lunedì 3 marzo 2008

Nuove su Michelino Levi

Versione 1.0

Trovo casualmente in rete, su ladestra.info un articolo di Maurizio Blondet su Michael Levi, un incredibile personaggio che aveva già attratto la mia attenzione, ovvero aveva suscitato il mio sconcerto. Tuttora non riesco a capacitarmi della possibilità esistenziale di simili soggetti. La tesi nuova che si affaccia nell'articolo di Blondet è una possibile parentela di Michael Levi con quel Riccardo Franco Levi che aveva tentato di imbavagliare la rete. Se così fosse, tornerebbero i conti. Ma da una rapida lettura del testo di Blondet, con il quale non ho finora avuto nessun rapporto di conoscenza personale, eccetto forse la comune partecipazione ad un convegno in Perugia svoltosi parecchi anni fa, non ho ancora capito se si tratta di un’ipotesi o di un fatto accertato. Una paternità non è cosa di cui si possa far mistero e quindi l’accertamento del dato dovrebbe esser agevole. Intanto ripubblico in «Civium Libertas» questo nuovo articolo di Blondet, solo oggi venuto a mia conoscenza. L’articolo costituisce una scheda del mio «Monitoraggio» di «Informazione Corretta», che a campione conduco tutto da solo. La mia speranza è di trovare collaboratori alle mie iniziative. Mi sono accorto purtroppo che non è facile trovare collaboratori con i quali poter lavoro in pieno accordo e nel rispetto reciproco. Per questo è forse meglio lavorare da soli con tutti i limiti che ne derivano.

Antonio Caracciolo

* * *

Tratto da EFFEDIEFFE
del 20/11/2007
Di Maurizio Blondet

Levi, la dinastia

Mi è venuto un dubbio: che Michael Levi altri non sia che figlio di Ricardo Franco Levi, il sottosegretario alla presidenza di Prodi, con delega all’editoria, l’autore del progettino di museruola su internet alle notizie sgradite alla nota lobby, un mezzo burocratico-fiscale per punire le opinioni. Il che spiegherebbe le ingiunzioni di Michelino a far tacere, a far licenziare giornalisti, a invocare contro di loro «provvedimenti urgenti», a «informare» certe ditte, che alcuni periodici sui quali fanno apparire la loro pubblicità ospitano articoli di «antisemiti», per cui è meglio che li mettano alla fame negando loro ulteriori inserzioni. Questo atteggiamento verso la libertà di stampa e d’opinione sarebbe una tendenza di famiglia. Sarà? Non sarà? Contemplo la foto che il giovine psico-poliziotto ha postato nel suo sito - dal Council on Foreign Relations, nientemeno - e mi par di notare una somiglianza. Inquietante.

Se il mio dubbio è fondato, sono davvero nei guai, cari lettori. Perché se Michael è il germoglio di Ricardo, allora è anche il nipote di Arrigo Levi. Una dinastia potente. E che, nonostante una certa apparenza di declino intellettuale scendendo per li rami, potente resta. Arrigo Levi, nato nel 1926, ha costantemente accompagnato l’avvocato Agnelli alle riunioni del Bilderberg e della Commissione Trilaterale, insieme al sindacalista preferito dall’Avvocato, Giorgio Benvenuto, per una vita segretario della UIL. E’ raro che la Trilateral accolga sindacalisti nei suoi consessi segreti: ma l’Avvocato garantiva per il suo sindacalista di casa. Tanto più che secondo i maligni, oltre che segretario della UIL, Benvenuto ne era anche l’unico membro. Cosa credibile, visto che la UIL era emanazione del Partito Repubblicano. Il quale - secondo i suddetti maligni - teneva i suoi congressi plenari in una cabina telefonica.

