giovedì 10 settembre 2009

Freschi di stampa e testi di studio: 25. Sergio Romano: «Lettera ad un amico ebreo» (2004).

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Dubito che il titolo scelto da Sergio Romano, Lettera ad un amico ebreo, per il libro qui da me letto in edizione Tea con un aggiornamento dell’ottobre 2004 serva ad attutire la violenza delle denigrazioni, e meno che mai critiche, di cui non mi è mai capire di poterne leggere nessuna degna di questo nome nella rassegna stampa sionista «Informazione Corretta», forse il peggio del peggio che si possa trovare in tutto quanto l’universo politico e culturale che tenta di sostenere le ragioni di Israele con un vocabolario ormai stereotipato, dove è fatica vana cercare uno snodo di ragionamento ed argomentazione che sempre si trova nelle analisi dell’ambasciatore editorialista. Anzi per meglio dire non editorialista ma titolare di una rubrica sul “Corriere della Sera” dove egli risponde a delle Lettere che molti lettori gli mandano. Da qui ho pensato in un primo tempo che abbia tratto il titolo del libro, ma poi lo stesso Romano chiarisce che gli “amici ebrei” sono Roger Weiss e Vittorio Segre, di cui traccia le linee biografiche. Del secondo amico mi chiedo se in qualità di combattente ebreo non abbia partecipato a quella che un altro ebreo, Ilan Pappe, chiama la pulizia etnica della Palestina nel 1948. Se così fosse, non trovo encomiabile la faccenda.

A lettura iniziata del libro, ed ancora fermi alle prime pagine, ci piace qui enunciare un prima associazione di idee, salvo a ricredersi se l’intuizione si rivelerà infondata. Il libro di Norman G. Finkelstein su L’Industria dell’Olocausto, dove si parla diffusamente di banche svizzere e altro, esce nel 2000, ben due anni prima della nuova edizione della Lettera di Sergio Romano, che però usciva in prima edizione nel 1997. Mi sarei aspettato che Romano ne parlasse ampiamente, o almeno ne accennasse nel 2002 o nel 2004, ma trovo dall’indice dei nomi una sola citazione di Finkelstein e non relativa all’Industria dell’Olocausto, direi il più noto e clamoroso libro di Finkelstein. In pratica, stranamente Romano ignora l’apporto essenziale di Finkelstein, pur avendone avuto il tempo di saperne. Distrazione? Qualcosa può sempre sfuggire alla propria attenzione, sia pure a quella di Sergio Romano, che ha sensibilissime antenne. Intenzionalità? Prudenza diplomatica? Cercheremo di capirlo.

Intanto, Romano si propone di tracciare una storia del Novecento entro cui poi collocare la faccenda dell’«Olocausto». In una certa misura, lo facciamo tutti, anche quando non scriviamo libri. Ricordo, girando per archivi, di aver letto un documento della seconda guerra mondiale che in modo ricorrente recitava in tedesco: “Questa è una guerra ideologica”. Ebbene, io sono convinto che la guerra ideologica non è mai terminata e ai vinti tocca come sanzione supplementare la costrizione ad assumere una determinata visione storica del Novecento, con al centro appunto la mitologia religioso-politica dell’«Olocausto», a prescindere dall’esistenza o non esistenza delle camere a gas, un dettaglio che serve a fondare quello stesso “crimine di genocidio” che in ogni caso prima e dopo il periodo 1943-45 si trova e si presenta in misura maggiore. Solo il pregiudizio e la sordità morale impedisce di riconoscere che la “pulizia etnica palestinese del 1948 supera in enormità lo stesso «Olocausto». Ma il semplice crederlo costituisce in molti paesi un divieto di legge. Siamo così giunti ad una barbarie di diverso genere ma ancora più grave: il genocidio di tutte le coscienze e di ogni intelligenza, che per continuare ad esistere si deve nascondere. Ma ci resta ancora da seguire l’approccio di Sergio Romano al problema evocato.

Giustamente Romano pone all’origine della letteratura olocaustica il libro di Hilberg. Rileva la sterminata letteratura successiva, ma manca l’osservazione che invece si trova in Finkelstein secondo il quale tutta questa immensa letteratura non aggiunge nulla di nuovo ed è di nessun valore, paccottiglia da supermercato, che però è generosamente finanziata dal governo israeliano e dalla Lobby che sull’«Olocausto» ha costruito una vera e propria industria, a parere di Finkelstein, un parere che non può farsi passare in silenzio. È ancora da osservare come nella ricostruzione storica del passato viga un divieto assoluto di assumere il punto di vista dei perdenti, dei vinti, i quali possono solo accettare la criminalizzazione che di essi viene fatta, di padre in figlio. La «colpa» deve essere assunta anche da bambini di otto/dieci anni, che in Francia stavano per essere costretti ad adottare un bambino morto in Auschwitz almeno 60 anni prima. A tanta follia, a tanta barbarie siamo tutti costretti. A quando la ribellione?

