domenica 25 maggio 2008

Cronisti: 1. Michele Giorgio e gli articoli del Manifesto

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Michele Giorgio, giornalista del “Manifesto”, è uno dei più amati dai nostri «Corretti Informatori». Le sue notizie implacabili su ciò che succede in Israele suscitano il livore di chi redige “corretti Commenti” che non infirmano l’obiettività degli articoli di Michele Giorgio. Le notizie sono quelle. Ognuno è poi libero di darne la valutazione in linea con le sue simpatie politiche. Restano liberi nel giudizio anche i «Corretti Informatori». Ma non giudizi si trovano nei loro commenti bensì solo invettive, denigrazione ed un penoso tentativo di ridicolizzare il “Manifesto”: un ridicolo che ricade impietosamente su di loro stessi. Infatti, l’istigazione ai loro Lapidatori afficnhé scrivano lettere alla redazione del Manifesto non sortiscono nulla. Non resta loro che un tentativo di ridere sguaiatamente su tragedie che gridano vendetta al cospetto di Dio, magari non di Jahvè, dio partigiano, ma certamente al cospetto di tutti gli altri dei forniti di senso di giustizia e di pietà. Ma ecco il primo degli interessanti articoli di Michele che riproduciamo con diverso editing proprio dalla “rassegna stampa” dei «Corretti Informatori»:
Versione 1.1
Status: 22.6.08
Sommario: 1. Gli “arabi modello” nell’«unica democrazia» del Medio Oriente. – 2. Le cronache dalla Palestina. – 3. Lo sconcerto dei «Corretti Informatori». – 4. L’immoralità degli embarghi e la pratica degli omicidi legali. – 5. Il terrore dei «Corretti Informatori» all’idea dello stato unico arabo-israeliano. – 6. La nuova politica estera di Franco Frattini. – 7. Povertà in Israele, continazione della pulizia etnica in Cisgiordania e piani edilizi mirati. – 8. Il mentitore che dà del bugiardo a chi dice il vero. – 9. «Beduini, gli israeliani delle riserve». – 10. Un film dell’orrore. – 11. Ordinaria tortura ed infame commento. – 12. Il dibattito sull’islamizzazione della società palestinese. – 13. «Aiutilibici a Gaza, Israele li respinge». –


1. Gli “arabi modello” nell’«unica democrazia» del Medio Oriente. – Per chi ha letto il libro appena uscito di Ilan Pappe su La pulizia etnica della Palestina diventa chiaro il quadro di una popolazione palestinese in parte massacrata il loco ed in parte espulsa dai villaggi in cui aveva sempre vissuto di generazione in generazione. Una parte rimase. L’articolo di Michele Giorgio che segue offre un quadro delle condizioni di vita di questa parte di popolazione palestinese. E da aggiungere che la situazione odierna non è per nulla mutata. I cittadini arabi di Israele vivono sotto ricatto e sono costretti alla delazione. Ma ecco il bell’articolo di Michele Giorgio a cui seguiranno in questo stesso post tutti gli altri che fanno venire il mal di pancia ai «Corretti Informatori»:
Fonte e titolo originale:

Michele Giorgio, «La vita agra degli arabi-israeliani «Noi, costretti a spiarci l’un l’altro», in Il Manifesto, del 4 maggio 2008, p. 8.

Haifa. Quando una dozzina di anni fa lo studente Hillel Cohen, ora stimato docente di storia all’Università ebraica di Gerusalemme, vide quei documenti, si rese subito conto della loro eccezionale importanza. I funzionari dell’Archivio di Stato, declassificando migliaia di vecchi fascicoli della polizia su furti, rapine e altri reati comuni commessi negli anni successivi alla fondazione di Israele, non si resero conto di aver messo a disposizione del pubblico anche materiali riguardanti migliaia di cittadini palestinesi (gli arabi israeliani) che in quel periodo erano stati informatori dei servizi di sicurezza, in gran parte di piccolo calibro ma anche qualche spia a tutti gli effetti, ben integrata nel nuovo Stato nato nel 1948. Da quei vecchi fogli di carta ingialliti pieni di nomi e relative «prestazioni», Cohen riuscì a tirar fuori un libro: «Gli arabi modello». Divenne un bestseller. Mai nella storia di Israele un libro scritto in ebraico ha trovato tanti lettori tra gli arabi. Dalla Galilea Bassa e Alta fino al deserto del Negev, i palestinesi si procurarono un copia del libro, ristampato più volte. «Le pagine più lette in realtà furono quelle con l’indice dei nomi, tanti temevano per l’onore della famiglia», ha ironizzato lo scrittore Sayyed Qashua.

Ma da ridere e da ironizzare c’era ben poco, perché gli anni successivi alla creazione di Israele furono tra i più amari e tormentati per i 150-200mila palestinesi che non abbandonarono o vennero cacciati via dalla loro terra, come avvenne per altri 700-750 mila palestinesi poi finiti in Siria, Libano, Giordania e altri paesi arabi e ai quali non è mai stato concesso di tornare nella loro terra d’origine, sebbene ad affermare questo diritto sia una precisa risoluzione dell’Onu. Sbandati, senza dirigenti politici, isolati, considerati alla stregua di traditori dagli altri arabi perché vivevano sotto l’autorità di Israele e, allo stesso tempo, costantemente seguiti dai servizi di sicurezza del neonato Stato ebraico - fino al 1966 sono rimasti sotto un duro governo militare -, i palestinesi furono chiamati a superare difficoltà enormi.

«Erano cittadini, con diritto di voto, ma ogni aspetto della loro vita in quel periodo tra il 1948 e il 1966 era condizionato all’ottenimento di permessi e autorizzazioni, e per averli tanti non ebbero altra scelta che collaborare con lo shabak (il servizio di sicurezza interna)»,