E tuttavia De Gasperi non potè fare a meno, nel suo primo governo, di imbarcare quel partito repubblicano e il suo segretario Ugo La Malfa. E a chi gli chiedeva il perché, spiegava che senza La Malfa imbarcato, non sarebbero arrivati i soldi del Piano Marshall. Questo per dire che tipo di potere è quello. Difatti, m’è parso di vedere Benvenuto nel direttivo del nuovissimo partito americano di Uòlter Veltroni. Si vede che serve ancora. Arrigo Levi era riparato, durante il fascismo, in Sudamerica: ecco perché il rampollo Ricardo Franco è nato a Montevideo. Vista la discendenza, c’è da rimpiangere il vecchio Arrigo, e da capire la sua luminosa carriera, corrispondente de Il Corriere da Londra poi suo commentatore internazionale, poi direttore della Stampa, poi al vertice Rai… fino a diventare un Venerato Maestro. Ricordo che discettava, con voce nasale e didattica, spiegando a noi italiani dappoco le norme e regole della democrazia unica e vera, quella USA. Non ricordo se fosse davvero intelligente. Ma non ne aveva bisogno. Era di casa al Council on Foreign Relations, dava del tu a Kissinger: da lì venivano le idee e le direttive, che Arrigo si limitava a riportare per noi dappoco. Del resto, ai tempi, la dottrina economica unica non era ancora il liberismo assoluto e devastatore della scuola di Chicago, era un keynesismo rooseveltiano, il che andava benissimo per la Fiat, in quanto legittimava la socializzazione delle perdite della Casa e il denaro pubblico che riceveva per «mantenere l’occupazione». L’Avvocato teorizzava una pace sociale in cui l’inflazione era il «lubrificante» della dialettica capitale-lavoro: gli aumenti salariali venivano dalla stampa di lire, e il potere d’acquisto era sùbito divorato dal rincaro dei prezzi, ma la macchina sociale, pistone e cilindro, funzionava come l’olio. Altri tempi.

Arrigo Levi era uno dei tre personaggi notevoli tornati sugli automezzi dei liberatori americani a insegnarci la democrazia. Il secondo era Renato Mieli, il papà di Paolo, direttore de Il Corriere: venuto tra noi in uniforme USA, con i gradi di ufficiale, nei primi mesi di occupazione era un «capitano Smith» (o qualcosa del genere) a cui i giornalisti italiani dovevano rivolgersi per ottenere l’autorizzazione a lavorare e ad aprire giornali, insomma il responsabile della epurazione morbida del giornalismo per conto degli Alleati. Allora, parlava esclusivamente inglese. Subito dopo, fondò l’ANSA. Ancora qualche mese, e molti di quei giornalisti che avevano chiesto l’autorizzazione a scrivere al capitano Smith si stupirono poi di ritrovarlo, sotto il nome di Renato Mieli, come direttore de L’Unità. L’organo del PCI diretto da un ufficiale americano? Evidentemente l’OSS (futura CIA) aveva deciso che occorreva loro un controllore dentro quel partito. Renato Mieli, che probabilmente era tanto comunista quanto era un dromedario, resistette disciplinato dieci anni: nel ‘56, la rivolta d’Ungheria gli diede il destro di andarsene sbattendo la porta, e scrivendo peste e corna sugli orrori staliniani del Partito comunista. Scrisse anche una sua biografia, «Deserto Rosso, dieci anni da comunista»: titolo rivelatore. Effettivamente, dieci anni di recitazione da comunista sono tanti. Si finisce per non poterne più. Trovò ospitalità da Montanelli. Ma anche un altro lavoro: la direzione del CESES, un «osservatorio sui Paesi dell’Est» pagato dagli USA, affollato di agenti slavofoni che andavano e venivano da là (ma mi pare ci fosse anche Giuliano Amato) e diretto nelle cose concrete da tale Warren Nutter, un economista (chiamiamolo così) che era stato allievo di Milton Friedman a Chicago.

Il terzo personaggio notevole di quella generazione fu Ugo Stille. Anche questo sbarcò nel ‘43 con le truppe USA, in veste di «sergente Micha Kamenetzky» (il suo vero nome) e subito divenne direttore di Radio Palermo. Era l’emittente allestita dagli Alleati subito dopo la conquista della Sicilia. Ma per poco: Stille seguì la truppa yankee su per l’Italia, fino a Milano. A Il Corriere, naturalmente. Pronti: che mansione preferiva? Dica, Kamenetzsky, oggi la stampa è libera in Italia. Stille preferì tornare a Washington, commentatore per il Corriere. Se Arrigo Levi da Londra echeggiava le visioni di Kissinger e del Council on Foreign Relations di Rockefeller, Kamenetszky spezzava, per noi italiani, il pane della sapienza della Brookings Institution, un think tank un tantino più liberal ma non meno potente, visto che questa fondazione privata stilò da capo a fondo il Piano Marshall, che poi il Congresso approvò senza variazioni nel 1948. Insomma fra Levi e Stille correva la stessa differenza che corre tra i «repubblicani» e i «democratici» in USA, due sfumature di tinta dei poteri forti che in Italia erano rappresentati dal partito liberale (di «destra») e dal repubblicano («sinistra», diciamo). Due partiti artificiali, creati in laboratorio - nell’ufficio studi della Banca Commerciale dove Raffaele Mattioli, il laicissimo, aveva allevato La Malfa e Malagodi, Merzagora e Cuccia, distribuendo le parti fra loro quando l’Italia sarebbe stata liberata: tu Malagodi farai il liberale, tu La Malfa farai da mazzinianno, repubblicano intransigente… Tu Merzagora alle Assicurazini Generali, tu Cuccia, Enrichetto mio, a Mediobanca - insomma avete capito. Era la libertà, finalmente.

