martedì 27 maggio 2008

Opinionisti: 2. Sergio Romano e la libertà di pensiero insidiata


Uno dei bersagli più amati dal «Corretti Informatori» è l’ambasciatore Sergio Romano, che tiene sul «Corriere della Sera» una rubrica su cui risponde ai suoi lettori. I temi sono disparati, ma talvolta riguardano momenti della storia e della politica di Israele. Conoscendo i metodi dei «Corretti Informatori», se Sergio Romano fosse stato un semplice giornalista, le pressioni sulla testata sarebbero state pesanti, ma con Sergio Romano non si può. In questo nuovo format andrò monitorando gli attacchi a Sergio Romano, incominciando dai più recenti e via via attingendo allo stesso Archivio di «Informazione Corretta», da cui attingo direttamente senza utilizzare l’archivio del Corriere.

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Sommario: 1. Come andarono le cose a Sabra e Shatila nel 1982. – 2. Jim Carter nel giudizio di Sergio Romano. – 3. Una Postilla su Sabra e Shatila. – 4. L’impudenza infinita di Deborah boccuccia di rosa. – 5. Israele, uno stato nato dal nulla sul territorio altrui. – 6. Gli «Eletti Mentitori» tentano l’affondo. – (Segue:) 6.1 Elencazione aggiornata e casuale di altri attacchi. – 7. Ma chi sono questi Lettori? A proposito delle fattorie contese. – (Segue:) 7.1 Primo tempo: la lettera villana al «Corriere della Sera». – 7.2 Secondo tempo: La risposta signorile di Sergio Romano sul «Corriere della Sera». – 7.3 Terzo tempo: La replica presuntuosa su «Informazione Corretta», centrale lobbistica. – 7.4 Il Libano conteso a Sergio Romano: prima puntata. – 7.5 Seconda puntata. – 7.6. Terza puntata. – 8. «Due pesi due misure». – 9. La natura dei «Corretti Informatori». – 10. Non “corretta” ma semplicemente oggettiva. – 11. Una strana campagna di diffamazione. – 12. Domande provocatorie sulla tortura. – 13. Numeri contesi e “negati”. – 14. Chi ci capisce è bravo. – 15. Cosa era il Baath. – 16. Su Gheddafi e Craxi una limpida pagina di storia. – 17. Un articolo assai istruttivo e lettori assai stupidi. – 18. Il loro attacco quotidiano. –


1. Come andarono le cose a Sabra e Shatila nel 1982. – Il dato più interessante che emerge dalla risposta di Sergio Romano è il modo in cui nacque Hezbollah. Un nome ormai divenuto familiare a molti italiani, ma su cui grava una cattiva fama. Sarebbero dei terroristi ed in questo modo consueto si tenta di delegittimare i “nemici” di Israele, dove essere nemici equivale ad essere criminali e terroristi. Ma ecco domanda e risposta:
Grazie a un recente film è tornato alla ribalta, dopo 26 anni, il massacro degli arabi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila alla periferia di Beirut. Contrastanti sembrano essere le opinioni sulle effettive responsabilità dell'accaduto, ma comunque non convincenti: può aiutarmi a capire come andarono realmente le cose?
Michele Toriaco
Torremaggiore (Fg)

Caro Toriaco,

L’esercito israeliano invase il Libano nel giugno 1982 mentre da sette anni infuriava in quel Paese la guerra civile. Israele voleva impedire alle formazioni palestinesi di utilizzare il territorio libanese per operazioni di guerriglia, ma si proponeva altresì uno scopo meno confessabile: la tutela di un piccolo Stato vassallo, nel Libano meridionale, governato per procura dalle milizie cristiane del maggiore Saad Haddad. Vi fu quindi, sin dall'inizio dell’operazione, una sorta di collusione tra forze israeliane e gruppi cristiani.

Dopo avere sconfitto rapidamente le forze siriane e palestinesi schierate alla frontiera, i 75.000 uomini del corpo di spedizione israeliano puntarono sui campi profughi, vivaio delle reclute che Yasser Arafat arruolava tra le famiglie di coloro che avevano abbandonato la Palestina nel 1948 e nel 1967. Gli invasori speravano che l’operazione avrebbe permesso l’annientamento dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e la cattura, «vivo o morto», di Arafat. Ma dovettero accontentarsi di un accordo, negoziato grazie alla mediazione degli Stati Uniti, che avrebbe permesso a una parte delle milizie palestinesi (circa 15.000 uomini) di lasciare il Paese verso la fine di agosto.