ha scritto il professor Yoav Di Capua, uno studioso di quel periodo di storia israeliana. «Tanti della mia generazione hanno collaborato - racconta Abu Maher di Mekker, una cittadina vicina ad Acri - Ci spiavamo a vicenda, magari riferendo (allo shabak) solo cose poco importanti, perché l’essenziale era dimostrare che non si era contro il nuovo Stato. E chi manifestava dissenso veniva punito in tanti modi».
[È utile qui ricordare ai Polito, Bordin ed a tutti i fregolanti dei diritti umani a senso unico che l’«art. 3 comune» delle quattro convenzioni di Ginevra, da me citato dal testo di Johnson, Nemesi, p. 38-39, che lo richiama per confutare il concetto di “danno collaterale” con il quale si tenta di giustificare la quotidiana falcidia di vittime civili in ogni luogo in cui le armate imperiali portano libertà, democrazia, diritti umani:
L’Articolo 3 comune vieta “in qualsiasi momento e luogo” atti di violenza, tra cui omicidio, mutilazione, tortura e offesa alla dignità umana contro soggetti protetti – ossia contro “persone che non partecipano attivamente alle ostilità” – quali i civili, i feriti, i prigionieri di guerra. “Tali soggetti hanno, in qualsiasi circostanza, diritto al rispetto della loro dignità e della loro religione e devono essere protetti dalle ingiurie e dalla curiosità pubblica. Nessuna coercizione fisica o morale dovrà essere esercitata per ottenere da loro informazioni su soggetti terzi. Le rappresaglie contro i soggetti protetti e le loro proprietà sono vietate’.
Nella rassegna stampa di ieri sabato 21 giugno 2008 ho sentito il conduttore Marco Taradash che dava notizia di una risoluzione Onu, presentata o in votazione, dove si condanna lo stupro di guerra, che secondo un informato articolo del l’«Avvenire» pare sia stato un normale aspetto delle guerre di ogni epoca e di ogni luogo. Naturalmente, ben venga una simile proibizione, se proprio non si riesce ad abolire la guerra, malgrado si dicano tutti contrari alla guerra. Ciò che ha attratto la mia attenzione, per la quale avrei voluto scrivere un apposito post, è stato l’entusiastico commento aggiuntivo alla rassegna stampa con il quale Marco Taradash – su cui ora non dico – si compiaceva che i proponenti di una simile risoluzione sono gli Stati Uniti. Guarda caso è sempre Chalmers Johnson che nella sua Trilogia ci informa come la pratica degli stupri, non già in tempo di guerra, ma in tempi di pace sono il normale “danno collaterale” che si accompagna ad ogni base americana sparsa in ogni angolo del mondo. Famoso il caso della quattordinenne di Okinawa. Non se ne parla sui primi titoli dei giornali, ma è un fatto assolutamente normale e ben lo sanno, temendolo, i fantocci insediati nel governo iracheno. Non accettano – dicono – il principio dell’immunità giurisdizionale delle truppe americane, destinate a rimanere in Iraq. Le fanciulle musulmane saranno presto educate all’Occidentale e potranno finalmente avere la loro emancipazione.]
Quando si parla del periodo tra il 1948 e il 1967 per gran parte degli israeliani, e non solo loro, si fa riferimento ad uno Stato di Israele unito, semplice, impegnato esclusivamente a garantirsi la sopravvivenza. Una sorta di Prima Repubblica moralmente armonica che, sostengono molti, avrebbe avuto fine con l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, «corruttrice» dei valori di una società «innocente». La storiografia israeliana recente ha spazzato via questo velo di purezza steso per decenni sui primi venti anni di vita del paese, rivelando, fra le altre cose, la condizione della minoranza palestinese in quegli anni.

E nessuno meglio di Emil Habibi, lo scrittore e giornalista scomparso nel 1996, ha saputo raccontare con amara ironia, il quel romanzo geniale che è «Il Pessottimista», la condizione di un arabo in Israele. Un contributo decisivo in questa direzione è stato dato due anni fa da Shira Robinson con il suo «Cittadini occupati in uno Stato liberale: i palestinesi di Israele» (Stanford University). Come Abu Maher di Mekker, altri anziani arabi israeliani ora hanno voglia di raccontare quegli anni, pur nascondendo ancora la loro vera identità. La paura non è scomparsa. Abu Alaa del villaggio di Tirat Haifa, (oggi Tira Carmel, alle porte di Haifa), nel 1948 aveva 17 anni. «Fuggimmo quando la milizia ebraica aprì il fuoco su Haifa, ma non per mare come fecero tanti ma verso la Giordania e la Siria» ricorda Abu Alaa. «I miei fratelli ed io alla fine del 1948 e nei primi mesi del 1949 tornammo più volte, approfittando della mancanza delle barriere di confine, per vedere le nostre terre e la nostra casa. Poi, una notte, fummo scoperti dalla polizia. I miei fratelli riuscirono a fuggire, io in preda al panico venni arrestato». Abu Alaa in carcere rimase per quasi sei mesi, accusato di essere entrato «illegalmente» nella terra dove era nato e cresciuto e dove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni. «Avevo visto come era la vita nei campi profughi e quindi decisi di rimanere ad Haifa anche se la mia famiglia era in Siria - prosegue l’anziano - in prigione un collaborazionista mi offrì un permesso di soggiorno rinnovabile, in cambio avrei dovuto lavorare la sua terra senza compenso. Così di giorno zappavo per quell’uomo e di sera lavavo piatti e spazzavo pavimenti per gli immigrati ebrei che arrivavano dall’Europa. Ho sofferto per la fame e per il dispiacere. La mia casa era lì, ancora in piedi, ma non potevo tornarci».

Abu Masih, 79 anni, un palestinese cattolico di Haifa, ha vissuto per lungo tempo in una tenda. «A causa della guerra scappai con i miei genitori in un villaggio vicino - racconta con un filo di voce - le autorità israeliane ci presero la casa, dissero che era vuota e quindi la sua proprietà era passata allo Stato. Eppure noi eravano di nuovo ad Haifa, spiegammo che ci eravano allontanati solo per qualche mese. In un attimo perdemmo tutto e per mangiare abbiamo dovuto fare ogni lavoro, senza fiatare. Volevamo rimanere nella nostra terra e lo shabak ci obbligò a collaborare. Ho taciuto per tanti anni, per la vergogna, ma ora la mia famiglia e il mondo devono sapere la verità, devono sapere cosa abbiamo sofferto».
A questo articolo, su cui vi è poco da obiettare nella sua disarmante obiettività, i «Corretti Informatori» premettono un commento che noi riportiamo per documentarne la stupida insulsaggine. Manca un nome e cognome per renderne nominativa la gloria, ma in assenza supplisce il Direttore della Testata:
Qualcuno sostiene che Israele è diventata cattiva nel 1967. La sua colpa fu vincere una guerra difensiva,
[dopo aver occupato con la violenza, la frode, l’inganno un terrotorio altrui. La difesa qui invocata è la stessa di quella di una scassinatore che si insedia in casa nostra, ci caccia via e poi “si difende” quando gli antichi proprietari vogliono rientare in casa loro. Bella faccia!]
contro una coalizione di stati arabi che ne volevano l’annientamento, e conquistare Cisgiordania e Gaza.
Al MANIFESTO e a Michele Giorgio questa tesi sembra evidentemente troppo poco radicale. Israele è cattiva dal 1948,
[Illustri “Corretti Informatori” se vi andate a leggere non gli articoli di Michele Giorgio, ma il libro dell’ebreo israliano Ilan Pappe, sopra citato, vi accorgere che lo stato la cui causa voi patrocinate è nato e prosperato su un costante genocidio. Alla faccia dell’«Olocausto», nel cui pietismo non solo avete massacrato gli innocenti palestinesi, ma avete spolpato all’osso tutti i popoli europei, privandoli perfino della libertà di poter pensare]
la sua colpa è esistere.
[Il vostro cruccio è di non essere riusciti a cancellare la memoria del genocidio palestinese: la retorica e la propaganda di regime vive nella continua enfatizzazione e falsificante mitizzazione dell”«Olocausto» di cui sarebbero colpevole Tutti gli europei, ma con maggiore criminale pertinacia si vuole nascondere la Nakba, che in realtà fu molto di più di una “disgrazia”. Fu un vero e proprio genocidio di gran lunga superiore ad Auschwitz]
A ulteriore "dimostrazione" di questa tesi il 4 maggio 2008 il quotidiano comunista
[Farebbero bene a documentarsi i nostri “Corretti Informatori”: furono i comunisti ed i cecoslovacchi a dare loro le prime armi che servirono a massacrare gli innocenti ed indifesi palestinesi durante la Nakba. Quindi hanno poco da irridere al “comunismo”: sono loro debitori.]
pubblica un articolo, di Giorgio per l’appunto, sugli informatori arabi dei servizi di sicurezza israeliani dopo la guerra del 1948.

