La
contemporaneità dell’udienza del processo al Ministro Salvini e
dell’annullamento giudiziario della “destinazione” in Albania di un gruppetto
di migranti hanno un connotato comune: riproporre l’(eterno) problema del
rapporto tra politica e giustizia e, quale presupposto di questo, di
determinare cos’è “politico”.
Infatti il
potere di giudicare ha carattere generale (anche ritenere di non avere il
potere di giudicare, è un giudicare). Lo stesso può affermarsi del politico,
perché anche quando una sfera di attività umana è libera e garantita dall’intromissione
di poteri pubblici e quindi (anche e soprattutto) politici, ossia privata, ciò è frutto di una distinzione
(e decisione) essenzialmente e squisitamente politica: quella tra pubblico e
privato.
Data la
generalità, politica e giurisdizione possono entrare in contrasto specialmente
negli Stati borghesi di diritto, dove le garanzie giudiziarie sono
particolarmente penetranti onde hanno indotto alla limitazione costituzionale
del potere giudiziario, laddove si debbono giudicate i titolari di certi organi
e comunque di decisioni che incidono su funzioni politiche. Ed è un problema
che si poneva già agli albori dello Stato borghese moderno, sia nelle leggi
delle assemblee francesi rivoluzionarie, che nelle riflessioni dei primi
teorici come Benjamin Constant.
La
responsabilità (e il processo) penale (e le di esso limitazioni) non è che uno
degli aspetti del problema. Pochi italiani sanno che l’ordinamento francese
esclude che siano justiciables, cioè
annullabili dal Consiglio di Stato gli acts
de gouvernement, e che tale soluzione fu fatta propria in Italia
nell’istituire la IV Sezione del Consiglio di Stato e poi sempre ripetuta: l’art.
31 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054, sul Consiglio di Stato (sostanzialmente
ripetitivo dell’art. 24 del precedente t.u. 2 giugno 1889 n. 6166), prevede
l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati
dal Governo nell’esercizio del potere politico”. È penetrante il giudizio di
Barile che l’attività politica non può venire “definita unicamente un’attività
libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della
funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato
giurisdizionale. Essi sono sottratti per
natura”. Da ultimo tale esclusione è stata confermata nel vigente codice di
procedura amministrativa, pubblicato nel 2010 (in pieno fragore mediatico giustizialista). Il problema degli acts de gouvernement è discriminarli da
quelli che non lo sono: la giurisprudenza francese ricondusse ad una liste jurisprudentielle tali atti,
includendoci in particolare gli atti relastivi ai rapporti internazionali,
quelli relativi a rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure
eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. In realtà
passando da un tentativo di definizione denotativa, come la liste jurisprudentielle, ad una
connotativa, emergono quali criteri distintivi degli atti politici da un lato
lo scopo per cui sono presi tali atti: la difesa della comunità dai nemici, la
sicurezza dell’insieme, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita
e ad un’esistenza ordinata. In altre
parole coincidono, in larga parte, con quelli che costituiscono il fine della
politica (e di riflesso, dello Stato). Carl Schmitt ritiene a tale proposito
che nel diritto francese si era «tentato di instaurare un concetto di motivo
politico (mobile politique) con
l’aiuto del quale distinguere gli atti di governo “politici” (acts de gouvernement) dagli atti
amministrativi “non politici” e sottrarre quindi i primi al controllo della
giurisdizione amministrativa»; una definizione, assai interessante per il
concetto del politico che ne trae, è la seguente: «Ciò che costituisce l’atto
di governo è il fine che si propone
l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in sé
stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni,
palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo». E in effetti
tale considerazione – enfatizzata dal rapporto amicus-hostis - è assai prossima a quello che avrebbe poi scritto
Freund.
Ritiene Freund,
citando Aristotele, che ogni attività umana persegue un fine specifico: quello della politica è il
bene comune (così definito dalla teologia cristiana). Questo si può ripartire
nella sicurezza (esterna ed interna) e nel mantenimento dell’ordine cioè della
pace e della prosperità della comunità.
E in effetti una
delle caratteristiche degli organi politici, in particolare di quello superiorem non recognoscens, è di essere
sottratto ad ogni giurisdizione. The King
can do no wrong: il Re non può far torto è un’antica massima del diritto
inglese. Se nei due casi in esame, l’esercizio dell’azione penale nei confronti
di Salvini era stata regolarmente autorizzata dal Senato, e la possibilità di
giudicare la legittimità della procedura di “delocalizzazione” dei migranti non
è soggetta al limite dell’atto politico (come la cognizione del giudice
amministrativo), costituisce comunque un problema. Il quale non si pone nella
quasi totalità dei casi alla ribalta delle cronache, concernenti o pure e
semplice ruberie, abusi ecc. ecc. di funzionari compiuti a benefici, proprio
del politico e dei di esso seguaci ovvero a questioni di carattere strettamente
privato (come lo sbandieratismo/i processo/i a carico di Berlusconi per le “olgettine”).
Qui invece ad essere giudicati sono atti politici
presi nell’esercizio di un potere politico
per fini politici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Cioè per un’attività
politica per la natura della cosa, come
scriveva Barile. E su questo e sulle conseguenze c’è
tanto da pensare.
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