In quegli stessi giorni il Libano ebbe finalmente un nuovo presidente nella persona di Bashar Gemayel, leader delle Falangi cristiane. Ma la sua presidenza durò soltanto sino al 14 settembre quando il capo dello Stato morì con venticinque uomini in un attentato organizzato forse dai siriani. Fu quello il momento in cui il governo Begin e il suo ministro della Difesa Ariel Sharon decisero di occupare nuovamente Beirut per espellere i palestinesi rimasti nella città. L’operazione sarebbe stata condotta dalle milizie cristiane, ma gli israeliani, installati a 200 metri da Shatila, crearono una cinta intorno ai campi e fornirono i mezzi necessari all’operazione. Il massacro durò due giorni e provocò, secondo stime difficilmente verificabili, circa 3.000 vittime. In Israele vi fu una grande manifestazione di protesta, a cui parteciparono quattrocentomila persone, e venne costituita una commissione d’inchiesta che attribuì a Sharon la responsabilità del massacro e lo costrinse a dimettersi.

L’operazione non impedì ai palestinesi di riorganizzarsi ed espose Israele alle critiche della società internazionale. Ma la maggiore e più grave ricaduta politica del massacro fu l’apparizione di un nuovo nemico: un movimento politico e religioso che si chiamò Hezbollah, «partito di Dio», e riunì i gruppi di militanti sciiti che avevano sino ad allora partecipato in ordine sparso alla guerra civile. Fu quello il momento in cui la lotta contro Israele smise di essere prevalentemente laica per divenire anche e soprattutto religiosa. E fu quello infine il momento in cui l’Iran, dove gli Ayatollah avevano conquistato il potere poco più di tre anni prima, poterono contare su un amico libanese di cui si sarebbero serviti, da allora, per influire sugli avvenimenti della regione.
A questa limpida spiegazione dei fatti, magari da approfondire con altri testi, seguono le abituali invettive dei «Corretti Informatori», la cui logica interna ed il senso è spesso difficile da individuare. Si noti come Romano usi per Hezbollah il termine “nemico”. Quando poi all’accenno alla rivoluzione iraniana del 1979 è bene ricordare che venivano rovesciato un regime insediato in Iran dalla CIA nel 1953. Riportiamo il «corretto commento»:
Corriere della Sera Informazione che informa
27.05.2008 Vuoi conoscere i fatti ? Non chiedere a Sergio Romano
l'ex ambasciatore disinforma su Sabra e Chatila

Testata: Corriere della Sera
Data: 27 maggio 2008
Pagina: 35
Autore: Sergio Romano

Titolo: «I CAMPI DI SABRA E SHATILA LA TRAGEDIA E I SUOI EFFETTI»

Sul CORRIERE della SERA del 27 maggio 2008, Sergio Romano risponde a un lettore che gli chiede informazioni storiche sul massacro di Sabra e Chatila, compiuto nel 1982 dai falangisti cristiani libanesi.

Purtroppo, Romano non fornisce una corretta informazione storica, ma mezze verità, falsità, distorsioni.

Eccone un elenco, con i nostri commenti:

1) "Israele voleva impedire alle formazioni palestinesi di utilizzare il territorio libanese per operazioni di guerriglia, ma si proponeva altresì uno scopo meno confessabile: la tutela di un piccolo Stato vassallo, nel Libano meridionale, governato per procura dalle milizie cristiane del maggiore Saad Haddad".

Romano dimentica che i cristiani libanesi in Libano erano perseguitati e massacrati dall'Olp e dai suoi alleati, e si difendevano. Dimentica che Israele aveva buoni rapporti con Bechir Gemayel, cristiano eletto alla presidenza del Libano: in un quadro che salvaguardava l'unità del paese. Dimentica i massacri di civili israeliani compiuti nel corso delle "operazioni di guerriglia" compiute dalle "formazioni palestinesi". Forse per evitare di usare la parola "terrorismo".
[E allora? Ammesse con riserva di verifica le “dimenticanze” attribuite a Sergio Romano, in cosa ne risulta invalidata l’affermazione che Israele – evidentemente sfruttando ogni circostanza favorevole – intendesse costituire uno stato che le fosse “vassallo”? È stata anche in passato – fase della pulizia etnica – una politica costante di Israele, scevra di qualsiasi scrupolo. Anche oggi, Israele si preoccupa che il Libano possa essere vassallo dell’Iran, ma non se ne preoccupa se è invece vassallo degli Usa e della stessa Israele. Il pane fatto da me è buono, quello del vicino è cattivo. Su Ezbollag Sergio Romano si è pronunciato in altra occasione dicendo che ha suoi propri interessi nazionali e che Iran e Siria sbaglierebbe non riconoscerli. Naturalmente, in guerra si cercano alleati e convergenze. Col l’isolamento si perde. Per far passare inosservato il suo “genocidio” Israele cerca costantemente coperture nella diplomazia e nei media occidentali]

2)"L'operazione sarebbe stata condotta dalle milizie cristiane, ma gli israeliani, installati a 200 metri da Shatila, crearono una cinta intorno ai campi e fornirono i mezzi necessari all'operazione. Il massacro durò due giorni e provocò, secondo stime difficilmente verificabili, circa 3.000 vittime".