PLI e PRI poi gli italiani non li votarono, e non si riuscì a fare il bipartitismo perfetto della perfetta democrazia americana. Stavolta si spera che andrà meglio a Uòlter e al Belursca. Perché il potere di quella prima generazione sussiste. Emana ancora un raggione da teletrasporto da far impallidire il dottor Spock. Basta pensare a dove sta Paolo, il figlio di Renato Mieli. Basta dire che Gianni Riotta, per il solo fatto di aver scodinzolato per anni attorno ad Ugo Stille chiamandolo Venerato Maestro e professato per lui la sua infinita ammirazione (slurp slurp) è diventato direttore del TG1: e mica nel 1943, oggi.

Ricardo Franco Levi, seconda generazione, è stato elevato anche lui sul raggio di quel potere. Allevato in Inghilterra dove abitava papà, si considera «very british» e si veste di conseguenza, ossia come gli immigrati italiani quando credono di vestirsi da veri inglesi. Pare sia stato giornalista a 24 Ore, ma non restano memorie incisive del suo passaggio. Di fatto, la sua carriera comincia da direttore, subito. Egli ci spiegò che stava per introdurre in Italia il giornalismo anglosassone, compassato, «i fatti separati dalle opinioni» e tutto il resto, insomma il vero giornalismo. Fondò l’Indipendente e lo diresse. Chi glielo pagava non è chiaro, probabilmente Mediobanca e la Fiat. Nel gergo dei cronisti, che tende ad essere escatologico, fu una loffa. Fondato e diretto da Ricardo Franco nel ‘91, fu s-fondato nel ‘92, ossia chiuso senza suscitare proteste nelle masse dei lettori, contenibili nella solita cabina telefonica. Ricardo Franco capì che la sua vocazione era un’altra, vicina a quella del Renato Mieli prima maniera, a quella di Ugo Stille direttore della radio alleata: non giornalista, ma controllore dei giornalisti e delle idee autorizzabili nella libertà di stampa. Per conto dei soliti noti. Viene aggregato a Prodi quando questi diventa presidente della Commissione Europea, e riceve - come rivelò una telecamera rimasta aperta - quell’Israel Singer, capo del Congresso Ebraico Mondiale, che la stessa comunità persegue per storno di fondi ebraici in un conto svizzero che ha intitolato «per la mia vecchiaia». La telecamera mostra il figuro mentre agita il nodoso ditone sotto il naso di un Prodi intimidito, come se gli desse ordini… un fatto che l’Indipendente non avrebbe certo pubblicato, nemmeno separato dalle opinioni. Siamo inglesi, my God. Il resto è noto.

Ricardo Franco viene eletto nella circoscrizione Lombardia III nell’Ulivo: uno dei più inspiegati miracoli della democrazia all’americana (ci piacerebbe conoscere gli elettori). Viene elevato dal raggio di teletrasporto a sottosegretario alla presidenza del consiglio, ossia Prodi; e da Prodi riceve la delega per la stampa. Di cui fa l’uso che sappiamo: i siti internet devono registrarsi in apposito registro, preludio a misure e provvedimenti restrittivi, magari di natura fiscale. Insomma il lavoro che per i superiori comandi svolse il primo grande Mieli in uniforme yankee, prima di sorbirsi «dieci anni da comunista»: l’autorizzazione, il controllo, la epurazione soft. E’ questo particolare, più che la somiglianza fisica, a far ritenere che Ricardo Franco sia il felice padre di quel Michael Levi del Council on Foreign Relations.