Dal fenomeno degli informatori, Giorgio ricava la rappresentazione di una politica di discriminazione e persecuzione poliziesca. Anche lui deve ammettere che gli arabi israeliani nel 48 erano cittadini con il diritto di voto.
[E allora? Quasi che il diritto di voto sia il toccasana di ogni angheria e ricatto che quei poveri disgraziati subivano e subiscano. Il diritto di voto nelle condizioni date è un’ulteriore angheria che consente al ministero della propaganda di far circolare la bufale dell‘«unica democrazia» del Medio Oriente. Vorremmo vedere che i sionisti ammettessero una categoria di cittadini senza diritto di voto. Per giunta, le persone a cui il voto sarebbe stato negato erano pure gli originari abitanti del territorio. Evidentemente per i nostri «Corretti Informatori» la democrazia inizia e finisce con il “diritto di voto”]
Non prende nemmeno in considerazione, però, i motivi per i quali le autorità israeliane avessero da temere che all’interno della comunità araba agissero forze ostili allo Stato, subito dopo la fine della guerra.
[Sappiamo quale guerra e con quale legittimità condotta. Se si tolgono i “sionisti” e si mettono i “nazisti” il quadro che ne viene fuori non muta in peggio. Dopo il “misfatto” l’assurda pretesa del “benfatto” e del “diritto” al misfatto.]
Nè l’ipotesi che alcuni arabi israeliani vedessero in fondo il proprio interesse, magari inconfenssabile, a collaborare con Israele nella lotta al terrorismo.
[Il corrotto ed il ricattato può avere un suo interesse ad accettare ricatto e corruzione, ma ciò non assolve né il ricattatore né il corruttore.. Ecco forniti dai «corretti Informatori» in un illuminante esempio della loro “superiore” «corretta moralità»]
Senza bisogno di essere "ricattati". In ogni caso quella che per Giorgio fu una discriminazione che condanna moralmente Israele da prima del 67, non fu che l’adozione di necessarie misure di sicurezza.
[In nome della loro turpe e banditesca sicurezza i sionisti israeliani hanno superato i crimini da loro imputati ai nazisti. A risarcimento dei quali hanno preteso dai deboli governi europei il diritto a compiere maggiori crimini ai danni di terzi innocenti, cioè i palestinesi]
Misure che non misero mai in discussione i diritti fondamentali della minoranza araba, ma che fecero fronte alla difficile situazione successiva alla guerra d’indipendenza.
[Ma quale guerra di indipendenza? Indipendenza dai palestinesi che erano i legitti abitanti e possessori della terra dalla quale sono stati estromessi o degli inglesi che non hanno mai avuto diritto su quella terra e che per l'appunto se ne stavano andando dopo aver fatto tutti i guasti possibili, lasciando fango sul loro nome e sulla loro memoria? Veramente, le parole vengono qui usate con la più spudorata disinvoltura quasi avesseroa che fare con persone che possano venire ricattati e corrotti come è stato fatto con la popolazione araba di Israele, tuttora in regime di apartheid e di costante intimidazione e ricatto]
Se si va a leggere in Limes, la cui collezione completa fino a tutto il 2007 è ora disponibile in formato DVD al modico prezzo di 14,90 euro, l'articolo di...., si può vedere che al presente la situazione non è affatto immutata. Nella Cecoslovacchia ancora comunista ricordo personalmente il regime di terrore e di sospetto reciproco in in vivevano i cittadini. Ognuno sospettava dell’altro che potesse essere una spia e mi ricordo i rimproveri che mi presi da parte della mia pensionante abusiva per avergli portato in casa un occasionale amico ceco, che mi aveva a sua volta raccontato una storia allucinante. Ma la padrona di casa era invece convinto che fosse una spia. Mi è sempre rimasto il dubbio di quale fosse la verità.

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2. Le cronache dalla Palestina. – Le cronache di Michele Giorgio sono sempre istruttive e consentono di farsi un’idea a quanti non hanno mai messo piede in quelle terre tribolate, che vengono indicate spesso come un deserto fatto fiorire da Israele, mentre prima quelli che ci abitavano non si sapevano fare. In realtà, l’indubbia prosperità di Israele proviene non dall’agricoltura ma da quell’«industria dell’Olocausto» di cui ci ha reso edotti Norman G. Finkelstein. L’«Olocausto» è la principale e più fiorente industria di israele. Per sapere come se la passa la gente di gaza occorre leggere gli articoli di Michele Giorgio, regolarmente denigrato e bersagliato dai «Corretti Informatori», ma sempre cantando a loro stessi la loro messa.
Era esattamente un anno fa quando l’opinionista sloveno Ervin Hladnik, appena giunto a Gaza city, apprese che nella notte uomini armati avevano lanciato un giovane di 26 anni, Husam Abu Qnes, simpatizzante ad Hamas, da un edificio di venti piani, in risposta al lancio da una finestra del palazzo Jafari di un agente della sicurezza presidenziale. «Questi sono segni inequivocabili di una guerra civile» commentò Hladnik, che la guerra tra «fratelli» l’aveva ben conosciuta e seguita nei Balcani.
«Quando qualcuno lancia dalla finestra uno della sua città, del suo quartiere, vuol dire che non riconosce più l’altro come un essere umano», aggiunse mentre già riecheggiavano le raffiche di mitra. Aveva ragione. Non lo aveva capito invece la gente di Gaza e le tante persone convinte che il regolamento di conti sarebbe stato evitato. I capi politici e militari di Hamas e di Fatah al contrario sapevano bene cosa stava accadendo.
A cominciare da Mohammed Dahlan, «uomo forte» di Fatah, nemico giurato di Hamas, che da mesi faceva il possibile per ostacolare - con l’aiuto degli Stati Uniti - il Governo di unità nazionale presieduto da Ismail Haniyeh, nato dagli accordi della Mecca. Dahlan però non era più a Gaza quando la Tanfisiya, la neonata polizia di Hamas, si lanciò all’attacco delle sedi dei servizi di sicurezza e della guardia presidenziale. Era già al sicuro da giorni, assieme a diversi generali e colonnelli che sapevano bene che Hamas stava per reagire.
Lasciarono da soli migliaia di agenti e poliziotti stanchi e demotivati che si arresero subito, spesso senza resistere. Il 14 giugno, a sera, era tutto finito, ma il bagno di sangue era ugualmente avvenuto. Furono quasi 150 i morti, centinaia i feriti. Hamas aveva il potere ma cominciò subito a fare i conti con un isolamento ancora più duro di quello scattato dopo la sua vittoria elettorale del 2006.
«Com’è Gaza un anno dopo? Meglio e peggio allo stesso tempo - dice Wassim Abu Samadan, un impiegato di Gaza city -: da un lato c’è più organizzazione e meno corruzione, dall’altro siamo prigionieri e mancano tante cose, soprattutto la benzina, a causa di Israele». Wassim riflette l’opinione di tanti abitanti di Gaza. Afferma di non essere «invidioso» della vita in Cisgiordania, sotto il controllo del governo «d’emergenza» di Salam Fayyad. «Lì ci sono soldi, c’è più lavoro ma qui siamo più uniti, la disgrazia ci ha reso più forti. Ma alla fine torneremo tutti insieme», auspica, precisando di essere un sostenitore di Fatah. Parlando con la gente di Gaza emerge che il movimento islamico gode ancora di parecchio sostegno, anche se non pochi si dicono «stanchi». Come Amr, un commerciante. «La diminuzione del crimine è importante, ma la vita è fatta di tante altre cose - spiega - forse Hamas dovrebbe adottare una linea diversa e pensare un po’ più a noi, comuni cittadini». Wafa, una studentessa di Beit Hanun, invece è convinta che «le cose vanno bene così». La colpa, dice, «è solo di Abu Mazen e di Israele. Hamas si è difeso e ora governa come meglio può, nonostante l’embargo». È paradossale parlare di una Gaza «più tranquilla» mentre il governo Olmert minaccia una invasione, i raid aerei israeliani non cessano e i razzi artigianali Qassam volano verso il Neghev. Eppure questo è il giudizio di buona parte dei palestinesi che vivono nella Striscia.
L’embargo israeliano ha reso la popolazione più dipendente da Hamas - che ora distribuisce carburante e merci accumulate in precedenza - mentre Abu Mazen e l’Anp sono ininfluenti e la decisione del presidente palestinese di riaprire il dialogo con il movimento islamico, rinunciando a molte condizioni poste un anno fa, appare un riconoscimento degli islamisti.
«Siamo forti, anche più di prima e non faremo alcun passo indietro», dichiara il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri sottolineando che la popolazione continua a rispettare le direttive del suo movimento sia in protesta contro Israele che nella vita sociale. «Abbiamo messo un freno alla pornografia, al traffico di droga che corrompe i giovani e la gente paga per i servizi pubblici. I comportamenti ora sono più conformi ai valori del nostro popolo», aggiunge orgoglioso Abu Zuhri, negando però che l’intenzione di Hamas sia quella di costituire un «Emirato islamico».
A Gaza però non si muore solo per la resistenza all’occupazione e per i raid israeliani. Sono aumentati, e di molto, i delitti d’onore a danno di giovani donne e si perde la vita per malattie che invece potrebbero essere curate fuori dalla Striscia se non ci fosse il blocco israelo-egiziano dei valichi.
«Quelli di Hamas hanno molte ragioni e sono onesti rispetto all’Anp ma, allo stesso tempo, devono capire che il mondo è una giungla dove purtroppo domina la legge del più forte», commenta Safwat Kahlut, un giornalista, «non vogliono sporcarsi le mani, quindi dovrebbero anche avere il buon senso di mettersi da parte e facilitare l’avvio di una nuova fase, perché la popolazione è stanca, ha bisogno di respirare, non è possibile proseguire così all’infinito».
Ghazi Hamad, un consigliere di Ismail Haniyeh, esclude un’uscita di scena di Hamas. «La soluzione sta nel dialogo - afferma Hamad - quando c’è la volontà delle parti si raggiungono sempre buoni risultati. Fatah e Hamas non possono rimanere separati, l’unità nazionale è l’obiettivo che desidera la nostra gente, è l’unica via d’uscita».