Nella parte del libro che ho finora letto – e che leggerò fino alla fine, insieme con l’altro volume sui “falsi” Protocolli – mi sembra che Sergio Romano, pur quotidianamente attaccato in modo assai volgare dai C.I., si mostri fin troppo “amico” ed assai poco comprensivo con le vere vittime della nostra epoca, cioè il popolo palestinese. Mi esprimo rapidamente e senza veli. È già sospetto che Romano non abbia detto nulla di Finkelstein e del suo volume sull’Industria dell’Olocausto. Da poi per scontata la veridicità dell’«Olocausto» senza considerare la letteratura revisionistica. Cita Raul Hilberg che è la fonte di una letteratura infinita e ripetiva sullo stesso tema. Ma non è ancora questo il punto che andrò sottilineando e sviluppando nel progresso generale delle mie letture comparate. Orbene, se Sergio vuol essere ancora più amico di Segre, dovrebbe augurarsi che i “revisionisti” o “negazionisti” abbiano ragione, perché se così non fosse occorre spiegare adeguatamente ed in modo plausibile e convincente il perché della «Shoah» o come altro si preferisce chiamarla: «Olocausto» e «Shoah» non sono equivalente, ma io parlerei genericamente di “stermimio” o “genocidio”, però non “unico” nè il più grave per antonomasia.

Se si va a leggere invece che la Lettera all’amico il libro di Sella, si trovano indicati i motivi che già prima del cristianesimo rendevano “antipatici” i cultori innanzitutto di una religione non propriamente improntata all’amore del prossimo. Perfino l’ebreo Lazare, il cui nome non trovo nell’indice, ammette che la causa dell’antisemitismo si trova negli ebrei stessi, i quali potrebbero nel Novecento averne combinate ai danni dei gentili di più grosse che per i secoli passati. Si puà credere almeno a Spinoza quando distingue fra odio “originario” che appartiene all’essenza dell’ebraismo e odio “derivato” che è la naturale reazione al modo in cui gli ebrei hanno vissuto presso popoli con i quali non hanno mai voluto saperne di integrarsi, di assimilarsi, pur convivendo per generazioni e generazioni. Insomma, non trovo per nulla sostenibile che gli ebrei nella storia non abbiano mai avuto nessuna “colpa” e che invece la colpa imperdonabile sia stata e sia tutta dei non ebrei, i quali non cesseranno mai di fare ammenda ed i quali possono al massimo riuscire ad avere il titolo servile e vassali di “giusti”. Credo che ci si dimostri “amico” degli ebrei nel voler dare credito, o almeno il beneficio del dubbio, a quanti affrontando il carcere sostengono che non vi sia mai stata nei nazisti l’intenzionalità del genocidio. Se però vogliono farci credere che sia come si sostiene comunemente senza diritto di replica, allora dovrebbe almeno degnarsi di spiegarci perché mai i tedeschi – il cui territorio un noto esponente dell’ebraismo nostrano – non voleva sorvolare neppure in aereo – avrebbero dovuto tanto odiare gli ebrei piuttosto che non zingari, omosessuali, asociali, comunisti, anarchici, ecc.

Storicamente, la reazione antiebraica è sempre venuta dal popolo che si trovava a godere i frutti della operosità ebraica, principalmente l’usura. Si potrebbe e si dovrebbe ripercorrere la storia dell’antisemitismo, mettendo in evidenza le più disparate ragioni che hanno prodotte le innumerevoli espulsioni degli ebrei da tutti i paesi dove sono vissuti e dove non sono risultati mai graditi. Mi disturbano poi in Romano, uomo di vaste letture, i vaghissimi accenni al mazzinianesimo come vago parente del sionismo. Per confutare il nostro Presidente e i suoi occulti Consiglieri mi sono accinto alla lettura dei Cento volumi dell’opera omnia di Mazzini: sono ancora al terzo e la strada da percorrere è assai lunga. Per quella che è stata la mia percezzione scolastica del Risorgimento e del nome di Mazzini che vi è strettamente legato non posso neppure concepire di vedere minimante collegata la storia della nostra identità nazionale e del suo “risorgere” con la pulizia etnica, con il razzismo, con l’occupazione coloniale, con l’apartheid, che malgrado tutte le acrobazie apologetiche e propagandistiche restano imprescindilmente legate al sionismo.