Da questo passo sembra che l'"operazione" del massacro di Sabra e Chatila fosse concordata tra Israele e falangisti. In realtà, secondo gli accordi con Israele, i falangisti dovevano eliminare gli ultimi nuclei di terroristi dell'Olp presenti nei campi, non massacrare i civili.
[Abituale ed ipocrita ammissione di responsabilità che corrisponde ad un modo di operare che Ilàn Pappe descrive nelle fasi di svolgimento della pulizia etnica. Ai vari squadroni della morte, vere e proprie organizzazioni terroristiche, non veniva data in anticipo licenza di massacro, ma veniva poi ratificato l’avvenuto massacro. Questo modo di procedere serviva e serve a mantenere a bada i media e le coperture mediatiche. Il massacro non è stato mai disgiunto nella strategia sionista israeliana dalle necessità della propaganda, soprattutto presso i finanziatori ed alleati occidentali. Il “corretto commento” non assolve i complici dal massacro avvenuto su commissione]

3) "Il massacro durò due giorni e provocò, secondo stime difficilmente verificabili, circa 3.000 vittime".

Perché Romano sceglie le stime più alte, benché "difficilmente verificabili" ?
[Il “corretto” commento è decisamente “idiota” perché il “crimine” non si misura a quintali e tonnellate di carne umana. Che il massacro vi sia stato e sia durato due giorni non è contestato neppure dai “Corretti Informatori”, i quali se ne avessero potuto far sparire le tracce, non dubitiamo che lo avrebbero fatto. Che fossero 30 o trenta milioni le vittime la gravità morale del massacro non cambia: non siamo mica alle elezioni dove si contano i voti. Qui si contano i morti. E certamente il sionismo ne ha molti sulla coscienza, ammesso che il sionismo abbia una coscienza]

4) “In Israele vi fu una grande manifestazione di protesta, a cui parteciparono quattrocentomila persone, e venne costituita una commissione d'inchiesta che attribuì a Sharon la responsabilità del massacro e lo costrinse a dimettersi".

La commissione d'inchiesta escluse in realtà una responsabilità diretta di Sharon nel massacro, gli imputò soltanto il non averlo saputo prevenire ed evitare. La responsabilità venne invece attribuita ai falangisti cristiani libanesi.
[La commissione d’inchiesta è una commissione burla che serve giusto per chi ha bisogno di mettersi la coscienza in pace. Le distinzioni qui fatte – sempre da verificare, non essendo notoriamente i nostri “Corretti Informatori” persone degne di fede – in nulla cambiano le responsabilità denunciate che sarebbero da tribunale per crimini di guerra se dovessero valere per gli stessi israeliani i criteri che pretendono di applicare ad ogni loro nemico. L’«unica democrazia» del Medio Oriente deve necessariamente autoassolversi da qualsiasi contestazione ed addebito le venga fatto. La sua teoria democratica, in passato come al presente, corrisponde in una dichiarazione di rincrescimento e rammarico davanti agli incidenti tecnici del massacro e del genocidio programmato]

5) Ma la maggiore e più grave ricaduta politica del massacro fu l'apparizione di un nuovo nemico: un movimento politico e religioso che si chiamò Hezbollah, «partito di Dio», e riunì i gruppi di militanti sciiti che avevano sino ad allora partecipato in ordine sparso alla guerra civile