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3. Lo sconcerto dei «Corretti Informatori». – La notizia della tregua con Hamas produce analisi ed interpretazioni quanto mai disparate a seconda del punto di vista e degli interessi da cui si si pone. Di notevole interesse è l’analisi di Michele Giorgio che coglie alls sprovvista i «Corretti Informatori». Ecco il testo apparso su il Manifesto del 19 giugno 2008.
È scattata stamani alle 6, le 5 in Italia, la tregua tra Hamas e Israele a Gaza. Domenica prossima Israele dovrebbe avviare una graduale riapertura dei valichi, permettendo l'ingresso a Gaza di centinaia di tonnellate di merci. A loro volta i mediatori egiziani rilanceranno i negoziati per uno scambio tra il caporale israeliano Gilad Shalit, in mano palestinese dal 2006, con alcune centinaia di prigionieri politici palestinesi in Israele, e per riaprire in modo permamente il valico di Rafah.
[Si noti il rapporto di 1 a 100: non era una mia esagerazione. Oltre 100 morti palestinesi per un morto israeliano, oltre 100 prigionieri politici palestinesi per un soldato israeliano prigioniero. Almeno in questo secondo caso lo scambio è a tutto vantaggio dei palestinesi.]
E' un cessate il fuoco fragile, preceduto ieri dal lancio di razzi palestinesi verso il Neghev e da una nuova chiusura del valico di Nahal Oz da parte di Israele. E' un abbassare le armi sul quale gli israeliani non scommettono, a cominciare dal vicepremier Haim Ramon che si augura la rioccupazione di Gaza per abbattere il «radicalismo islamico». Eppure, con tutti i suoi limiti, questo accordo rappresenta un importante stop alla guerra di attrito andata avanti per mesi e il ritorno, si spera, della calma per i civili da una parte e dall'altra del confine. Soprattutto per quelli palestinesi che oltre alle operazioni militari israeliane hanno dovuto fare i conti anche con un devastante embargo che ha strangolato Gaza. Ma gli effetti di questa soluzione, forse destinata a durare meno degli annunciati sei mesi, sono eccezionali anche dal punto di vista politico.
Dall'intesa mediata dagli egiziani emerge con le ossa rotte il presidente palestinese Abu Mazen, il «partner» di pace di Israele, ed invece molto rafforzati i dirigenti di Hamas, i «nemici» dichiarati dello Stato ebraico. Israele paradossalmente è incline ad un accordo più con Hamas che con l'Anp. Come presidente Abu Mazen deve (o dovrebbe) pensare prima di tutto agli interessi del suo popolo e, quindi, non poteva che augurarsi la fine del conflitto tra Hamas e Israele a Gaza. Come leader politico però il rais palestinese non può far altro che riconoscere di essere stato ridimensionato nel suo ruolo e nella sua autorità.
La leadeship di Hamas sfrutterà il cessate il fuoco per rafforzare il suo controllo di Gaza e per consolidare i suoi rapporti con l'Egitto, mentre Abu Mazen, che da anni insegue un accordo definitivo con Israele, continuerà a fare i conti con le incursioni notturne, e non solo, delle forze di occupazione in Cisgiordania e con l'incessante espansione delle colonie ebraiche a Gerusalemme est che neppure l'amministrazione Bush può o vuole fermare. La tregua non prevede una cessazione delle ostilità in Cisgiordania dove al contrario, assicurano i comandi militari dello Stato ebraico, continueranno i raid dei reparti speciali alla caccia di presunti «terroristi» , nonostante il dispiegamento delle forze speciali di sicurezza fedeli ad Abu Mazen, addestrate ad Amman e riorganizzate dagli Stati uniti e da vari paesi occidentali.
L'analista politico ed ex ministro palestinese Ghassan Khatib sottolinea che l'accordo di tregua rientra pienamente nella «strategia israeliana» di questi ultimi anni. «Israele su Gaza è flessibile perché non ha interessi in quel territorio, al contrario della Cisgiordania dove invece i suoi appetiti territoriali sono ben noti. E forse medita anche di favorire la nascita di una entità di Hamas nella Striscia in modo da limitare potere ed autorità dell'Anp in Cisgiordania», dice Khatib che prevede un futuro molto incerto per Fatah e Abu Mazen. «La politica di Olmert - spiega - ha confermato quello che Hamas dice da tempo, a cominciare dalla constazione che solo l'uso della forza (il lancio dei razzi, ndr) spinge Israele a trovare compromessi mentre il negoziato non porta ad alcun risultato concreto». Dopo sette mesi di trattative bilaterali, Abu Mazen non ha niente in mano ed è chiaro che non firmerà alcun accordo con il premier israeliano Ehud Olmert entro il 2008, come aveva entusiasticamente indicato George Bush all'incontro di Annapolis. «Per quale motivo i palestinesi dovrebbero sostenere Abu Mazen se la sua linea del negoziato non sfocia in nulla di positivo?» conclude Khatib.
Pur tenendo presente che la tregua è fragile, a questo punto Hamas sa di aver guadagnato tempo prezioso e persino un riconoscimento indiretto da parte di Israele. Potrebbe perciò mostrarsi meno interessato al tavolo al negoziato per la riconciliazione con Fatah riavviato, non casualmente, proprio da Abu Mazen. «Quando la calma sarà in vigore a Gaza - dice l'intellettuale e commentatore politico palestinese Hani Masri -
cadranno molti dei motivi, in particolare l'embargo israeliano contro Gaza, che avevano spinto le due parti a cercare la ricostituzione dell'unità nazionale. Hamas ora ha meno fretta di riunirsi con Fatah, ha ottenuto da Israele ciò che voleva e quindi porrà nuove condizioni per il raggiungimento di una piattaforma politica comune». Per Abu Mazen la notte è sempre più buia.
Poco aggrada ai «Corretti Informatori» l’analisi su Abu Mazen, che conferma i sospetti di molti analisti. Con Abu Mazen non già si trattava di cercare la pace, che Israele non ha mai voluto essendo la sua esistenza stessa incompatibile con la pace, ma si intendeva e si intende dividere il fronte palestinese ed arabo, come già si era fatto nel 1948 quando si era nutrito il piano di dividere le spoglie della Palestina con la dinastia giordana.

