giovedì 17 settembre 2009

In difesa di Don Chisciotte: 1. Antefatto. Il «puparo ebreo».


Da alcuni giorni la stampa italiana è travagliata da alcune questioni di somma importanza per i destini d’Italia: la virilità del presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Incredibile, ma vero. Così assicura non Franco ma Massimo Fini. Del Franco sarebbe se mai da riportare un’altra incredibile storia: la sua circoncisione. Siamo sempre in zona. Nel frattempo però la scuola e l’università continuano ad essere tormentati dagli stessi problemi che si tramandano da ministro in ministro, da governo in governo. Come docente universitario, ricercatore per l’esattezza – un nome che mi è più caro di quello un po’ presuntuoso di “professore”, titolo – mi dicono in presidenza – che mi compete. Iscritto ad un’associazione universitaria di categora, l’ANDU, Associazione Nazionale Docenti Universitari, diretta di Nunzio Miraglia, ne ho sempre seguito le proposte di riforma della docenza, del suo sistema di carriera, dell’università. Qualche anno fa il buon Nunzio mi ha voluto far fare l’esperienza di un’Audizione parlamentare portandomi con lui presso la Commissione Istruzione del Senato. Certamente è stato un’esperienza interessante, ma non esaltante.

Ho smesso di provare interesse per le questioni universitarie da quando mi sono convinto che l’università è irriformabile, almeno nello spazio della mia generazione e del tempo a me concesso. La problematica della scuola è diversa da quella universitaria e mi è meno familiare. Mi soffermo su un momento del mio curriculum di lotta. Eravamo davanti a Montecitorio a manifestare in quanto Ricercatori italiani. Era vivo allora l’amico e collega Maurizio Trebbi, Ricercatore di lettere già sulla sessantina, età dell’infamia non avendo fatto egli – come molti altri carriera – e non salito nell’Olimpo degli Ordinari. Mi regalò un fischietto su cui fischiare per dare visibilità a quella che doveva essere la Manifestazione nazionale dei Ricercatori italiani, ovvero dei docenti universitari di base. La distinzione è importante ed era/è materia di dibattito: un ricercatore in quanto tale è o non è un docente?

Se docente significa tener lezione, è cosa che mi richiesta dal mio maestro poco dopo essermi laureato, quando tenevo esercitazioni per studenti che provenendo dagli istituti tecnici erano del tutto digiuni di filosofia, ovvero di storia di filosofia, propedeutica del corso di filosofia del diritto, disciplina dalla quale non mi sono mai allontanato. Uscendo dal liceo Visconti – lo stesso credo da cui sono usciti Franco Frattini e Giorgino Israel, salvo errore – non pensavo di finire docente di filosofia del diritto all’università. Avevo quasi giurato a me stesso, tacitamente, che non avrei mai tenuto un registro di classe con i nomi degli studenti da interrogare ed a cui mettere il voto e perfino note disciplinari. Condividevo implicitamente già allora un giudizio ed una posizione di un grande filosofo spagnolo che conobbi dopo e che mi onorò della sua amicizia. Scriveva che la vera, unica autorità di un docente si basa sulla fiducia dei suoi studenti. Ma la fiducia è difficilmente conciliabile con l’esercizio del potere che deriva dalla tenuta del registro di classe o dal potere di dare i numeri, cioè un voto di esame.

Da ricercatore però il problema era superato. Nel 1982 venne fuori una delle tante riforme a strappi dell’università italiana. Ponendo termine ad una condizione di precariato universitario veniva creata la figura del ruolo del ricercatore, di cui una ulteriore legge da emanarsi entro quattro avrebbe dovuto precisare meglio lo status giuridico. Quella legge non ci fu mai e nel tempo si stratificarono norme che gradualmente modificavano il ruolo. Per me la condizione del ricercatore è sempre stata considerata ideale, se non fosse per il minore stipendio rispetto alle altre due figure della docenza universitaria, ma decisamente migliore di quella di un docente di scuola media che è gravata per tutto l’anno da un pesante orario settimanale di lezioni, sempre più funestate dall’obbligo posto ad un docente di insegnare la Shoah e simili. Ad un docente torinese, che si permise su domanda di esprimere la sua opinione su «Olocausto» e su Israele, fu inflitta, incredibilmente ma vero, una visita psichiatrica. Questa è la più autentica condizione degli insegnanti italiani di scuola medio-superiore. Ed è stata per me una grande fortuna non essermi trovato a dover fare l’insegnante di storia e filosofia nei licei. Beninteso è una condizione professionale dignitosissima ed ho un caro ricordo dei miei primi professori di filosofia. Intendo dire che la condizione di illibertà, di censura intellettuale e morale in cui virtualmente sono tenuti sarebbe stata per me intollerabile e mi avrebbe creato problemi cruciali dove mi sarei trovato in urto frontale con i poteri forti.

Invece, la condizione del ricercatore si può sintetizzare nella formula: obbligo di studio e ricerca, ma non obbligo della docenza, anche se poi nella stragrande maggioranza dei casi i ricercatori fanno docenza e consentono alle università di funzionare. Formalmente, non esiste però l’obbligo giuridico di tenere un insegnamento e volendo chi ama la propria libertà e vuole solo pensare allo studio e alla libera ricerca può sottrarsi ad ogni onere didattico ed amministrativo. La condizione ideale per un filosofo. Attualmente ho il corso specialistico di filosofia del diritto dove parlo dell’opera del mio maestro, da cui negli ultimi anni della sua vita ottenni, per così dire, l’ammissione alla sua scuola: Carl Schmitt, il maggior filosofo della politica e del diritto del ventesimo secolo, a giudizio di molti. Ho soprattutto stabilito negli anni con i miei non numerosi studenti quel necessario rapporto didattico basato sulla fiducia reciproca e non non su un potere amministrativo che cessa immediatamente, superato l’esame o finita la scuola. A parte lo stipendio, che vorrei maggiorato, magari per poter comprare più libri e viaggiare per i luoghi della cultura e del sapere sparsi per il mondo, ma a parte questo dettaglio è per me una condizione ideale, difficile da spiegare ad alcuni miei recenti denigratori per i quali un ricercatore a 60 anni è uno che non ha fatto carriera. Mah! Come dice Spinoza, è meglio rinunciare all’idea perniciosa di poter comunicare con i non filosofi, volendo trattare di filosofia, che è fatta certamente di nozioni ma anche e soprattutto di un certo stile di vita.

Ritornando ai problemi universitari, è da dire che nell’attuale contingenza storica l’università è uno dei gangli del sistema di potere. Toccando l’università si tocca il potere. L’ANDU nei suoi comunicati usava sempre come una sorta di slogan l’espressione «la potente lobby dei professori ordinari».

(segue)

Rinvio sullo stesso tema alla pagina di Kelebek. I tempi per la mia analisi saranno più lunghi e si avvarranno del commento sugli sviluppi della faccenda.

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