La voglia di controllo sull’informazione deve essere nel DNA. Gli infaticabili studi sul terrorismo islamico non consumano tutto il tempo del giovane Levi né esauriscono la sua energica intelligenza; Michael trova il tempo di chiedere la mia espulsione dall’ordine dei giornalisti. Ecco la sua lettera:
«Lettera al presidente dell’ordine dei giornalisti, ancora su Blondet 29/03/2007 Egregio Signor Abruzzo, non ho ricevuto, fino ad oggi, nessuna sua risposta al riguardo delle segnalazioni che le ho fatto nei giorni scorsi sul giornalista Maurizio Blondet. Purtroppo mi ritrovo con un nuovo articolo vile, diffamatorio, antisemitica, colmo di odio religioso ed intolleranza che è stato pubblicato su EFFEDIEFFE e scritto da Maurizio Blondet. E’ una grandissima vergogna ed è intollerabile che nessuna azione venga presa. Blondet è una vergogna per l’Italia e per la professione dei giornalisti. La prego di prendere azione con urgenza».
Un’altra mail spedisce, il Michael dal CFR, contro Antonio Caracciolo, che ha un blog che si chiama «Civium Libertas». Poiché Caracciolo ha criticato la comunità romana per aver sequestrato un tribunale italiano militare colpevole di aver assolto Priebke, e per di più si dichiara simpatizzante di Forza Italia, è a questo partito che scrive il controllore di terza generazione:
«L’attacco di Antonio Caracciolo alla comunità Ebraica Romana è inaccettabile ed una vergogna. Vi prego di verificare e prendere provvedimenti.
Michael Levi».
Quali provvedimenti esige, lo specifica. Imperioso come sempre, scrive a Forza Italia:
«Quello di Caracciolo potrebbe sembrare uno dei tanti blog di odiatori di Israele e degli ebrei, di cui la rete pullula - Se non fosse per il fatto che Caracciolo si presenta come militante di Forza Italia. Partito che, se non condivide le aberrazioni di questo personaggio, dovrebbe sancire pubblicamente la propria estraneità. E diffidare Caracciolo dal continuare a ostentare la sua ‘militanza’.
Michael Levi».
Micael Levi tempesta anche «Informazione Corretta», caso mai a questa benemerita istituzione fosse sfuggita una delazione per le sue schedature.
«Intolleranza su un sito cattolico 23/08/2007. Vi segnalo il sito Crismon, e in particolare alcuni articoli che sono stai pubblicati in questo sito. In alcune fazioni cattoliche c’è una nascente e crescente intolleranza religiosa e dovrebbe essere corretta dalle più alte istituzioni della Chiesa. [….] Mi auguro che questa volta qualcuno abbia il coraggio di intervenire con decisione ed in tempo debito. Il sito è il seguente: http://www.crismon.it/
Michael Levi».
Contro il sottoscritto, Levi III ha scritto, come sappiamo, a Nexus (minacciando la campagna di delazione contro le inserzioni pubblicitarie) e anche al professor Moffa del Master Mattei. Il tono è sempre lo stesso: egli intima radiazioni dall’ordine, egli ordina a un partito di espellere un suo membro, egli vuole che gli insubordinati vengano diffidati, egli pretende che il Vaticano intervenga contro un sito «con decisione e in tempo debito», egli esige «azione» onde sia vietata la «professione giornalistica» a questo e a quello. Non so che idea si sia fatto della libertà di espressione Michael Levi vivendo in America. La sua sembra meno anglosassone che sovietica, da lì veniva l’invito all’azione, alla radiazione, all’espulsione e al licenziamento dei deviazionisti. Oppure, a piacere, da qualche regime fascista. «Vi prego verificare e prendere provvedimenti» è una frase di quelle che scriveva Farinacci.

Forse qualcuno dovrebbe spiegare al signorino che in Italia, l’ordine dei giornalisti può anche radiare, ma non per questo impedire di scrivere (vedi il caso Betulla). E che un giornalista in pensione che scrive sul suo sito non può essere silenziato direttamente, sicchè occorrerà segnalarlo alla «squadretta» dei bastonatori romani che picchiano impunemente chi non la pensa come loro. Ma questo è, appunto, fascismo. Non si vorrebbe che il Michael Levi esprimesse un ideale di controllo che ancora non esiste, ma che già - stando al Council on Foreign Relations dove Arrigo Levi ha ancora tanti amici, e orecchiando quanto vi si dice - ha qualche motivo di ritenere di prossima, imminente instaurazione. Difatti, in quella sede troppo prestigiosa per lui, il «Fellow» Michael Levi si occupa ossessivamente di terrorismo nucleare. Ha scritto un libro fresco fresco, «On nuclear terrorism», dove (dice lui) «in base alla nostra [di chi?] lunga esperienza di terrorismo propone nuovi principi per difenderci da minacce nucleari».

