lunedì 17 marzo 2008

«Che c’è di male? » E lascialo giudicare a noi!

Versione 1.0

Quando ho incominciato a monitorare «Informazione Corretta» non immaginavo che la cosa potesse essere anche divertente. Ero piuttosto inferocito per la diffamazione di cui mi sentivo oggetto. Fu così che pensai di rendere pan per focaccia, attaccando i «Corretti Informatori» sul loro stesso terreno ed in casa loro, osservando quanto in effetti riuscivano ad esser “corretti”, volendo portar il nome stesso della “Correttezza” e magari delle “santità”, o meglio ancora stando all’ideologia religiosa ebraica i nostri «Corretti Informatori» hanno una granitica certezza di camminare nei sentieri della “giustizia” e di essere quegli “uomini giusti” di cui si legge nella fraseologia biblica, ossia in quel 25 per cento che caratterizza la produzione libraria israeliana, ospitata in Parigi ed alla prossima Fiera torinese del libro. I dati comunicati dal “Manifesto” ci danno la misura appropriata di cosa sia la cultura israeliana.

Ma ciò che diverte è il tono dei “Corretti Informatori”, i “Giusti” di Israele, che non solo si arrogano il diritto di “correggere” quanto quotidianamente trovano sulla stampa italiano, ma poi anche pretendono di riformare i giudizi di quanti scrivono e dei loro possibili lettori. Ma non si fermano neppure qui. Si spingono fino al processo delle altrui intenzioni. I “corretti” commenti redazionali sono sempre rigorosamente anonimi e non sappiamo quindi se attribuibili ad una stessa mano e quale mano oppure a diverse mani. Chi Giorgio Israel? Pezzana stesso? I nomi che figurano ufficialmente fra Collaboratori e Redattori o un Gruppo mercenario pagato a cottimo o a giornata? Quel che è certo che che vi si trova non poca immaturità, a voler essere mite nel giudizio. Ecco comunque, per sollevare lo spirito dei miei lettori, ma senza il solito commento interlineare, questo nuovo rinnovato capolavoro dei «Corretti Informatori» seguito dal testo di riferimento, sempre preso da “il Manifesto”, contro il quale è stata votata una sorta di crociata ebraica:
Manifesto Critica
16.03.2008 Libri religiosi ? Che c'è di male ?
forse il quotidiano comunista preferirebbe l'ateismo di stato ?

Testata: Il Manifesto
Data: 16 marzo 2008
Pagina: 13
Autore: Maria Teresa Carbone
Titolo: «Un quarto dei libri è di tema religioso»

Israele sarebbe "probabilmente l'unico paese al mondo - Vaticano a parte - in cui quasi un quarto della produzione editoriale è composta da libri religiosi"
Lo sostiene su Il MANIFESTO del 16 marzo 2008 Maria Teresa Carbone. Ci chiediamo come sia arrivata "probabilmente l'unico paese al mondo". Ha fatto un paragone con la pruduzione dell'Arabia Saudita, del Sudan o dell'Iran ?

E' evidente, comunque, che lo scopo di questa sottolineatura è quello di controbilanciare l'eventuale effetto positivo che sul lettore del MANIFESTO potrebbe avere (non sia mai) la considerazione della nota vivacità della cultura israeliana. Gli israeliani leggono molto, suggerisce il quotidiano comunista, ma soprattutto testi religiosi, da fanatici fondamentalisti quali sono.

La realtà è però che Israele rimane un paese libero. All'editoria non sono imposti né i libri religiosi né l'ateismo di stato. Sono gli interessi e i gusti del pubblico, alla fine a decidere quali libri vengono stampati. E se tra questi interessi c'è anche quello religioso non c'è nulla di male e nulla su cui ironizzare. I testi religiosi possono essere di altissimo livello culturale e non vi è dunque contraddizione tra l'immagine positiva del mercato editoriale israeliano e il fatto che una considerevole fetta di mercato sia rappresentata dai libri religiosi (e d'altra parte è ovvio che l'importanza dei libri in Israele non è senza connessioni con l'importanza che i libri hanno sempre avuto nell'ebraismo).

Ecco il testo:

Ha davvero caratteristiche curiose il mercato editoriale israeliano, così come è stato presentato in questi giorni a Parigi. A prima vista, potrebbe sembrare il paese di Bengodi, soprattutto da una prospettiva depressa e deprimente qual è quella italiana: ogni anno infatti in Israele si vendono circa trentacinque milioni di libri che equivalgono - per una popolazione inferiore ai sette milioni di abitanti - a circa cinque volumi a testa, infanti compresi. Osservando più da vicino i dati, però, il paradiso rivela i suoi lati oscuri. Con 6866 titoli pubblicati nel 2006, non è esagerato parlare di una sovrapproduzione che si traduce in tirature piuttosto basse e in dati di vendita paradossalmente mediocri: le novità della narrativa raramente superano le duemila copie, anche perché la vita media di un libro sui banconi è assai breve.
Forse anche per questo, il prezzo medio di un libro è elevatissimo, intorno agli ottanta shekels (circa 44 euro) per un testo di narrativa destinato agli adulti e circa cinquanta shekels (28 euro) per i libri per bambini. In realtà, però, molto di rado i volumi vengono venduti a questi prezzi: le due grandi catene di librerie israeliane, Steimatsky e Tzomet Sefarim, che si sono impossessate del mercato, praticano una politica molto aggressiva di sconti, riducendo ancora di più non soltanto lo spazio delle librerie indipendenti, ma anche la vitalità delle piccole case editrici, penalizzate dai megastore. Ma la vera specificità è un'altra: Israele è probabilmente l'unico paese al mondo - Vaticano a parte - in cui quasi un quarto della produzione editoriale è composta da libri religiosi

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redazione@ilmanifesto.it


Scriverò naturalmente al Manifesto, ma non nei termini richiesti dai “Corretti Informatori”. I dati del “Manifesto” sono interessanti perché gettano nuova luce sull’effettiva dimensione culturale dell’ospite d’onore alla Fiera di Torino. Di David Grossman ho già inizato il boicotaggio non comprando il libro in traduzione italiana distribuito dalla rete Feltrinelli, con la ferma consapevolezza di non essermi perso nulla in questo caso, mentre non mi pento di altri acquisti librari come Pappe o Seghev, che non mi pare siano andati alla Fiera. In effetti, troppo ed a torto si parla di fondamentalismo religioso islamico, ma è più consistente il fondamentalismo religioso ebraico. La produzione libraria sta a testimoniarlo: a cosa serve un quarto della produzione libraria destinato a scopi religiosi? Alta cultura? Sarà! Ma è lecito dubitarne.

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