tanto due stati e due popoli ma uno stato e due popoli”.

Suad Amiri: “Nel mio cuore vorrei una soluzione di questo tipo. Ma temo che questo non è quello che vuole Israele. Forse è questa la direzione in cui ci stiamo muovendo, vista la velocità con la quale continuano a costruire e ad occupare la nostra terra. Se si parla con gli israeliani, loro vogliono essere separati dagli arabi”.

Suad Amiri: “Questo libro racconta una storia comune in tante parti del mondo. In Palestina parlo dei braccianti illegali che ora sono lavoratori illegali nella nostra terra. Ed è una situazione molto strana questa perché si tratta di persone che nel 1948 appartenevano a questa terra. Oggi si trovano ad essere stranieri in casa propria. Come in Germania, dove ci sono 4 milioni di turchi che vivono e lavorano lì. Cosa sono esattamente: sono turchi, sono tedeschi? Lo stesso per i marocchini e tunisini in Francia”.

Conduttore: “Come sarà Murad tra vent’anni?”.

Suad Amiri: “Penso che aprirà un ristorante a Tel Aviv”`».


mw.anin
6.
17 dicembre 2007
Un palestinese viene interrogato prima di poter passare il “cancello agricolo”. Non avere documenti con sè puà essere fatale. Traggo dal libro di Suad Amirry, Murad murad, a p. 25 il brano che segue:
“Hai portato la carta d’identità?” ha chiesto Mohammad, spezzando quello spaventoso silenzio.
“Si, e anche un po’ di soldi,” ho risposto infilandomi la mano nelle tasche. Guidando, era difficile trovarli. Parcheggiata prudentemente la vettura sul ciglio della strada, sono scesa e ho frugato nelle tante tasche del giubbotto e dei pantaloni. Finalmente ho trovato la carta d’identità nella tasca posteriore dei calzoni. I soldi invece erano nella tasca sinistra, li sentivo con la mano. Si, adesso ricordavo, avevo messo soldi e documento in due tasche diverse, per essere certa che il denaro fosse al sicuro quando avrei mostrato la carta d’identità ai soldati di guardia al checkpoint. Sono risalita in macchina e mi sono rimessa alla guida nell’oscurità.
Questa brano mi fa ricordare il racconto di un amico polacco che aveva assistito ad un controllo di documenti. Terminato il controllo, il soldato israeliano – un ragazzino in armi – non restituisce il documento da mano a mano, ma lo butta per terra, costringendo il palestinese a raccoglierlo. Anche questo, naturalmente, può essere spiegato con ragioni di “sicurezza”: tutto quello che gli israeliani fanno non è mai angheria, sopraffazione, violenza, ma è sempre “sicurezza” e “autodifesa”, giacché qualcuno vuole “sterminare” gli ebrei e loro si difendono “sterminando” prima il supposto loro sterminatore. Adesso, sono stati forniti di bomba atomica ed ognuno di noi può dormire sonni tranquilli nel suo letto.

mw.anin
7.
27 dicembre 2007

Devono esserci stati problemi con i documenti, ma non ho capito bene la didascalia originale in inglese.
mw.anin
8.
7 aprile 2008
Fotografo: Ruti Tavel con didascalia originale: «Palestinian farmers, after crossing the gate of Anin, waiting for the army to open the seam line».

Contadini palestinesi che aspettano. Uno strazio che noi occidentali non riusciamo ad immaginare. Qualcuno però pretende di farci credere che “Israele siamo noi”. Nel modo più assoluto come italiano ad una sola cittadinanza e fedeltà rifiuto una simile identificazione con lo stato sionista ed etnocratico di Israele, che una simile propaganda tenta di coprire i crimini di un regime inaccettabile secondo ciò che noi pretendiamo di essere, cioè una comunità di popoli europei fondati su principì di umanità e rispetto per i cosiddetti diritti umani, ultima creazione della nostra ideologia coloniale.

mw.anin
9.
7 aprile 2008
Fotografo: Ruti Tuvan con didascalia originale: «Palestinian farmers, after crossing the gate of Anin, waiting for the armi to open the gate to the seam line».

mw.anin
10.
7 aprile 2008
Fotografo: Ruti Tuvan con didascalia originale: «Palestinian farmers, after crossing the gate of Anin, waiting for the armi to open the gate to the seam line».

mw.anin
11.
7 aprile 2008
Fotografo: Ruti Tuvan con didascalia originale: «Palestinian farmers, after crossing the gate of Anin, waiting for the armi to open the gate to the seam line».

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