Non credo che l’ampio brano di Paolo Orano, riportato da Romano a p. 89 e qui trascritto:
«Ma perché si deve dar rileivo a questi elementi e titoli di civismo per porli a difesa della religione ebraica? A chi può importare che Ettore Ovazza sia di religione ebraica […]? Perché si deve dare un rileivo speciale, distaccato, ‘ebraico’ degli Italiani che si sono battuti nella Grande Guerra, che hanno ricevuto il segno dell’ardimento, del sacrificio, della gloria, che sono morti per la loro patria? Si domanda se questi italiani, per il fatto parzialissimo, tutto intimo e sentimentale, d’essere i fedeli religiosi del Dio israelitico, suppongono, o più esigono, di acquistarsi un titolo eccezionale per avere compiuto il dovere, che era obbligazione, di battersi per quella che dicono essere la patria […]» (ivi, p. 89-90).
Non credo che questo sia un “sofisma”, come dice Romano, e lo ringrazio per avermi indicato questo dibattito degli anni trenta, che mi andrò a leggere direttamente sui testi d’epoca. Intanto, vorrei qui accennare ad una mia acquisizione recente, di cui sono debitore a Mariantoni, per avermi fatto leggere un suo inedito. Le leggi razziali del 1938, in sé non più scandalose della odierna legislazione israeliana istitutiva di un apartheid, non vanno spiegate né con una metafisica del Male né con un’influenza germanica, ma proprio con la constatazione dei legami sionisti che si sono andati scoprendo a partire dalla guerra civile spagnola. Un normale italiano, se oggi ancora esiste il valore racchiuso nel nome e nel concetto di patria, non ha bisogno di giustificare con attribuzioni esterne la sua dedizione alla Patria. Ha fatto e basta. Lo ha fatto perché era naturale e spontaneo farlo. Invece, ancora oggi si assiste al ritornello: mi devi una speciale gratitudine perchè io, esterno, ti ho fatto questo, oppure al rovescio tu in quanto italiano sei in colpa con me perché mi avresti fatto quest’altro, ritenendomi non italiano. Dove sta il sofisma di cui parla Romano? Starò attento a comprenderlo nel prosieguo della lettura, ma intanto credo che sia incontestabile la separatezza che l’ebraismo ha sempre preteso per sè e che è del resto essenziale alla sua esistenza: io esisto e posso esistere in quanto sono distinto da te, in quanto religiosamente parlando il sono popolo eletto nella famiglia di popoli che gerarchicamento – io credo – si collocano su un piano inferiore. Si cerca insomma il razzismo dove è dubbio che ci sia, ma non lo si vuol vedere dove è certo che invece si trova. La rivoluzione cristiana è stata in fondo il superamento del razzismo ebraico. Il “deicidio” è soltanto un aspetto secondario, fenomenico, non costitutivo delle profonde ragioni metafisiche e religiose che in in duemila anni hanno separato ed opposto cristianesimo ed ebraismo. Oggi il trattino che unisce il giudaico-cristiano che si pretende di porre come “radice” di un’Europa che ha fortunatamente una storia ben più ampia è il segno della confusione teologica, dello smarrimento seguito al Concilio Vaticano II, non immune dal lobbismo che ha già minato la sovranità politica della Federazione statunitense e che sarà probabile causa della sua rovina, se si dovessero avverare le previsioni di alcuni analisti.

Non riconosco l’abituale acume di Sergio Romano quando scrive, a p. 99, per abbozzare la situazione degli ebrei nel 1938: «Non si spiega altrimenti lo straordinario numero di ebrei che furono generali, ministri, presidenti del consiglio, etc.» Egli intende dire che gli ebrei italiani furono ben lieti di cogliere le opportunità offerte, in tutta Europa, dalle nuove leggi che ponevano termine alle discriminazioni che vi erano state fino alla rivoluzione francese. Romano parla di “generali, ministri...”, non di contadini, calzolai, netturbini, etc. mestieri umili ma dignitosi e necessari perché una comunità nazionale possa esistere e su di essa prosperare i ceti che traggono i loro lucri dalla rappresentanza politica, dagli interessei bancari, da un’utenza pagante servizi che ai loro erogatori fruttano in genere più di quanto un contadino, un calzolaio non possa permettersi in beni materiali ed agi della vita. In altri libri, ad esempio quello di Sella, si apprende come gli ebrei non si siano mai interamente legati al popolo “ospite” al punto di essere la stessa identica cosa del “ministro” o del “contadino, calzolaio, etc.”. Si spostavano da una parte all’altra dove potevano trarre vantaggi, in genere nelle grandi città e nei grandi centri dove esercitavano storicamente l’usura, ma via via tutte le professioni anche burocratiche che fossero più lucrose. Che la ricerca del lucro, anche in senso non strettamente patrimoniale fosse una costante degli ebrei, mi pare sia un dato incontestabile.

