lunedì 10 marzo 2008

Marino Badiale: Sulla Prima Repubblica e sulla sua ideologia

Versione 1.3 (= 11.3.08)
(acquisizione di testo tramite scanner:
editing in progress)

Si tratta di un saggio non recente di Marino Badiale. È tratto dal volume “Ricercando la comune verità” (Editrice C.R.T. 1999, pp. 25-43), che l’Autore mi ha mandato in omaggio a seguito della nostra fortuita conoscenza dopo che un giornalista scriteriato aveva messo insieme i nostri nomi in un articolo su “La Stampa”. Fino a quel momento, per mia non lodevole ignoranza, di Marino Badiale non avevo mai neppure inteso il nome e non sapevo nulla del suo pensiero politico. Fu così che ricevetti in omaggio il volumetto, per il quale ringrazio. Il saggio è inevitabilmente datato: di Prima Repubblica si parla oggi al passato. Cosa sia la Repubblica nella quale stiamo vivendo non è ancora ben chiaro. Il saggio di Badiale che leggo qui editandolo non è però della fine del XIX secolo, ma del 1999, l'ultimo anno del XX secolo vicino alla nostra memoria e tale da consentire raffronti con il presente. L’iconografia, che ha lo scopo di alleggerire la lettura, è mia e non fa parte dell’edizione originaria del testo di Badiale.

Antonio Caracciolo

Sommario
: 1. Simplex sigillum veri. – 2. Le contraddizioni dell’ideologia italiana. – 3

1.
Simplex sigillum veri


La mia tesi fondamentale su ciò che è stata l’Italia della Prima Repubblica è la seguente: la Prima Repubblica era fondata su un patto scellerato fra governanti e popolo. Questo patto consisteva, in estrema sintesi, nell’accordo generale a non rispettare leggi e regole, o meglio, a sospenderne il rispetto in determinati casi e circostanze. Nel caso dei governati si trattava per esempio della possibilità, concessa a certi gruppi sociali, di evasione fiscale generalizzata, oppure dei benefìci assistenziali elargiti al di fuori di regole e controlli (le false pensioni di invalidità) o ancora della generale scorrettezza nei concorsi per posti di lavoro in certi settori dell’amministrazione pubblica (la pratica delle raccomandazioni). In cambio di queste piccole illegalità diffuse di cui approfittavano i governati, ai governanti erano concesse le grandi illegalità: corruzione generalizzata del ceto politico (in tutta Italia), collusione con le organizzazioni criminali (soprattutto al Sud). Il patto scellerato ha retto finché è durata la fase espansiva dell’economia mondiale del dopoguerra (il “trentennio d’oro” di cui parla Hobsbawm ne Il secolo breve) ed è saltato quando questa espansione è finita, e il capitalismo è entrato in una fase nella quale non ci sono più le fette di torta da dividere in cambio del consenso. Detto più volgarmente, il patto è durato finché c’erano soldi da spartire, ed è saltato quando ci si è resi conto che soldi non ce n’erano più. L’esistenza di questo “patto scellerato” da sola non spiega le singolari caratteristiche delle forme di coscienza tipiche degli italiani della Prima Repubblica. Vi è un altro elemento fondamentale: la sorprendente incapacità degli italiani di assumersi le proprie responsabilità storiche, di guardare in faccia ciò che essi, effettivamente, fanno. Ammetto di non sapere quale sia l’origine di questo strano blocco; non so neppure se questa sia una caratteristica solo italiana, o non sia invece presente in altri popoli. Credo che molte delle discussioni sul “carattere degli italiani” e sulle sue radici storiche (dal ritardo con cui è arrivata l’unità nazionale alla Controriforma) ruotino attorno a questo problema. Non sono comunque in grado di approfondire questo punto. Assumiamo come data questa caratteristica, e cerchiamo di vederne le conseguenze. La più importante, per il tema che adesso ci interessa, sta nel fatto che per quaranta anni i miei concittadini non hanno mai voluto enunciare con chiarezza il “patto scellerato” di cui ho parlato, non hanno mai voluto ammettere la semplice e banale verità che una società civile in cui sono fatti comuni e quotidiani l’evasione fiscale, la raccomandazione, il disprezzo del proprio dovere da parte dei funzionari pubblici, non può che esprimere una classe politica corrotta e mafìosa. La scelta (inconscia) di non ammettere questa semplice verità ha portato all’elaborazione di una forma di coscienza al cui esame (iniziale e parziale) è dedicato questo scritto, e che chiamerò “ideologia italiana”. Essa ha a suo fondamento una tesi che si contrappone frontalmente a quella da me esposta all’inizio, e che, utilizzando il linguaggio dei media (massimi sostenitori e propagatori dell’ideologia italiana) si può enunciare così :
«La società civile italiana è sana e onesta, la classe politica italiana è corrotta», ovvero «gli italiani sono un popolo di onesti lavoratori che per quarant’anni sono stati governati da politici corrotti e mafiosi».
Abbiamo allora due tesi contrapposte. Cercherò di mostrare come l’ideologia italiana sia costretta ad avvolgersi in contraddizioni e assurdità, e come invece la tesi del “patto scellerato”, enunciata all’inizio, permetta di capire con semplicità e chiarezza alcuni fatti fondamentali.