Dall’aprile scorso, egli tiene un dibattito online sul tema: «How Likely is a Nuclear Terrorist Attack on the United States?», ossia, «Quanto è probabile un attentato terroristico nucleare sugli Stati Uniti?». Un altro tema, ottobre 2007: «In the Search for Loose Nukes, a Little Propaganda Goes a Long Way», Micahel Levi spiega: «Beccare i malfattori armati di ordigni atomici è più difficile di quanto sembri…», e propone: «Invece di cercare un sistema di intercettazione perfetto al 10 %, politici astuti stanno sviluppando una strategia: né troppa né troppo poca sorveglianza. Questo piano che si ammette imperfetto è inteso a convincere i terroristi che anche solo tentare un attentato nucleare è futile… basta dispiegare una strategia di pubbliche relazioni o propaganda che faccia loro credere che ‘gli stiamo addosso’ ». Testuale. Avete seguito bene il ragionamento?

Per Levi è più urgente la sorveglianza totale sui giornalisti italiani pensionati critici di Sion, contro i quali occorre «intervenire con decisione e a tempo debito», che la sorveglianza su terroristi eventualmente dotati di armi nucleari, mentre le stanno trasportando (come? Sul camion della premiata ditta di traslochi Urban Moving Systems?) nel territorio americano. Per questi eventuali portatori di testate nucleari in valigia, è inutile mettere a punto «un sistema perfetto al 100% di intercettazione»; basta fargli credere che «gli stiamo addosso», con «un po’ di propaganda».

Magari qualcuno sarebbe indotto a consigliare il papà, se Ricardo Franco non sconfessa questo rapporto parentale, di sottoporre il figlio a trattamento con psicofarmaci, di cui Michael sembra urgentemente bisognoso. Ma questo qualcuno sarebbe in errore. Se questa è psicopatia, non è uscita dal cervello di Levi Michael. E’ uscita da quello di Dick Cheney: «Il più grande rischio oggi è un 11 settembre perpetrato non da un gruppo di terroristi armati di biglietto aereo e di taglierini, ma di un’arma nucleare nel mezzo di una delle nostre città», ha detto il noto vice-presidente alla CBS («Face the Nation», 15 aprile 2007). Poche settimane prima, nel febbraio, Zbig Brzezinsky (guarda caso, uno dei capi del Council on Foreign Relations) aveva confidato al Congresso in audizione un suo timore: un attentato «false flag» sul territorio USA che avrebbe dato il destro all’Amministrazione di attaccare l’Iran.

E più recentemente, c’è stato il misterioso volo del B-52 armato con sei missili a testata atomica che stava andando chissà dove, in base a quali ordini, con le testate innescate, attraverso tutti gli Stati Uniti. In aperta violazione delle procedure e della catena di comando, il che ha fatto pensare agli ordini di qualcuno che sta sopra alla catena di comando militare, ossia a Dick Cheney. Se non fosse stato per la decisa azione di alcuni militari, forse l’attentato nucleare paventato (ma non tanto) da Michael sarebbe già realtà. Tuttavia, a quanto pare, uno dei sei missili è scomparso. Insomma la follia di Levi, questo junior fellow del Council, è condivisa al più alto livello decisionale. E sicuramente dopo il nuovo e più atroce 11 settembre il primo provvedimento sarebbe instaurare quel tipo di libertà di stampa cui Michael anela, anzi dà per già in vigore: chiudere la bocca al web. Ecco l’urgenza, contro il terrorismo atomico. Ma no, speriamo di no. Speriamo che Michael Levi non sia figlio di Ricardo Franco il segretario, né nipote del nonno Arrigo. Speriamo che sia un Levi qualunque. Certo è strano: sembra abituato da sempre a trattare i giornalisti italiani come suoi camerieri, a dare ordini come alla servitù di casa, aspettandosi d’essere obbedito come quando i nonni, nel ‘43, tornarono in Italia con la divisa dei liberatori. Dove avrà potuto impararlo, questo atteggiamento?

Maurizio Blondet



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