Insomma, direi che non si può concepire l’ebreo o più esattamente che l’ebreo non possa concepire se stesso se non sotto il segno della separatezza, del suo essere altro all’interno di una comunità di cui ha pur bisogno per poter prosperare, per i suoi traffici, per l’esercizio storico dell’usura. Forse potremme immaginarci come parallello una sorta di società massonica che a vantaggio dei propri affiliati si studia e concerta un sistema di relazioni verso la restante comunità che non ha al suo interno speciali relazioni di secondo o terzo livello. Gli italiani, francesi, tedeschi, ecc., sono unicamente italiani, francesi, tedeschi, ecc, senza avere o assumere un’identità e solidarietà di secondo e terzo livello. Ricordo una volta di essermi trovato ad un gioco delle tre carte, dove il “compare” stava per farmi cascare nella trappola, ma che si lasciò scoprire e rivelare per tale. Ebbene, era quella un’associazione di altri finalizzata unicamente a mio danno. L’esempio non vuole essere offensivo ma è uno sforzo per far capire che all’interno di comunità più grandi possono essere più ristrette comunità il cui scopo è di trarre profitto dalla comunità più grande, diciamo da tosare. Questo spiegherebbe perché in fondo le comunità ebraiche siano sempre state delle minoranze all’interno di più grandi comunità al cui servizio – diciamo – si ponevano, diventando non già contadini, ma ministri, banchieri, medici, ecc. Si può anche pensare – qualcuno lo ha pure detto – che siano particolarmente intelligenti, e dunque diventano ministri, etc. Francamente, non lo credo. Per fortuna l’intelligenza è equamente distribuita dal buon dio e di certo può più o meno favorità da educazione e fattori ambientali, condizioni che in una società giusta e democratica bisognerebbe garantire a tutti.

Meglio si legge in Sella come purtroppo capitino in ricorrenti periodi storici situazioni in cui la stragrande maggioranza di un popolo guardi con un senso di estraneità quelle che al suo interno si caratterizzano, per loro stessa volontà, come comunità separate. Evito di riportare la casistica che si trova in Sella, al quale rinvio. Per tornare al 1938 credo che Sergio Romano ignori o oglia ignorare tutte quelle cause che provenendo dall’interno stesso dell’ebraismo abbiano provocato le ben note e pur deprecabili reazioni. Ma non se ne esce in ogni caso demonizzando le reazioni all’ebraismo che sempre nella storia sono esistite e volendo ora costituire, per le armi americane, un titolo colpevolizzante e risarcitorio perpetuo a favore di comunità ebraiche, che a termine ciclo – a mio avviso – produrrebbero un rigetto analogo a quello dei secoli passati.