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4. L’immoralità degli embarghi e la pratica degli omicidi legali. – Ciò che sembra ostinatamente mancare alla coscienza di statunitensi ed israeliani è la perfetta equivalenza fra tutto ciò che è legato al nome Auschwitz e la pratica degli embarghi. Le sofferenze e lo sterminio che viene fatto di popolazioni innocenti non è in nulla meno grave del genocidio attribuito ai nazisti. L’ideologia dell’antinazismo è diventata parte sostanziale se non unica della propaganda bellica odierna. Quei presunti crimini sono però superati dagli odierni crimini, di cui ognuno può esprimere giudizio. Si parla di tregua a Gaza. In effetti, a non volerla sembrano essere principalmente gli israeliani. Mancherà loro il quotidiano massacro di civili nella proporzione di 100 morti palestinesi per un morto israeliano: in questo modo pensano di bilanciare il divario demografico con i palestinesi. Sono naturalmente sempre fissati con la nozione propagandista e demoniaca di “terrorista” non volendo riconoscere agli aggrediti il loro diritto alla resistenza, che nel caso di Gaza non ha rilevanza militare ma serve solo a conservare la dignità della vittima che non si arrende al suo carnefici. Dal secondo volume della Trilogia di Chalmers Johnson, che sto leggendo, si trovano brani sconcertanti come il seguente:
«Nel febbraio 2003, l’amministrazione Bush chiese consiglio al governo israeliano sul modo di giustificare legalmente l’assassinio di persone sospettate di terrorismo. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2003, il presidente Bush parlò di alcuni terroristi che, pur non essendo stati catturati e sottoposti a processo, erano stati “sistemati altrimenti” e osservò che “più di 3000 persone sospettate di terrorismo sono state arrestate in molti paesi, mentre molte altre hanno seguito un diverso destino. Mettiamola così: questa gente non rappresenta più un problema per gli Stati Uniti né per i nostri amici e alleati» [probabilmente si riferisce agli Israeliani, poiché in nessun modo mi riconosco come amico e alleato di Bush].
(Le lacrime dell’Impero, p. 342-43)
In altri brani sconcertanti emerge in tutta la sua evidenza istituzionale l’industria della menzogna: appositi uffici, con personale addetto, il cui lavoro è proprio quello di produrre notizie false e di confondere in tutti i modi possibili la cosiddetta “opinione pubblica”. Veri e propri centri di produzione della menzogna e della disinformazione, della cui esistenza ci si può accorgere con un minimo di spirito critico. Gli orrori attribuiti al nazismo sono stati d gran lunga superati. Purtroppo è stato pure istituito un’apposito titolo di reato che proibisce addirittura la comparazione storica e statistica.

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5. Il terrore dei «Corretti Informatori» all’idea dello Stato unico arabo-israeliano. – Limpido come sempre l’articolo di Michele Giorgio, di cui al link. Il “corretto commento” non fa altro che ripetere il testo virgolettandolo in un tentativo di dileggio. Critica al merito dell’analisi nessuna, benché il loro “odio” per Michele sia una fatto acquisito. Solo verso la fine del “corretto commento” si comprendono le pulsioni razziste dei «Corretti Informatori» ovvero «Eletti Mentitori». Tentando di riflettere con un certo distacco sul ginepraio palestinese, la soluzione più logica pare essere il superamento dell’Apartheid, sul quale si era realisticamente pronunciato Carter in un libro di cui conosco il titolo, ma che non ho ancora letto. Quasi tutti , eccetto forse quelli nati in Israele, gli ebrei israeliani hanno il passaporto del paese di provenienza. Molti vengono dalla Russia, ma vi sono pure italiani, cioè ebrei venuti dall’Italia e forniti di relativo passaporto con il quale possono sempre ritornare fra di noi. Mi auguro di no. Se si deve escludere l’ipotesi che gli ebrei di Palestina se ne debbano ritornare da dove sono venuti, restituendo ai palestinesi i loro villaggi e le loro case, l’unica ipotesi razionale ed accettabile che resta è la creazione di uno Stato Unico, dove possano vivere con eguali diritti e doveri tutti quelli che vi risiedono. Per lo Stato in quanto tale non vi sarà né ebreo né musulmano né cristiano né diversamente religioso o areligioso. Sarà certamente difficile organizzare la pacifica convivenza che potrà avvenire non sulla base della memoria o del ricordo, ma sulla base dell’oblio e dell’amnistia, secondo un’antica prassi costituzionale inglese che mi pare sia stata applicata proprio in Sud Africa all’uscita dall’Apartheid. Credo che a non volere ciò siano soprattutto i sionisti che dovrebbero rinunciare alla loro idea della stato “ebraico”, cioè su base razziale e razzista. Del resto, l’idea dei due stati due popoli è assurda ed irrelizzabile a meno di non immaginare uno stato delle riserve indiane, magari unite da camminamenti sotterranei fra un appezzamento e l’altro. Oppure uno Stato palestinese limitato alla sola striscia di Gaza con nclusione dei restanti territori entro lo stato ebraico ed ulteriore pulizia etnica dei palestinesi residenti in Cisgiordania. È un’assurdità destinata ad implodere, come dice giustamente Ahmadinejad. In buona parte la sopravvivenza di Israele dipende dall’appoggio degli USA e dell’Occidente, ossia da un interesse coloniale, imperiale e geopolitico degli USA. Se la nuova presidenza decidesse una diversa politica estera, Israele con il suo potenziale militare ed atomico diventerebbe una seria minaccia non tanto per gli arabi, per i quale Israele è sempre stato un “corpo estraneo”, ma per gli Stati europei. Capita di leggere che le testate atomiche di Israele siano puntate verso le capitali europee. Per scherzo, un mio detrattore mi ha scritto che sono puntate sulla mia testa. Ci credo, ma la mia testa si trova a Roma.

6. La nuova politica estera di Franco Frattini. – In un lucido articolo Michele Giorgio delinea gli scenari prevedibili con il nuovo governo Berlusconi. Ciò che è temuto da quanti hanno finora prestati assistenza ai palestinesi corrisponde invece ad un augurio ed un evento desiderato per i «Corretti Informatori», che a questo punto possono venir dipinti come degli ascari ancora più inumani di non pochi cittadini israeliani ed ebrei, come Burg o Pappe, che riescono ad avere idee più ampie. La grettezza è ciò che caratterizza i nostri «Eletti Mentitori» che parlano addirittura di 3000 anni di cultura ebraica, come se in Gerusalemme ed in Palestina non vi fossero state ben altre presenza, anche più solidamente radicate. Ma si sa che la logica degli “eletti”, cioè dei “prediletti di Dio”, è una logica di esclusione degli altri e di profondo, radicato, invincibile razzismo, superiore ad ogni altra forma di razzismo.

