Come al solito,
in occasione al processo a Salvini, si è rianimato il dibattito sui rapporti
tra politica e giustizia, con il coro (ovviamente a sinistra) di violazione del
principio di separazione dei poteri, dello Stato di diritto, ecc. ecc.
Tutti
interpretati ad usum delphini, ossia,
più terra terra, per fare propaganda. Poco è stato notato che tali
interpretazioni sono il contrario di quanto sosteneva Montesquieu (e non solo),
spacciato come sostenitore dei pensierini
dei suoi (sedicenti) seguaci contemporanei. Vediamo come.
Il primo tra gli idola in materia è che pretendendo di non essere condannato per
aver governato il leader della Lega
stia infrangendo il principio di distinzione dei poteri. Ossia che distinzione
dei poteri voglia dire separazione assoluta e cioè isolamento tra più complessi
organizzativi dello Stato, così separati che, coerentemente sviluppando tale
impostazione, non si comprende in che guisa ritroverebbero l’unità, essenziale
ad ogni comunità politica.
Ma non è questo
il concetto che detta distinzione dei poteri aveva le President à mortier, il quale, nel famoso passo dell’XI libro
dell’ “Esprit des loi” inizia ad illustrare la distinzione dei poteri scrivendo
che “perché nessuno possa abusare del potere, è necessario che, per l’assetto
delle cose, il potere possa fermare il
potere”.
Non si comprende
come ciò potrebbe avvenire se tra i poteri vi fosse una separazione assoluta.
Anzi per corroborare la tesi contraria basta leggere il capitolo XV della Verfassungslehre di Carl Schmitt in cui
il giurista elenca gran parte dei tipi di “collegamento” e “non-collegamento”
tra poteri elaborati in meno di due secoli (allora) di costituzioni borghesi
(di “Stati di diritto”), onde conformare le costituzioni al pensiero di
Montesquieu.
Secondo. Infatti l’idea
di “separazione dei poteri” che si critica è basata su due connotati
fondamentali: l’equiordinazione e l’isolamento dei poteri stessi. Poteri
equiordinati implicano l’impossibilità di soluzioni di conflitti tra gli
stessi, se non demandandone la decisione ad un’autorità che, proprio per tale
funzione, non è più “equiordinata”. Se questa non c’è, l’unità e la coerenza
dell’azione politica è compromessa.
Terzo. Nell’XI libro
dell’ “Esprit des lois” Montesquieu distingue
tra due tipi di atti: quelli che presuppongono nell’organo una faculté de statuer e quelli che sono
estrinsecazioni della faculté de empêcher.
La prima, scriveva Montesquieu, consiste nel “diritto di ordinare da sé o di
correggere ciò che è stato ordinato da altri”; l’altra nel “diritto di render
nulla una risoluzione altrui”. Nelle reciproche relazioni tra poteri e organi
diversi è alla dialettica tra potere di statuire e potere di impedire che
Montesquieu affida la possibilità di buon funzionamento del sistema delineato.
Se si va a
leggere la casistica d’interventi di un potere sull’altro, si nota che quello
“incompetente” non si può sostituire a quello “competente”, come nella specie
se il governo o il Parlamento pretendessero di fare una sentenza o spiccare un
ordine di custodia cautelare, ma solo impedire (in sostanza derogare o limitare) l’attività di un
altro comparto.
Questo anche
all’inverso: ad esempio la giustizia ordinaria non può prendere dei
provvedimenti attribuiti al potere esecutivo-amministrativo, ma può disapplicarli, privandoli di validità
nel caso concreto sottoposto a giudizio. Se fosse valido quanto sostengono a
sinistra, proprio uno dei caposaldi dello Stato liberale cioè il controllo
giudiziario sulla P.A. sarebbe violazione del principio della distinzione dei
poteri, con buona pace del pensiero e dell’azione liberale degli ultimi due
secoli.
Quarto. Scriveva un
filosofo del diritto come Radbruch che mentre per la politica vale il detto salus rei plublicae suprema lex, per la
giustizia vige fiat justitia pereat
mundum.
In genere, in
caso di contrasto, prevale la necessità politica (cioè dell’esistenza ordinata
della comunità e dello Stato). A parte il caso di Salvini, lo si riscontra in
più disposizioni dell’ordinamento, tra cui quella sull’ “atto politico”, proprio
perché politico sottratto alla cognizione del Giudice (norma vigente da oltre
un secolo e confermata da ultimo nel 2010).
Scriveva V.E.
Orlando sull’atto politico (ma è utile anche nel caso Salvini) che a
distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la
“natura” dell’atto: “la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il
carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla
natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti:
noi accenniamo a quegli atti del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto
l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per giustificazione il motto salus reipublicae suprema lex”. E
sindacare lo scopo e la congruità non è certo compito del Giudice, limitandosi
questo alla conformità dell’azione del potere pubblico a delle regole. Montesquieu
distingueva così i tre poteri: “In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello
legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti,
il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…
Per il secondo (di
questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni.
Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”. Confondere i poteri è
compromettere la libertà. Permettere che un Ministro venga condannato per come
ha tutelato i confini (cioè la sicurezza e i limiti territoriali) è fare
politica, nel senso della potenza esecutrice del diritto delle genti” definita
da Montesquieu. Ma non condivisa dai suoi sedicenti seguaci.
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