È ben vero che il vincolo nazionale si è indebolito, a furia di Giorni della Memoria, Olocausti e colpevolizzazioni di ogni genere della generazione dei nostri padri. Nelle celebrazioni del 2008 mi sono imbattuto in un anziano signore ebreo che veniva fatto girare per le scuole a difre e insegnare che “gli italiani non sono brava gente”. Gli ho chiesto senza ottenere risposta – costoro infangano e non rispondono mai del loro fango – dove si troverebbe la “brava gente”, dove cresce la pianta che la produce. Contrariamente a quanto mi sembra dica Romano, il punto è dove e su che base si possa e si debba collocare il sentimento nazionale ed il vincolo che tuttavia ancora esiste, se pure di molto attenuato, con un Bossi che sappiamo essere quel che dice di essere. Perché mai all’occorrenza dovrei dare la mia vita per un altro per il quale sono io poco più di nulla. Se mi riconosco solo ed unicamente italiano come posso condividere un eguale sentimento nazionale o di cittadinanza con chi considera solo in modo transeunte e strumentale la sua permanente in un paese che nel mio caso si chiama Italia e dove ho radici più che millenarie senza poterne avere altre. L’alternativa sarebbe l’apolidia. Mi piace riportare questo brano dell’ambasciatore:
«Siamo tutti orgogliosi della nostra ascendenza. Quanto più una famiglia può risalire nel tempo, tanto più ha il diritto di vantarsi della propria continuità e autocoscienza. La ricostruzione dell’albero genealogico non è soltanto passatempo araldico di qualche sfaccendato, afflitto da nostalgia o da snobismo. È l’occupazione di uno spazio nel tempo della storia. Poco importa… (ivi, p. 100).
E se è così, come dice l’ambasciatore Romano, io posso vantare più di mille anni di radicamento italico e che io sappia non vi è nessuno che possa vantare altrettanto. Neppure gli ebrei che con la terra non hanno mai avuto radicamento. Mi ha particolarmente indisposto un loro attacco, dove si pretendeva di attribuirmi un’ascendenza ebraica. Senza cosiderare ciò un’onta, ho trovato la cosa totalmente destituita di fondamento e per studiare a fondo le mie radici ho addirittura costituito un’apposito blog: Cuncti una gens sumus con annessa Community, al cui aggiornamento mi dedico di tanto in tanto. Alemanno permettendo, forse alemanno non solo di nome ma anche di fatto, sento la mia identità millenaria affatto estranea a quella ebraica. Curiosamente, fu proprio un Caracciolo, del ramo dei Carafa, papa Paolo IV ad aver ribadito questa incompatibilità che non mi sembra casuale. Spero che un giorno, se mai posso prenderlo in contraddittorio, possa spiegarmi come io possa e debba regolarmi. Emigrare io? Dove? Sulla luna? In qualche prigione austriaca a far compagnia a David Irving? Contesto nel testo di Romano il “brevetto di nobiltà” dell’ebraismo. Qui siamo proprio agli antipodi e se mai a Sergio Romano capitasse su queste mie righe vorrei invitarlo a leggere i testi talmudici per rischiararsi meglio le idee sul suo concetto di “nobiltà”.

Insomma, mi aspettavo di più dal libro di Sergio Romano, ma sono solo a pagina 100 su 172. Può darsi che nell’altra metà del libro io possa trarre qualche maggiore utilità. Fino a questo momento, però, non ho letto nessun rilievo critico verso l’ebraismo da parte di Sergio Romano. Forse pensa che questi rilievi non esistano o non si possano fare. Dobbiamo aver pazienza. I libri devono essere letti fino alla fine. Sembra fin qui che Sergio Romano si sia lasciato sedurre dal suo amico ebreo. Non ha per nulla finora considerato le negatività dell’ebraismo, che sono le stesse per le quali una figura, non importa se storica o meno, di nome Gesù Cristo ha fatto capire che non vi era assolutamente nulla di “nobile” nel ceto da cui proveniva e da cui si è distaccato, venendo compensato con la morte in croce, una morte che oggi dopo duemila anni gli viene inflitta nuovamente.

La Lettera è datata, come è inevitabile che sia ogni libro, che esce sempre in un determinato anno. Ad esempio, leggo di Avraham Burg, di cui Romano parla in alcune pagine, ma senza presagire affatto che egli è oggi per le bocche più virulente e volgari del sionismo non più un ebreo, ma une ex-ebreo, creando così una nuova figura accanto a quella dell’ebreo che odia se stesso. Burg è oggi critico verso Israele ed il sionismo molto più di quanto non lo sia lo stesso Romano che è tuttavia attaccato quotidianamente dai sionisti come se fosse il peggiore loro nemico. La Lettera ci sembra più datata anche rispetto al libro di Sella, dove si legge di una definizione dell’antisemitismo da parte degli ebrei stessi: quella del capro espiatorio, che è quella che lo stesso Sergio Romano ci sembra adotti. Insomma, Romano non tocca una questione a nostro avviso indubitabile: l’ebraismo ha elementi essenziali inerenti alla sua stessa natura tali da renderlo lecitamente criticabile e non desiderabile. Su questi aspetti il libro e le analisi di Sergio Romano, per la parte già letta e salvo quanto resta da leggere, ci sembra elusivo. Se così, si tratterà di comprenderne le ragioni. Forse che egli stesso ha ascendenze ebraiche? È una congettura tutta da verificare, ma non certo un insulto. Ho difeso e difendo quotidianamente Romano dagli attacchi quotidiani del “Corretti Informatori”. Ho persino redatto un Appello in sua difesa. Non se se Romano ne abbia mai avuto notizia e di certo non gli chiede nessun ringraziamento o gratitudine. Non gli presento il conto, ma mi riservo anche con lui la mia abituale autonomia di giudizio critico. L’istruttoria non è conclusa e vado scrivendo queste note via via che procedo nella lettura, che interrompo quando mi viene in mente qualcosa meritevole di essere annotata per iscritto, allo scopo di non dimenticare e salvo rettifica successiva.

