venerdì 19 febbraio 2010

Teodoro Klitsche de la Grange: Il caso Bertolaso.

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1. Il caso Bertolaso è l’ultimo – tra i molti, troppi simili – di una mentalità che confonde, spesso artatamente sollecitata, tra esigenze pubbliche e relativo “ordine di precedenza”.

Spieghiamoci: non siamo in grado di giudicare se effettivamente il dr. Bertolaso abbia commesso qualcosa di quanto gli sarebbe addebitato (peraltro in corso di accertamento). Sarà il prosieguo della vicenda a chiarire se, come, cosa abbia commesso, se una certa fisioterapista si occupava delle articolazioni e dei muscoli del sottosegretario, o erogava un altro genere di prestazioni (e quale ne fosse la contropartita). Quel che sappiamo – o crediamo di aver capito – è che il dr. Bertolaso è un amministratore piuttosto efficiente – anche se con la burocrazia e l’amministrazione italiana è fin troppo facile fare bella figura -; e che se si vuole portare a casa dei risultati non delude. Un po’ come il governo Berlusconi che nel realizzare – dalla pulizia di Napoli al terremoto dell’Aquila – è di gran lunga più fattivo dei governi di centrosinistra.

Ciò non toglie che nell’immaginario (di parte) dell’opinione pubblica ciò che conta di più è il “rispetto delle regole” piuttosto del conseguimento di risultati. È poi spesso imprecisato – e nient’affatto chiaro – se le “regole” di cui si chiede il rispetto siano morali o giuridiche (e talvolta, apparentemente, anche tecniche, anche se queste hanno prevalentemente a che fare con i risultati).

A seguire queste convinzioni diffuse sembra che se uno si serve dell’opera di un idraulico pretende – e ha diritto – che questo esegua il compito di guisa da permetterci di usare cucina e bagno senza problemi; se di un medico ha diritto di esigere da questi che curi la malattia in modo che il paziente guarisca; o dall’avvocato tuteli gli interessi del cliente in modo efficace. Ma se il compito spetta ad un politico, un amministratore, un funzionario l’attesa non sarebbe quella di ottenere risultati, ma che il suddetto osservi, nell’espletarlo, le norme fissate.

Il che appare quantomeno sorprendente: in primo luogo perché, a tacer d’altro, sottovaluta sia le legittime aspettative ai risultati sia perché se si osservano le regole ma non si conseguono risultati, tutto l’affare è inutile e l’impegno, umano e finanziario, che gli si riserva è energia sprecata.

E questo è un abbaglio ricorrente nella storia umana e per lo più stigmatizzato da filosofi e giuristi. Da ultimo Croce
vi ironizzava sopra scrivendo: “laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a un’operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurghi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatoria, nelle cose della politica si chiedono, invece, non uomini politici, ma onest’uomini”. Tuttavia è interessante chiedersi perché vi si ricaschi oggigiorno con tanta frequenza, perché un’opinione pubblica che fa della dietrologia il proprio pane quotidiano, ricada in questo che, tra gli idola è uno dei più improponibili, a tratti grottesco.

2. Tante potrebbero essere le risposte: ma a voler rispondere in termini non di sfruttamento propagandistico (o altro), ma sotto il profilo di un ethos diffuso e che taluno s’ingegna a implementare, il tutto appare frutto di certe rappresentazioni del vivere associato e del “sistema di valori” che vi si ritiene più congruo.

Un filosofo del diritto come Radbruch
scriveva, quasi un secolo fa, che le tre idee di valore (giustizia, scopo, certezza) tipiche del diritto, necessitano di completarsi l’una con l’altra “Le tre idee di valore si esigono l’una coll’altra, ma contemporaneamente si contraddicono l’una coll’altra. Salus populi romani suprema lex esto si dice da un lato, tutto sta nella conformità allo scopo; iustitia fundamentum regnorum ne è la risposta, la giustizia è il fondamento del diritto; da una terza parte si dice fiat iustitia, pereat mundus, il diritto positivo deve valere a spese degli altri valori giuridici… Così all’interno dell’idea del diritto esistono mutue tensioni che esigono una composizione”. A seconda che si ponga l’accento su l’una o sull’altra di queste “idee di valore” abbiamo diverse concezioni del vivere associato e conseguenti diversi (nelle finalità) ordinamenti.

Tuttavia il principio dello scopo (salus populi romani…) prevale sugli altri non foss’altro perché come scriveva Croce, criticando l’errore degli illuministi (e comunque di quelli che pensano che sotto ogni istituzione c’è un interesse personale – il che è vero, ma non c’è solo quello). “l’errore o il sofisma dei critici e polemisti dell’illuminismo proviene dal togliere in iscambio l’interesse del singolo con l’egoismo, che non è più semplice interesse del singolo ma contrasto di questo interesse con l’interesse dell’universale. Per sé considerato, l’interesse del singolo non solo non è in contrasto con l’interesse dell’universale, ma forma anzi la condizione e il veicolo di questo. Che cosa c’è di più individualmente interessato, di più «naturale», di più indifferente all’universale, del bambino? Il bambino bada a nutrirsi e a crescere, e a nient’altro. Ma è chiaro che, se ciò non facesse, la società non avrebbe mai coloro che la servono e per lei si sacrificano. Prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”. E in effetti si può dare una regola solo a ciò che esiste (e auspicabilmente è vitale): provatevi a regolare ciò che non esiste, e se non vi porteranno in manicomio è solo perché i manicomi sono stati aboliti, e perché idee così bizzarre per lo più non fanno danno. Ma se ripetute lo possono fare; e, specie nell’Italia contemporanea, ne hanno fatti tanti.