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7. Povertà in Israele, continuazione della pulizia etnica in Cisgiordania e piani edilizi mirati. – I «Corretti Informatori» premettono sempre i loro «corretti commenti» agli articoli che riportano in Rassegna stampa. Si capisce poco a leggere prima il commento e poi il testo. È buona regola leggere prima il testo e poi il commento. È come mettere i piedi per terra e la testa sulle spalle. Si attingono in quest modo informazioni interessanti quanto indigeste per gli «Eletti Mentitori» ed al tempo stesso, leggendo il commento dopo il testo cui si riferisce, si può capire come funziona la testa di chi redige il commento, quali le sue opzioni politiche, i suoi valori, la sua tifoseria, la sua partigianeria e così via. Venendo al merito degli interessanti articoli di Michele Giorgio, forse il pià “odiato” giornalista, si apprende che non tutti vivono felici in Israele. Buona parte della popolazione vive in una condizione di povertà. Mi era già noto che la prosperità, sia pure ineguale, di Israele è tutta basata su trasferimenti di capitale, a fondo perso, giunti in questo mezzo secolo dall’estero per le note ragioni geopolitiche. Colpa forse del modello americano al quale è improntata l’economia, le diseguaglianze sociali sono vistose sulla base dei dati statistici ufficiali. In Cisgiordania prosegue quella pulizia etnica che fu all'origine dello stato di Israele nel 1948. I progetti edilizi, partoriti con Annapolis, non sono estranei ai calcoli politici di chi persegue un siffatto “processo di pace”. Curioso come ritorni l’incubo dei profughi che vogliono ritornare ai villaggi dai quali sono stati scacciati in barba ad ogni principio di umanità e di giustizia. Il fatto che possano rientare nei loro villaggi è percepito come una minaccia alla sopravvivenza di Israele. Il che la dice lunga sulla natura del diritto di Israele all’esistenza. Ma poiché l’incubo non passa, ecco che si immaginano soluzioni alternative. Ma anche questa è pulizia etnica. Vallo a dire ai «Corretti Informatori»!

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8. Il mentitore che dà del bugiardo a chi dice il vero. – Leggendo l‘articolo di cui al link si trovano informazioni obiettive, che possono essere o confermate o smentite. Naturalmente, i fatti non parlano da soli nel senso che è sempre necessaria l’interpretazione umana che dia loro senso. Ed il senso è chiaro ed arcinoto: niente di nuovo. Si ripete lo scenario che vede combattente di Hamas attaccare l’esercito israeliano, il quale risponde massacrando donne, vecchi, bambini, in nessun modo clafficicabili come combattendi. I soldati israeliani sparano a caso tanto per uccidere. Anche se sono bambini, sanno di avere un potenziale combattente in meno o addirittura un kamikaze in meno. La guerra israeliane è genocidio vero e proprio. Solo gli ideologi alla «Informazione Corretta» possono trovare malferme giustificazioni ai “danni collaterali”, una vera e propria ipocrisia non contenuta in nessuna convenzione. Che la logica sia quella dello sterminio e del genocidio non vi è dubbio di sorta. Ai palestinesi non può essere imputata la colpa di voler resistere in una guerra che dura ormai da cento anni, dovendosene collocare i germi ben prima del 1948, anno della pulizia etnica. Ciò che chiaramente il sionista razzista e criminale non può né concepire né intendere è che chi è stata sconfitto una volta non si voglia sportivamente arrendere. La guerra non è una partita al pallone che si giochi in due tempi di 45 minuti ciascuno. La guerra è cosa che può prolungarsi ininterrottamente per più generazioni. È quello che appunto accade in Medio Oriente, diverso dalla civilizzata Europa che si è arresa ai suoi vincitori accettando e subendo ogni cosa che le venisse chiesta. Altrove dicono: no, grazie! E purtroppo verso chi non si vuole arrendere non vi è altra misura che lo sterminio di massa, come appunto stiamo osservando sotto l’impero di Bush, il più amato dai sionisti israeliani e per gli altri il più infame che a memoria di uomo si ricordi fra i presidenti statunitensi.

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9. «Beduini, gli israeliani delle riserve». – Riporto per intero l’articolo di Michele Giorgio sulla condizione dei beduini.
Beduini in Israele nel 2008
Beduini nel Negev
Il Manifesto , 01.04.2008
qui ripreso da

Associazione Svizzera-Palestina

Reportage dal Negev
Beduini, gli israeliani delle riserve
Un rapporto fortemente critico di Human Rights Watch
Sono 140.000 i beduini cittadini di Israele e di serie B nonostante molti di loro si arruolino nell'esercito e siano impiegati nei lavori sporchi. «Una situazione penosa»

MICHELE GIORGIO

Era una bella giornata di sole quel 3 marzo 2003, non c'era la cappa di nuvoloni gonfi di sabbia che grava in questi giorni sul deserto del Negev. Ghazi ricorda bene cosa accadde in quell'inizio primavera di 5 anni fa. «Udimmo avvicinarsi lentamente un motore ad elica - racconta sollevando [sospetta lacuna sospetta] - poi, quando l'aeroplano fu sopra di noi e i nostri campi, una pioggia strana, dall'odore pungente bagnò tutta la zona». Quella mattina su Ghazi e gli altri abitanti di Abda intenti a lavorare la terra arsa dal calore, non scese l'acqua tanto desiderata da chi vive nel deserto e gioisce anche per poche gocce di quel liquido prezioso. «Erano pesticidi o qualcosa di simile - continua Ghazi - e quella doccia inattesa non risparmiò anziani e bambini, molti dei quali poi accusarono problemi respiratori e svenimenti». I più piccoli furono presi dal panico. «Era imminente l'attacco americano all'Iraq - dice Abel Rahman del locale comitato popolare - e i bambini avevano appena ricevuto le maschere antigas dal governo, perciò immaginarono un raid aereo iracheno e si spaventarono molto».

Qualcosa di simile accadde anche ad al-Gharir e in altre località ma il fatto non destò l'interesse dei media internazionali e locali, troppo presi dall'avvelenata vigilia dell'invasione anglo-americana dell'Iraq. Le autorità israeliane spiegarono che sulle mappe ufficiali non risultavano insediamenti abitativi in quella zona e che «l'irrorazione» aveva avuto lo scopo di eliminare coltivazioni illegali nelle terre dello Stato. Ma gli «insediamenti abitativi» c'erano, la loro assenza dalle carte un pretesto.

I circa 140mila beduini cittadini di Israele, allora come oggi, in molti casi abitano in località non riconosciute che, il più delle volte, esistevano già prima della fondazione dello Stato ebraico. Sono una quarantina i piccoli villaggi e insediamenti beduini «inesistenti». Sono fatti di povere case costruite con materiali altrettanto poveri, che confermano la discriminazione economica e sociale ai quali sono soggetti i beduini che pure, a differenza degli altri palestinesi con cittadinanza israeliana (1.5 milioni su 7), ogni anno a centinaia (forse più) si arruolano da volontari nelle forze armate dove vengono impiegati in missioni sporche contro i palestinesi e inseriti in unità che operano lungo in confini. Eppure tanta dedizione non basta a renderli cittadini di serie A e ad ottenere giustizia.