Ed eccoci finalmente arrivati alla fine del libro, dove Sergio Romano parla del «meschino revisionismo di coloro che cercano di negarne l’esistenza o di computare le vittime riducendo la loro somma di qualche centinaio di migliaia» (p. 163), sapendo evidentemente Sergio Romano quello che io ignoro, non avendone certezza o contezze né per conoscenza diretta – non esiste una simile persona – nè per cognizioni attinte da altri e di cui possa o debba fidarmi. Per me è non «meschino» ma orrendo il fatto che vi siano migliaia di “nuovi ebrei”, di discriminati e di vittime, che finiscono in galera e sono in pratica emarginati dall vita sociale, civile, culturale, politica per il solo fatto di avere opinione diverse da quelle dello stesso Romano, pur così liberale e di ampie vedute. Il capitolo precedente, dove parla della politica teologica del papa vivente quando la Lettera all’amico ebreo venne scritta, cioè Giovanni Paolo II, mi sembra invero alquanto fantasioso, una fantateologia. Ne dovremmo concludere che Gesù Cristo in fondo morì di raffreddore. Del resto, l’esegesi biblica – nei suoi sforzi di aggiornamento e di adattamento alle necessità politiche del momento – è capace di autentiche acrobazie fino a farci credere il contrario di quello che è stato scritto. In fondo, Sergio Romano non trova nessuna negatività intrinseca all’ebraismo. Verrebbe da chiedersi perché mai il mondo antico non si sia tutto convertito all’ebraismo anziché al cristianesimo.

Ma non è mai troppo tardi. Si potrebbe anche credere – opponendo la nostra fantateologia alla fantateologia dell’ambasciatore – che il passaggio successivo dell’omaggio al “fratello maggiore” sia un ritorno di tutta la cristianità all’ebraismo, con un papa che si faccia circoncidere e che sostituisca al rito del battesimo quello della circoncisione. Nulla è astrattamente impossibile. Da cattolico battezzato con diritto di opinione anche in materia ecclesiastica sono del parere che sia ontologicamente inconciliabile la visione religiosa dell’ebraismo e quella del cristianesimo. L’ibrido giudaico-cristiano che ne sta venendo fuori tornerà o a vantaggio dell’Islam, o della miscredenza generalizzata, ovvero – mi augurerei con tutto il cuore – ad una sorta di ritorno a quella religiosità “pagana” che i monoteismo hanno estirpato – tutti concordi – con la violenza e con ogni altro mezzo utile e possibile. Non ritengo che la religiosità – ne avevano una! – che fu dei greci e dei romani fosse di rango inferiore a quella giudaico-cristiana.

E del resto se nel mondo antico – tolti i fattori esterni di imposizione – il cristianesimo, anziché il giudaismo, ha potuto allignare, è stato a mio avviso perchè è stato depurato di ogni scoria barbarica, antisociale dell’ebraismo – o Antica Alleanza –, si è tolta la ferocia disumana e razzista che lo ha sempre caratterizzato fino ai giorni nostri. L’odierna politica israeliana, che all’ebraismo si richiama, ha prodotto già alla sua nascità una pulizia etnica, un genocidio, in nulla inferiore al mito fondativo della Shoah, di cui – mandando in galera i “meschini” (?) storici revisionisti – si vuol evitare ogni trattazione condotta con metodo storico. La nuova barbarie non è se le camere a gas siano o non siano esistite, ma il fatto che nelle camere gas vi si mandi oggi tutte quelle persone che intendono indagare sul quesito, che si vuole invece assumere misticamente. Allo stesso modo in cui per secoli si è proibito ogni indagine storico-critica sulla figura di Cristo, per la quale è necessario un humus non storico, ma metastorico che ne trasfiguri il simbolo religioso, oggi sorprendentemente a pochi anni dell’evento si vuol creare lo stesso terreno mistico che mal sopporta la verifica storico-fattuale.