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2.
Le contraddizioni dell’ideologia italiana


La tesi fondamentale dell’ideologia italiana, esposta sopra, è già essa stessa una contraddizione, che richiede spiegazioni. Perché mai una società civile onesta e sana avrebbe scelto per quaranta anni di farsi governare da una classe politica mafiosa e corrotta? Vedremo come le varie risposte tentate a questa domanda fondamentale non facciano che spostare la difficoltà.

Prima risposta: «c’erano i comunisti». Ovvero la presenza di una opposizione egemonizzata da un partito comunista filosovietico rendeva impossibile il ricambio del ceto politico di governo. Si tratta di una tesi estremamente diffusa nella pubblicistica, ma questo non diminuisce la sua estrema debolezza: c’erano i comunisti, e allora? La maggioranza degli italiani è ed è sempre stata moderata, centrista, anticomunista (come provano tutte le elezioni svoltesi in questo paese nel dopoguerra), e allora i casi sono due: o questa maggioranza aveva in sé la salute morale, l’onestà diffusa, la coscienza civile per esprimere un ceto politico moderato, centrista, anticomunista e onesto, e fargli vincere le elezioni; e in tal caso non si capisce perché lungo i quaranta anni della Prima Repubblica non l’abbia fatto; oppure non ce le aveva, quelle doti; ma affermare questo significa appunto negare la tesi fondamentale dell’ideologia italiana enunciata sopra, significa dire che la società civile italiana non ha quelle caratteristiche di onestà che essa pretende di avere. Insomma, nel primo caso siamo ricaduti nella stessa contraddizione che si voleva risolvere, nel secondo abbiamo negato la tesi fondamentale dell’ideologi a italiana. Altre possibilità non ne vedo.

Seconda risposta: «la DC era quello che era, non si poteva fare altro che votarla turandosi il naso». Si tratta chiaramente di una risposta dello stesso tipo della precedente, e che appare esposta alle stesse obiezioni: e perché mai la DC era quello che era? Perché mai una società civile onesta e sana per quaranta anni non ha saputo esprimere niente di meglio della DC? Mi pare che, rispetto a questo tipo di argomento, si possa ripetere senza cambiamenti quanto detto al punto precedente. Può essere interessante discutere un’ulteriore articolazione di questa tesi, che potrebbe forse essere sostenuta al Nord e che potrebbe suonare così : «quando è venuto fuori qualcosa di nuovo (la Lega) lo abbiamo sostenuto, dimostrando così che bastava ci fosse offerta una possibilità. Prima la Lega non c’era». È chiaro che anche qui l’obiezione è semplice; perché prima la Lega non c'era? Se la Lega è nata ad un certo momento, non è stato certo per decreto divino: è stato perché a un certo momento alcune decine di migliaia di persone hanno deciso di usare parte del proprio tempo, dei propri soldi, delle proprie energie per questo, e hanno trovato rispondenza fra la “gente”. Insomma, la Lega è esistita solo perché la società civile del Nord ha deciso, alla metà degli anni Ottanta, di farla esistere. Non è esistita prima perché non si è deciso di farla esistere, e non si è deciso di farlo semplicemente perché non si aveva interesse a farlo, semplicemente perché il ceto politico corrotto e mafioso andava benissimo. Dal punto di vista “logico” non ho altro da aggiungere, mi sembra che il tipo di risposta che ho descritto sia confutato.

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(segue)


1 commento:

Antonio Caracciolo ha detto...

1. Patto scellerato.

In effetti nemmeno io credo che il popolo, e quello italiano in particolare, sia composto da stinchi di santo, anche se dei santi gli italiani hanno una vera e propria mania. L’obiezione che mi viene in mente è che si tratti di una spiegazione moralistica, per nulla infondata, ma che non ha valenza politica. Proprio oggi in seduta di laurea mi è toccato sorbirmi la solfa del pactum unionis (buono, sinonimo di democrazia e libertà) e del pactum subiectionis (cattivo, base della tirannia). In questi giorni in cui andiamo a votare mi chiedo quale cittadino sia così sprovveduto da credere che la sua volontà conti qualcosa. Spiegando ai miei studenti il rapporto protezione-obbedienza (pactum subiectionis) esemplico dicendo che al suddito poco importa della forma istituzionale del governo finantoché a lui siano assicurati, per davvero e senza trucchi come nel "patto scellerato”, i fondamentali ed anche i marginali dell'esistenza (certezza della vita fisica con tutti gli onesti agi propri di una società civile ed industriosa). La verifica è qui direttamente nel risultato (non fraudolento), nella concretezza dell'esistenza materiale. Al contrario, l’illusione della pari dignità del "pactum unionis” produce presto il predominio dei furbi e dei disonesti, dei soggetti scellerati di un patto scellerato.