Quelli di Abda nel 2003 la giustizia la invocarono, così come avevano fatto nel 1992 quando per 6 mesi tennero issata una tenda di protesta davanti alla sede del governo per chiedere il riconoscimento del villaggio. Ma alla doccia chimica seguì poco dopo la doccia fredda dell'espulsione dalle loro terre. «Ci portarono via all'improvviso - racconta Mansur, che lavora come manovale a Bersheeva - i funzionari del governo ci invitarono, di fatto obbligarono, a lasciare le nostre case e ci spostarono con la forza a 4 chilometri di distanza. Dissero che nelle nostre terre c'erano resti archeologici dei Nabatiyyun (Nabatei) da sfruttare a scopi turistici e, ci assicurarono, che lo Stato avrebbe trovato a tutti noi una sistemazione dignitosa».

Invece a distanza di 5 anni nella nuova Abda di dignitoso c'è ben poco. Mancano le infrastrutture, il sistema educativo è carente, l'assistenza sociale inesistente. «Per anni ci hanno esortato ad approfittare di quella che descrivevano come una buona occasione di vivere nelle nuove cittadine che avevano pianificato per noi. Ci parlavano di comodità e di servizi ma si è rivelato tutto un bluff», spiega Khir al Baz, una assistente sociale. Girando le strade dei centri abitati beduini, legali o «abusivi», ci si rende conto della miseria a cui sono condannati i beduini israeliani, inclusi quelli della Galilea che pure si ritengono «fortunati» rispetto a quelli nel Negev. Persino la «riconosciuta» Rahat, con i suoi 40mila abitanti, è un immenso dormitorio, privo fino a poco fa anche dell'ufficio postale. «Quando ero più giovane credevo che arruolandomi nell'esercito avrei risolto tutti miei problemi - spiega Firas, un amico di Ghazi - invece è cambiato ben poco, i benefici sono stati minimi e ho capito rimarrò sempre un cittadino non uguale agli altri».

E' stato Ariel Sharon, l'ex premier israeliano (da oltre due anni è in stato di coma profondo), ad aver varato i piani per risolvere il «problema beduino». Fu lui che nel 1978 istituì la «polizia verde» incaricata di individuare e rimuovere i campi di tende e le case abusive nel Negev. Piani ribaditi dopo il 2001 quando, divenuto premier, si è deciso a spazzar via i centri abitati non riconosciuti per fare posto a 2-3 nuove città per immigrati ebrei da insediare nel deserto del Negev (1/3 del territorio israeliano). Tutto questo senza tener conto che quelle terre erano abitate da questo popolo nomade che rifiuta di essere chiuso nelle «città di sviluppo».

A denunciare la condizione beduina è stato ieri anche Human Rights Watch che ha presentato a Gerusalemme un lungo e dettagliato rapporto per contestare la linea dello Stato di Israele verso i suoi cittadini beduini. «Questa politica ha messo i beduini in una situazione penosa - ha spiegato Joe Stork, direttore dell'ufficio mediorientale di Hrw -. Lo Stato in molti casi li ha obbligati a lasciare le loro terre per centri abitati in realtà privi di tutto, persino dell'elettricità e dell'acqua». Dagli anni '70 in poi, ha aggiunto, ai beduini sono state demolite migliaia di case con il pretesto della loro «illegalità» e per il fatto che erano situate in aree naturali protette che poi, dopo qualche tempo, sono diventate edificabili per le autorità locali ebraiche. Questo mentre rimangono semivuoti gli oltre 100 piccoli centri abitati ebraici costruiti nel Negev. «Israele è pronto a costruire nuove città nel Negev per i cittadini ebrei ma lo vieta ai suoi cittadini beduini che hanno vissuto e lavorato in quei luoghi per generazioni», commenta Stork.
A fronte dell’evdenza denunciata nell’articolo di Michele Giorgio come se la cavano gli Eletti Mentitori? Con un commento infame che è il seguente:
Un tema della propaganda antisraeliana, secondario, ma sfruttabile quando la cronaca quotidiana del conflitto con i palestinesi non fornisce altri pretesti, è quello dei cittadini beduini.
[Si può essere più idioti ed infami?]
I problemi di integrazione
[Un eufemismo che fa girare le scatole a tutti i santi del calendario cristiano. Si è mai vista una integrazione a mezzo di pesticidi irrorati sulla popolazione? Queste cose succedono in Israele, per fortuna l’«unica» democrazia del Medio oriente]
in una società moderna di una popolazione non stanziale,
[E se uno vuol vivere da stanziale? Ha vissuto così per migliaia di anni. Non è possibile più farlo perché gli invasori occupani hanno deciso diversamente sulla base di titoli di proprietà da loro stessi fabbricati. Chiamano civiltà i loro lager]
e i problemi delle città di sviluppo
[ma quale sviluppo? Quello degli insediamenti ebraici previa pulizia etnica e bonifica degli indigeni]
(che riguardano anche quelle a maggioranza ebraica)
[Evviva l’equità di condizioni e di trattamento!],
vengono enfatizzati, [?! O santi del Calendario!] quando non distorti, [distorti che? È distorta la coscienza infame di chi scrive simili cose ad uso domestico] per confermare la calunnia che bolla Israele come "Stato di apartheid".
[È lo è senza ombra di dubbio veruno. Ma è da aggiungere stato del genocidio e della pulizia etnica. Almeno a Carter si può credere. Se si raccolgono altri giudizi, la cosa diventa assai più pesante.]
Sul MANIFESTO del 1 aprile 2008, l'operazione è condotta da Michele Giorgio, anche con l'ausilio di un rapporto dell'organizzazione Human Rights Watch, il cui gruppo dirigente include notoriamente attivisti antisraeliani la cui agenda è politica, non umanitaria.
[Costoro sono capaci di dire che Benedetto XVI è un tenutario di postriboli con impiego di donne e bambini, magari sottratti ai paesi poveri. Non esiste organizzazione ufficiale ed al di sopra delle parti che possa sottrarsi alle loro Elette Menzogne.]
Per una prima informazione sul tema dei beduini, si veda la relazione di Enrico Fubini
[Un discorso da mentecatto che mi sono giusto sorbito. Niente di più idiota ed ipocrita poteva essere concepito. È da notare il modo in cui il vecchio glissa sui crimini più orrendi, ad incominciare dalla Nakba. Per l’analisi si veda più sotto, al n. 10]
al convegno di Hasbarà di Torino del febbraio 2008, visibile e ascoltabile a questo link

http://www.radioradicale.it/scheda/247928
Una distorsione così sfacciata della evidenza dei fatti è cosa abituale negli Eletti Mentitori. Il principio cui si attengono è la ripetizione costante delle menzogne, ovvero della loro rappresentazione autoreferenziale della realtà. Credono che in questo modo oltre a concincere loro stessi, se veramente ne sono convinti, possono indurre anche gli altri ad una stessa rappresentazione di quella che è stata una infame occupazione coloniale che poteva passare inosservata con gli indiani d’America, quando le notizie non poteva circolare in tempo reale, ma che oggi non possono ingannare nessuno a meno che egli non si voglia rendere complice.