E appena il caso di ricordare che nella dottrina dello Stato moderno l’esigenza primaria curata dai poteri pubblici è di salvaguardare l’esistenza della comunità e di perseguire i di essa interessi. Essendo questo compito prevalente del potere governativo-amministrativo, se ne è dedotto che compito principale dell’amministrazione è la cura degli interessi affidategli (per Bertolaso le emergenze, per lo più naturali). Un acuto giurista come Forsthoff esprimeva in latino la differenza essenziale tra legge e amministrazione; la prima è (essenzialmente) ratio, la seconda actio .

Caratteristica del provvedimento (atto tipico della funzione amministrativa) è “una specifica relazione tra mezzo e scopo. Il provvedimento è diretto ad uno scopo. A questo scopo sono adottati e subordinati i mezzi che sono usati per il suo raggiungimento”. Affermazioni simili le si può leggere in gran parte dei manuali di diritto amministrativo.

Tale prevalenza del conseguimento del risultato, della realizzazione concreta di interessi pubblici appare, nel modo più evidente in occasione di emergenze, in cui autorità (ed organi) talvolta straordinari (appositamente istituiti), talaltra ordinari, hanno facoltà di emettere ordinanze anche in deroga alla legge (come per il Commissario del terremoto campano-lucano o come prescrive la legge di guerra per i bandi “in deroga alla legge”): è, in fondo, la specificazione in casi particolari, e (talvolta, relativamente) meno drammatici dell’esigenza fondamentale sintetizzata da Jhering nella regola che “al di sopra del diritto è la vita” e se la situazione è d’emergenza “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”.

Che poi, passando ad altro aspetto, le situazioni d’emergenza dimostrino che il fine principale dello Stato non è di dare delle regole (semmai di farle applicare), ma di salvaguardare “il vivere e ben vivere” è confortato da un’altra circostanza; che l’eccezione e le misure per fronteggiarla non sono neppure riconducibili allo schema regola/trasgressione/sanzione.

Nelle situazioni d’eccezione non c’è, spesso, nessuna regola trasgredita (guerre, alluvioni e terremoti sono abolibili per decreto?) e conseguentemente nessuna trasgressione da reprimere, né sanzione da comminare. C’è soltanto l’insorgere di una situazione nella quale la legislazione, pensata per una situazione normale, è d’impedimento a fronteggiare quella eccezionale: onde la necessità di deroghe alla normativa vigente volte a salvaguardare il diritto alla vita e all’esistenza ordinata. C’è un compito da realizzare, non uno (o più) delinquenti da arrestare, processare e sanzionare. È la situazione d’eccezione a comprovare che la funzione più importante dell’autorità non è l’applicazione delle norme, ma la protezione dell’esistenza comunitaria (il vivere e il ben vivere) che Croce aveva mutuato da quanto sosteneva Marsilio da Padova (la “causa finale” dell’autorità politica) molti secoli fa.

3. C’è da chiedersi, a questo punto, per quale ragione, in particolare nel secondo dopoguerra, si sia diffusa la convinzione (l’idola) criticata.

Si può pensare, in primo luogo che le limitazioni della sovranità dello Stato italiano, conseguenti alla sconfitta nella seconda guerra mondiale ed agli accordi di Yalta,
abbia ridimensionato la percezione dello Stato come istituzione finalizzata, in primo luogo, alla protezione della comunità da aggressioni (e calamità); percezione accresciuta dopo il collasso del comunismo, e alla (conseguente) concezione/aspettativa, diversamente formulata e sostenuta, di un’ipotetica “fine della storia”. Se la storia finisce per assenza di nemico, lo Stato, come l’esercito, e le forze armate in genere diventano un lusso da ridimensionare se non (addirittura) uno spreco da eliminare. Ma, dato che l’assenza del nemico (pubblico ed esterno) non angelica la natura umana, residua allo Stato la funzione di arrestare i malfattori e assicurare all’interno un ordinato vivere civile. Funzione quest’ultima che meglio si presta ad essere identificata e sussunta sotto una funzione giudiziaria-moralizzatrice, cioè la forma in cui il richiamo alle “regole” viene percepito da molti.

In secondo luogo, che il tutto sia l’ideologia di coloro che le “regole” devono applicarle, interpretarle e farle osservare. Cioè, essenzialmente, della burocrazia la quale gode anche di una (spesso infondata in fatto) “neutralità”, quella di dover essere, à la Montesquieu, la bouche de la loi, mentre di fatto esprime interessi, idee e “valori” di ruolo. Quel fiat justitia pereat mundus ha comunque un senso – e una funzione – condivisibile e positiva, se è inserito in un sistema di “precedenze” che lo colloca – almeno – al secondo posto dopo la protezione dell’esistenza (collettiva ed individuale).

Il problema si pone quando tra l’uno e l’altro si configura un contrasto.

Allora non è più dilazionabile la decisione se dare precedenza alla prima o alla seconda: e se si decide per osservare le regole piuttosto che assicurare l’esistenza, la logica conseguenza è, nel caso estremo, la fine politica; negli altri, grazie al cielo meno drammatici, frangenti, di pagare in termini di “vivere e ben vivere” l’osservanza a regole non idonee e talvolta non applicabili.

Teodoro Klitsche de la Grange



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