Ma anche dovessimo considerare come “vero” ciò di cui per l’ambascasciatore è «meschino» (?!) il dubbio resterebbe irrisolto il perché l’evento si sarebbe verificato. Noi non abbiamo trovato nessuna spiegazione soddisfacente in tutta la Lettera, viziata certamente non da «anti»semitismo, ma certamente da un acritico «filo»semitismo che non mi sembra renda giustizia all’abituale acume del raffinato diplomatico di carriera. Non mi sembra che questo pregiudizio filosemita, o meglio filogiudaico venga meno nelle pagine successive dove Romano sembra rivendicare i diritti della libera ricerca storiografica. Per quanto posso seguo le eventuali maturazioni attraverso le altre Lettere dove sul Corriere risponde a Lettori che spesso gli pongono quesiti su materie scottanti, Inoltre, di tutta la letteratura revisionistica l’ambasciatore non sembra conoscere altro monsignor Vitaliano Mattioli, quando vi è ben altro. Va però riconosciuto che l’orizzonte bibliografico dell’appendice si ferma al 1997. Direi che qui sia stato ignorato il dibattito storiografico che vi è stato e che a mio avviso mette in crisi tutta la letteratura sorta sulla scia di Raul Hilberg, ossia Il gigante dai piedi di argilla. Evidentemente, Sergio Romano resta il diplomatico che è sempre stato. Un diplomatico non valuta il principio di verità, o il principio di libertà della ricerca e del pensiero, ma il rapporto di forze esistenti ovvero delle convenienze e delle opportunità del momento. Un diplomatico non è un filosofo e a lui non si può chiedere un passo verso la follia, o addirittura la morte, come ad esempio Socrate prima di ogni martire cristiano volle affrontare, pur avendo aperta la porta della prigione.

Sergio Romano mi delude. Avevo sentito più volte citare la sua Lettera a un amico ebreo ed era sorto il bisogno, la curiosità, l’obbligo di leggerlo. Lo abbiamo fatto. Non ci pentiamo di averlo fatto. Scopriamo che non è certamente lui il Messia della libertà di pensiero in Italia e in Europa, che resta a mordere la polvere sotto il tallone che i vincitore del 1945 hanno sulla schiena e sulla testa di ogni nato dopo quella data. Il problema ha una portata più generale degli interessi confessionali e politici di ebrei e cristiani. Riguarda la libertà di coscienza e di pensiero di ogni cittadino europeo. Riguarda tutto il mondo asiatico e africano cui si vorrebbe la nuova holocaustica religio, uscita dalla disfatta europea del 1945. Possiamo accettarlo? Dovremo soccombere? Abbiamo la forza di resistere? Ci verranno a prendere nelle nostre case? Ci priveranno del nostro lavoro? Ci uccideranno? Ci porteranno nelle “nuove” camere a gas?

(segue)

* * *

Riprendo l’elaborazione di questo post dopo non poco tempo. Può anche darsi che abbia a rivedere i giudizi sopra espressi. L’occasione di è ora data dalla “Risposta” pepata dell’amico, che sarebbe Sergio I. Minerbi, il quale papale gli risponde «quali lettere ella scriva ai nemici, se questa è una lettera indirizzata ad un “amico”» (p. 7). Non so se Sergio Romano sia lontanamente anche egli un ebreo, ma noi che siamo terzi andiamo a commentare davanti a tanta pubblica villania, quanto siamo lieti di non avere “amici ebreo”, se è loro costume di rivoltarsi pubblicamente in questo modo. Intendiamoci, non posso escludere che fra i miei numerosi abituali conoscenti ed amici ve ne siano di ebrei, ma non mi sovviene, non l’ho mai chiesto loro né mi interessa o attrae questa loro qualità. Sto leggendo il libretto di Minerbi, di pagine 75, e se voglio scriverne qualcosa, mi conviene farlo via via che avanzo nella lettura. Altrimenti, conoscendomi, non credo che vi ritornerò più sopra, attratto come sono da altri e più pressanti interessi. Mi limito però a quelle osservazioni che a me vengono spontanee. Non pretendo che siano particolarmente acute e intelligenti.

Minerbi rimprovera a Sergio Romano una “leggerezza” e “imprecisione” nella materia da lui trattata. Vediamo quali sono queste imprecisioni e quale la leggerezza. Mi sono imbattuto una volta, in internet, con un oppositore/denigratore dove si infastidiva a proposito del libro tanto contestato di Ariel Toaff sulle «Pasque di sangue» che vi fossero persone, gentili, che si interessassero del libro avendo una percezione diversa da quella che poteva avere il signore in questione o forse un qualunque “ebreo” o “giudaita”, come invece mi insegna si debba dire un mio dotto amico, che alla materia ha dedicato un’attenzione trentennale. Infatti, mi spiega lui, propriamente, gli ebrei non esistono, non sono una societas “naturalis”, bensi solo una societas “naturalis”, ed anche poi all’aver inventato la religione che praticano non cose non starebbero esattamente come le raccontano.

