giovedì 17 settembre 2009

B. Memoriale dei villaggi palestinesi distrutti: 48. Haifa, la città delle bombe sioniste

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Dizionario del sionismo
«Non mi faccio illusioni: ci vorrà ben più di questo libro per ribaltare una realtà che demonizza un popolo colonizzato, espulso, occupato, e glorifica invece quello stesso popolo che l’ha colonizzato» (ivi, 220). I Lettori di “Civium Libertas” sono invitati a collaborare alla redazione di un Memoriale per ogni singolo villaggio distrutto durante la pulizia etnica del 1948 e negli anni successivi fino al nostro presente.

Occorre studiare la geografica, anche il vero e proficuo studio della geografia – come diceva il mio insegnate – lo si può fare solo con i piedi, cioè camminando e viaggiando, non sui libri. In altro post ho detto che mai avrei letto il libro di Elena Rosenthal su Tel Aviv. Un famoso proverbio dice: mai dire mai. Infatti, quando scrissi quella frase, immaginando lo stile melenso dell’autrice, non sapevo che l’odierna Tel Aviv risulta dall’inglobamento di Giaffa e dei 24 villaggi che l’attorniavano: tutti distrutti. L’incredibile faccia tosta degli autori sionisti, pretende di far dimenticare questa macchia orribile di nascita e pretende di invitarci alla festa. Chissà se Elena parla di tutto ciò o se ne parla, come ne parla. Per adesso ho altre letture più urgenti e non andrò certo a leggere proprio il libro di Elena. Una notizia e la sua contronotizia mi giungono proprio oggi, in lingua inglese. Non mi è ancora del tutto chiaro l’evento, ma se non erro in Canada – roccaforte del sionismo e della Lobby – un gruppo di cineasti sta protestando al Toronto International Film Festival (TIFF), ricordando il fatto che Tel Aviv sorge su villaggi e città palestinesi distrutti. Puntualmente, il Simon Wiesental Center cerca di fare apologia del crimine, mandando email ai suoi affiliati organici ed allertando le lobbies. Sempre mantenendo fede al nostro impegno di redigere una scheda anche minima per ognuno degli oltre 500 villaggi distrutti, anticipiamo qui la scheda su Giaffa, che è forse uno delle distruzioni più vistose. Partiamo sempre da Ilan Pappe, rinviando a tempi successivi ogni ulteriore documentazione, via via che diverrà a noi nota e accessibile.

Nella scheda che abbiamo ripreso dal testo di Pappe si legge in una riga che «a Haifa simili attentati avvenivano ogni giorno». Che genere di attentati? Questi: «l’esplosione di una bomba a Giaffa nella sede del comitato nazionale locale, casa saeeaya, che crollò provocando 26 morti», in una sola volta, quanti forse non ne sono mai stati fatti da quelli che io chiamo i sigari Kassam per la loro simbolica pericolosità. Potenza della propaganda! Dopo aver avuto questo atto di nascita, lo stato sionista di Israele non riesce a trovare come argomento per la continuazione del suo secolare genocidio altro che il lancio di missili dalla prigione di Gaza su Sderot, una strana città di cui andrebbe ricostruita la storia.


47. Giaffa 48. 49.

Haifa


Sommario: 1. Il terrorismo dell’Irgun e della banda Stern. – 2. «Possiamo far morire di fame gli arabi di Haifa e Giaffa». –

1. Il terrorismo dell’Irgun e della banda Stern. – Oggi uno dei preferiti della propaganda israeliana è la lotta al terrorismo di Hamas, di Hezbollah, perfino dell’ONU. Ma in Haifa ed a Giaffa l’eplosione di bombe ai danni di civili inermi era cosa all’ordine del giorno.
Due settimane dopo, nel gennaio del 1948, il Palmach “usò” l’impeto che si era creato per attaccare e ripulire Hawassa, un quartiere di Haifa relativamente isolato. Era la zona più povera della città che in origine consisteva di capanne ed era abitato da contadini venuti a cercare lavoro negli anni Venti e che vivevano in squallide condizioni. All’epoca, in questa parte orientale della città, risiedevano circa 5.000 palestinesi. Fecero esplodere le capanne e anche la scuola, di conseguenza il panico fece fuggire molte persone. La scuola venne ricostruita sulle rovine di Hawassa, che adesso fa parte dei dintorni di Tel-Amal, ma anche questo edificio è stato di recente demolito per far posto a una nuova scuola ebraica 39.

Gennaio del 1948: addio alla rappresaglia*. Queste operazioni erano accompagnate da atti di terrorismo da parte dell’Irgun e della Banda Stern. La loro abilità nel seminare il terrore nei quartieri arabi di Haifa, e anche di altre città, era direttamente influenzata dalla graduale ma evidente rinuncia inglese a qualsiasi tipo di responsabilità nel mantenere la legge e l’ordine. Soltanto nella prima settimana di gennaio l’Irgun eseguì più azioni di terrorismo che in qualsiasi altro periodo precedente. Tra queste, vi fu l'esplosione di una bomba a Giaffa nella sede del comitato nazionale locale 40, casa Sarraya, che crollò provocando 26 morti. Si proseguì con le bombe all’Hotel Samiramis di Qatamon, a Gerusalemme Ovest, nel quale morirono molte persone tra cui il console spagnolo. Quest’ultimo atto sembra che avesse spinto Sir Alan Cunningham, ultimo Alto Commissario britannico, a indirizzare una debole nota di protesta a Ben Gurion, il quale rifiutò di condannare l’attentato sia in pubblico che in privato. A Haifa simili attentati avvenivano ogni giorn041.
I. Pappe, op. cit., 82
Note:
39. Uri Milstein, The History of the Indipendence War, vol, 2, p. 156 e Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, p. 156.
40. I comitati nazionali erano gruppi di notabili locali che furono istituiti in diverse località della Palestina nel 1937, per agire come leadership di emergenza per la comunità palestinese in ciascuna città.