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10. Un film dell’orrore. – A dimostrazione delle asserite falsità di cui nell’articolo sopre citato di Michele Giorgio viene dato il link di un audio video che sto ascoltando mentre scrivo. È proprio un vero e proprio film dell’orrore. Lo inizia Enrico Fubini, un anziano signore per il quale è difficile trovare un aggettivo. Ci asteniamo da qualsiasi aggettivazione. Il discorso di Fubino dura un’ora, ma fino a questo momento non vi è nulla che confuti l'irrorazione chimica di cui si è sopra detto. Fubini vuol parlare di minoranze rispetto alla maggioranza ebraica, che è fortenebte caratterizzata come ebraica e che deve costituzionalmente restare maggioranza, per motivi di cui certamente Fubini non parlerà. La prima grossa minoranza è quella araba costituita da un buon venti per cento. Costoro sono quelli che non sono «fuggiti» all’epoca della pulizia etnica, di cui naturalmente Fubini non parla. Dal 20 per cento si passa alle altre “minoranze”, che sono... un centinaio, ma tutte al di sotto dell’uno per cento. La loro compresenza in Israele darebbe la misura della democrazia dello stato ebraico di israele. Insomma, Israele sarebbe una democrazia perché in Israele non sono (ancora) tutti ebrei e quelli che non sono ebrei sono tollerati. Eccolo ch arriva finalmente all’ultima minoranza in Israele: sono i beduini che hanno sempre creato problemi, non solo ad Israele, ma a tutti gli stati. Il primo problema è contarli. Tendono a sfuggire alle leggi del paese. Israele cerca di sedentirizzarli... Magari irrorandoli. Sto ascoltando. l’idiozia raggiunge livelli stratosferici. I beduini c’erano prima di Ben Gurion, ma poi quando viene Ben Gurion dice «giustamente» che non si può lasciare ai beduini un territorio che loro vantano come loro da tempo immemore, di padre in figlio. Fubini dice però che non hanno le carte del catasto, magari il catasto creato quando son giunti gli ebrei. Tanta idiozia sembra incredibile, ma ognuno può ascoltare in diretta! È troppo!

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11. Ordinaria tortura ed infame commento. – Il testo di Michele Giorgio non lascia adito a dubbi sui fatti. Che la tortura sia ormai diventato una pratica legale negli Usa (e figuriamoci in Israele!) lo si apprende con ricchezza di dottrina nel recentissimo “Nemesi” di Chalmers Johnson. Possiamo considerare sulla via della conclusione il nostro Monitoraggio di «Informazione Corretta» nel senso che non vi sono da acquisire ulteriori elementi di giudizio. Costoro sono capaci di negare perfino l’evidenza della luce del sole. Di loro ormai basta dire il nome e si sa già tutto. L’analisi avviata proseguirà, ma dando la preferenza ad altre fonti di informazione e altri centri di elaborazione ideologica, think tank, come si dice. Probabilmente quello da cui abbiamo preso avvio è il più becero e grossolano. Potrebbe non far testo.

12. Il dibattito sulla islamizzazione della società palestinese. – È in atto da tempo e su larga scala un disegno propagandistico volto a creare demonizzazione verso tutto ciò che è Islam. In questo modo si tenta di creare un orientamento dell’opinione pubblica europea contro la causa palestinese in particolare. È un disegno ben calcolato. Andando al link si trova un articolo di Michele Giorgio che fa il punto sul rapporto fra Hamas e la sharia.

13. «Aiuti libici per Gaza, Israele li respinge». – L’articolo di Michele Giorgio di oggi 2 dicembre 2008 rivela in modo giornalisticamente implacabile una situazione drammatica che trova colpevolmente assenti i grandi media, ad altre faccende affaccendati e soprattutto a ben altri padroni ubbidienti. L’articolo è semplicemente da riportare nella sua integrità:
Finiranno per marcire nel porto egiziano di el Arish le 3.000 tonnellate di cibo e medicine inviate dalla Libia ai civili di Gaza, la Striscia di terra palestinese sul Mediterraneo sotto embargo e vietata da quasi un mese alla stampa internazionale. Salpato da Tripoli, il mercantile al-Marwah è stato intercettato ieri dalla marina israeliana al largo di Gaza city e costretto a dirigersi verso el Arish, con grande delusione per i palestinesi messi in ginocchio dal blocco imposto da Israele. Adesso il carico di cibo e medicine sarà affidato a camion che cercheranno di farlo passare per il valico terrestre di Rafah ma ben pochi si fanno illusioni: l’Egitto collabora attivamente a tenere sigillata Gaza. Dalla Turchia, dal Qatar e dal Kuwait salperanno altre imbarcazioni cariche di aiuti per Gaza, ma tutto lascia prevedere che subiranno la stessa sorte della nave libica. «Quest’ultimo atto di sopraffazione conferma che Gaza era e rimane un territorio occupato da Israele. Un’intera popolazione è nelle mani dell’occupante, priva di diritti e senza sostegni internazionali», dichiara al manifesto il dottor Eyad Sarraj, esponente di spicco della società civile palestinese, lamentandosi anche per «l’ipocrisia dei regimi arabi, che sanno soltanto parlare e rimangono immobili di fronte al dramma di Gaza».
Israele intanto si prepara a fare pressioni su Bruxelles per ottenere cambiamenti nel documento allo studio all’Unione europea che indica i punti base di un accordo tra israeliani e palestinesi nel 2009. In base alla bozza del testo, di cui il quotidiano Ha’aretz ha ottenuto una copia, l’Ue farà pressioni affinché vengano riaperte le istituzioni palestinesi a Gerusalemme Est, chiuse dalle autorità di occupazione israeliane e chiederà alla comunità internazionale di monitorare con attenzione l’interruzione della colonizzazione israeliana prevista dalla Road Map.
A fronte di tutto ciò gli «Infami Correttori» superano loro stessi nella loro infamia con questa indame commento di inaudità infamità che riportiamo pure per intero:
A pag. 10 del Manifesto del 02/12/2008 compare l’articolo "Aiuti libici per Gaza, Israele li respinge" di Michele Giorgio.
Nel suo pezzo, Michele Giorgio si premura di sottolineare la tragica situazione nella quale si troverebbero i palestinesi di Gaza, che sarebbero ormai ridotti alla fame dallo stato di Israele.
Questa volta gli israeliani si sarebbero macchiati della colpa di aver bloccato una nave libica che trasportava cibo e medicine.
L’autore è molto preciso e fornisce parecchie informazioni sulla nave e sul rapido deperimento del suo carico, ma non lo è altrettanto per quanto riguarda la conclusione della vicenda e cioè che Gaza sarebbe un territorio occupato da Israele.
Non si chiede nemmeno se la nave libica non potesse rappresentare un pericolo per la sicurezza di Israele, e trasportare armi o denaro per i terroristi anziché aiuti umanitari. Non ricorda, ovviamente, che cibo e medicinali vengono forniti a Gaza dagli “assedianti” israeliani, nè i razzi kassam sparati dalla Striscia verso il territorio israeliano. Queste omissioni gli permettono di giungere alla conclusione, della quale tutto si può dire meno che sia precisa
Distrazione?
Mentre procedo nella lettura di Avraham Burg, che malgrado il suo spirito critica, resta pur sempre un ebreo ed un israeliano, condivido con lui il giudizio secondo cui oggi Israele deve rispondere alla coscienza morale dei Giusti di tutto il mondo nell’anno 2008 per tutto quanto hanno fatto ai palestinesi dagli inizi del loro insediamento coloniale fino ad oggi. Tutto il loro credito ottenuto in nome della «Shoa» dagli europei a torto oppressi da un senso di colpa è andato perso per le gravissime cope morali di cui si sono macchiati nei confronti dei palestinesi e degli arabi, trasformando il comandamento biblico così da farlo suonare: «Fai agli altri tutto ciò che non vorresti fosse fatto a te». Quando l’Italia e l’Europa si sveglierà dal torpore di un colpevole inganno e autoinganno temo sarà troppo tardi. Distrazione? No! Complicità e colpevole connivenza con le Israel lobbies dislocate nei vari paesi.


(segue)

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