È vero che Romano ha una invidiabile facilità di scrittura, che io in qualche modo sto qui tentando di emulare. Ho scoperto piuttosto tardi che se uno esita troppo nel mettersi a scrivere, finisce che non scrive più per niente. E dunque è bene annotare che la mente ci porta, salvo poi ricredersi e rivedere, piuttosto che far seccare l’inchiostro della penna. Di rado comunque Romano è banale e manca di acutezza. Non mi sembra che sia questo il caso. Toccando temi delicati, avrebbe fatto meglio a non dedicare la Lettera a questo suo amico, a meno che non fosse uno stratagemma apposta studiaro per provocare una reazione, invero piuttosto pesante.

Viene da chiedersi quale dovrebbe essere la conoscenza che secondo Minerbi gli altro dovrebbero avere dell’ebraismo. Con una religione, una dottrina, un movimento politico, ognuno di noi si rapporta secondo la propria sensibilità e ciò che ne risulta è la conoscenza che noi abbiamo dell’oggetto, una conoscenza che è la nostra e che è la sola che ci può interessare. Se avessimo la stessa identica conoscenza e valutazione del Minerbi, probabilmente ci troveremmo circoncisi, ma ecco che già il solo pensiero ci fa rabbrividire. Ed invece Minerbi ci dice che dobbiamo metterci alla sua scuola e guai se non apprendiamo con profitto. Manco a farla apposta leggo di un esempio che ricordavo leggermente diverso dalla vecchia lettura del libro di Romano. È a proposito della carne di maiale, mentre io invece forse confondevo con la circoncisione. Si tratta di un dialogo fra il menzionato Alain Elkann e il rabbino Elio Toaff, padre di Ariel. Credo sia lo stesso Elka che sta propagandando la doppia cittadinanza, italiana e israeliana, sprezzando chiaramente la confusione che mi crea non sapendo io come considerare questa figura bifronte.
«Perché gli ebrei non possono mangiare carne di maiale o crostacei? Per creare una separazione, risponde con candida franchezza il rabbino».
E guarda caspita cosa mi è successo pochi giorni fa in una tavola calda, vicino casa, gestita da un musulmano, dove vado ogni tanto a prendere delle pizze o altro. Mentre attendevo le pizze, ricordando che in una precedente gestione i conduttori erano ebrei e servivano i loro piatti tipici. Ricordo di avere allora una volta comprato un pollo. Sapendo vagamente della peculiarità della cucina ebraica e delle loro ritualità, chiesi al gestore musulmano se sapeva spiegarmi da un punto di vista puramente culinaria-commestibile la differenza fra quella cucina e ciò che io, di religione cattolica, mangio normalmente. Anzi devo aggiungere che quando posso mi piace anche provare tutte le differenti cucine nazionali.

Mentre a fatica il musulmano mi dava le spiegazioni richieste, si introdusse nella conversazione una coppia di ebrei di cui non mi ero accorto. Il marito mi spiegava che quello quello che mangiavano loro ebrei, era prima ispezionato da un rabbino o persone autorizzata, e quindi dopo questa ispezione il cibo era... “puro e sano”! E diceva ciò con una certa enfasi. Al che sentendo “sano” piuttosto che “puro” io sobbalzavo chiedendo al mio oste: E come? Allora io quello che io sto qui comprando da lei non è sano? Mi vuole avvelenare? Non ci sono qui i controlli sanitari? Io non sono bravo a raccontare, ma la scena si tornava a ripetere: quello che insisteva sul “puro e sano” ed io che guardavo il gestore albanese con visibile preoccupazione. E questo che rispondeva con una certa energia, per rassicurarmi: “ma certo che qui è tutto sano e controllato!” La scena era piuttosto comica, anche se non troppo. A sentirmi trattare da “impuro” la cosa mi infastidiva un poco, ma non lo feci a vedere al signore ebreo, che non credo di aver mai notato nello stesso quartiere dove abitiamo entrambi. Ad aver intuito la situazione mi parve fu la moglie dell’ebreo, la quale sorridendo mi assicurava che potevo mangiare tranquillamente il pollo che avevo davanti. Via via che capivo e risultava dai fatti la “separazione” di cui sopra parla il rabbino Toaff, trovavo piuttosto barbara, incivile ed antisociale un simile pratica religiosa. Ma sono certo che qui scocca subito un’accusa di antisemitismo, cosa di cui non mi curerei affatto se una simile contestazione non avesse assunto con il tempo titolo di reato, insidioso quanto difficile da comprendere.

(segue)


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