41. Uri Milstein, The History of the Indipendence War, vol, 3, p. 74-75 e Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, p. 50.

* Per comprendere la differenza fra “rappresaglia” e “aggressione” si consideri il seguente brano che si trova a p. 87 del testo:
Yitzak Sadeh, leggendario capo del Palmach, come veniva considerato da molti israeliani, convenne e aggiunse: «Abbiamo sbagliato nell'avviare solo operazioni di rappresaglia». Quello che dovevamo fare era di instillare nelle truppe la convinzione che ora la parola d’ordine è: “aggressione”!
Il testo di Pappe non lascia adito a dubbi o a scappatoie circa l’esistenza di un terrorismo sionista. Ma se anche vogliamo evitare l’uso del termine terrorismo resta l’evidenza di un’atto di sopraffazione ai danni di un popolo per la quale Israele oggi non può avanzare nessuna pretesa di legittimità all’interno della comunità dei popoli. Può reclamare il suo diritto ad esistere allo stesso titolo in cui un clan di pirati ed assassini della peggiore specie si avvale della forza delle sue armi per ribadire la sua esistenza. Israele possiede oltre 250 testate atomiche, a quel che si può leggere.

2. «Possiamo far morire di fame gli arabi di Haifa e Giaffa». – Le parole fra virgolette sono del papà di tutti gli israeliani, cioè di Ben Gurion, e dimostrano come l’odierno affamamento di Gaza abbia una sua gloriosa tradizione. Nel brano di Pappe che riporto di seguito si presti attenzione all’elemento essenziale del «sostegno internazionale». Tutta l’impresa sionista, dal suo concepimento fino al suo odierno compimento non sarebbe mai stata possibile senza il “sostegno internazionale”. Pochi sanno che la famosa dichiarazione Balfour ebbe i suoi retroscena, dove le organizzazioni sioniste era le ispiratrici delle stessa Richiarazione, che riprodotta in forma di volantino veniva sganciata sulla testa dei tedeschi che vivevano in Germania alla fine del 1917. Si potrebbe qui continuare nella digressione assai istruttiva, ma qui ci preme solo sottolineare l’importanza del dato propagandistico sul piano internazionale e sulla necessità imperiosa per il sionismo di occultare i momenti essenziali della sua storia, ovvero di falsificarli e mistificarli. Sbattere loro in faccia tutta l’evidenza della pulizia etnica del 1948 e della loro odierna continuazione negli insediamenti illegali nei territori “occupati” (diventati nella propaganda sionista ora “contesi”, perfino “acquisiti” ovvero semplicemente “territori” orfani di qualsiasi aggettivazione che ne dia senso logico e storico), significa usare un’arma potente quanto incruenta: l’arma della verità.
Moshe Sharett, il ministro degli Esteri “designato” dello Stato ebraico, durante i mesi che portarono alla dichiarazione dello Stato, era fuori del paese. Di tanto in tanto riceveva lettere da Ben Gurion che lo istruivano su come affrontare la necessità di reclutare il sostegno internazionale ed ebraico per il futuro Stato in pericolo di essere annientato, e nello stesso tempo lo tenevano aggiornato sulla reale situazione sul campo. Quando il 18 febbraio 1948 Sharett scrisse a Ben Gurion: «Avremo abbastanza soldati soltanto per difenderci, non per conquistare il paese», Ben Gurion rispose:
Se riceveremo in tempo le armi che abbiamo già comprato e, magari, anche un po’ di quelle che ci hanno promesso le Nazioni Unite, saremo in grado non solo di difendere [noi stessi] ma anche di infliggere colpi mortali ai siriani nel loro stesso paese - e conquistare l'intera Palestina. Di questo non ho alcun dubbio. Possiamo affrontare tutte le forze arabe. Non è una fede mistica ma un calcolo freddo e razionale, basato su un’analisi empirica14.
Questa lettera era del tutto coerente con le altre che i due si erano scambiati da quando Sharett era stato mandato all’estero. Il carteggio era cominciato con una lettera del dicembre 1947 in cui Ben Gurion cercava di convincere il suo corrispondente politico della supremazia militare degli ebrei in Palestina: «Possiamo far morire di fame gli arabi di Haifa e Giaffa [se vogliamo farlo]» 15.
Note:
14. Lettere di Ben Gurion.
15. Pubblicazioni degli Archivi di Stato israeliani, Political and Diplomatic Documents of the Zionist Central Archives and Israeli State Archives, dicembre 1947-maggio 1948, Gerusalemme, 1979, doc. 45, 14 dicembre ’47, p. 60.
I. Pappe, op. cit., 66

Di fronte a queste documentazioni ci si scontra con un pregiudizio diffuso per il quale è giusto aver fatto dei palestinesi carne da macello. Mentre si condanna il razzismo ed il genocidio da un’altra parte, non ci si vuol accorgere di aver convissuto con i crimini che si imputano agli altri. È la singolare coscienza della nostra epoca, o meglio ciò che si trova scritto e divulgato con la pretesa che si tratti di “opinione pubblica”, che è cosa ben diversa da quella situazione concreta in cui ognuno di noi si trova, avendo la facoltà e la responsabilità della decisione concreta nel caso specifico.

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