In realtà, l'affermazione di Hezbollah in Libano è dovuta alle condizioni di emarginazione della comunità sciita, e soprattutto all'attivismo dell'Iran, deciso ad esportare la rivoluzione islamica khomeinista.
[In realtà e del tutto ovviamente vi è da una parte una valutazione storica di un noto, stimato diplomatico, editorialista e storico quale Sergio Romano è e dall’altra parte una opinabile ed anomima valutazione di un «Corretto Informatore» anonimo che se non è lo stesso Pezzana, ideatore della baracca con il nome di «Informazione Corretta» sarà qualche ragazzo o pensionato che forse ha fatto appena le scuolde dell'obbligo. Quando non si citano fonti e documenti per le proprie affermazioni, ci si affida alla propria autorevolezza ed al proprio credito. Chi sia Sergio Romano, lo sappiamo. Chi sia il commentatore anonimo non lo sappiamo. Quanto ad Hezbollah è una spiegazione del tutto plausibile che il massacro di Sabra e Shatila, certificato da una manifestazione di quattrocentomila persone, abbia potuto fornire le ragioni fondative del movimento oggi a tutti noto. Quanto alla rivoluzione khomeinista qui evocata ad abundatiam è forse il caso di ricordare in primo luogo che essa andava a rovesciare il regime dello Shah costituto con un colpo di mano della CIA nel 1953. Fu allora creato uno stato vassallo che era esattamente la stessa cosa che Israele voleva creare in Libano. Sempre la parabola della pagliuzza e della trave, che però non si trova inclusa nei testi religiosi ebraici.]

6) "Fu quello il momento in cui la lotta contro Israele smise di essere prevalentemente laica per divenire anche e soprattutto religiosa".

Già nel 48 il muftì di Gerusalemme, Haji Amin Al Husseini, primo capo del terrorismo palestinese, vedeva la lotta contro il nascente stato di Israele come una jihad.
[E allora? Sempre ammesse con riserva di verifica ogni affermazione dei «Corretti Informatori» la sostanza della cosa cambia assai poco per chi conosce la dinamica del politico: all'inizio vi è il fatto oggettivo della colonizzazione sionista della Palestina, seguita dall’espulsione e dal massacro dei suoi abitanti. Si forma quindi la resistenza e la reazione delle vittime e degli aggrediti – che si tenta di delegittimare chiamandoli “terroristi” – che costituisce la sostanza oggettiva della contrapposizione amico-nemico. In un secondo tempo l’espressione ideologica del conflitto primigenio può assumere le forme più disparate, anche quella sportiva. Le ragioni dell’ostilitò palestinese verso Israele, ieri come oggi, è razionalmente ricercabile solo nel fatto del genocidio, della pulizia etnica, dell’espulsione. La religione di suo non aggiunge nulla e soprattutto non è la causa ed il motore dell’ostilità. Solo chi vuole imbrogliare e tentare di infinocchiare un pubblico sprovveduto confonde la causa con l’effetto. Non si dimentichi che anche oggi in tempo di pace esiste la figura del cappellano militare, come se il messaggio di Cristo fosse un invito alla guerra. Nessuno che abbia una qualche dimestichezza, non mediata, della figura del Cristo potrà mai immaginarselo con elmo e moschetto.]
Il libro di Ilàn Pappe, La pulizia etnica della Palestina, potrà difficilmente essere ignorato. La limpida narrazione consente di far capire ad un più vasto pubblico gli eventi che si dipartono dal 1948 per giungere fino ai nostri giorni.

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2. Jim Carter nel giudizio di Sergio Romano. – Le notizie che giungono dall’America riconoscono in modo sempre più aperto il ruolo dell’AIPAC e la sua funesta influenza nella politica estera americana. Che Carter non goda delle simpatie dei «Corretti Informatori» è cosa ovvia. L’articolo che segue, cioè la consueta risposta di Sergio Romano ad un suo lettore, offre importanti chiarimenti che non vengono neppure lontanamente scalfiti dalla denigrazione dei sionisti nostrani.
Il Corriere ha ospitato un articolo che critica fortemente l'ex presidente degli Stati Uniti Carter per il suo viaggio in Medio Oriente, accusandolo di essere mosso soltanto da vanità, senilità e oscurantismo religioso.
Carter ha scritto un libro sulla Palestina che contiene valutazioni forse opinabili che però, a mio parere, meriterebbero una confutazione basata su argomenti razionali e non solo invettive. È possibile una serena discussione sulle opinioni e sugli argomenti del libro di Carter?

Alessandro Figà Talamanca

Caro Figà Talamanca,

Come lei ricorda, Carter ha scritto un libro severo in cui non ha esitato a denunciare la politica degli israeliani verso i palestinesi come una forma di apartheid. Più recentemente ha fatto un viaggio in Medio Oriente nel corso del quale ha trattato Hamas come un legittimo interlocutore politico e ha cercato di coinvolgere l'organizzazione in una tregua che permetterebbe la ripresa dei contatti politici. Al ritorno dal viaggio ha scritto un lungo articolo per il New York Times in cui ha giustificato la sua iniziativa con argomenti che mi sono parsi comprensibili e sensati. Ha ricordato in particolare che il Carter Center (l'organizzazione umanitaria per la pace e la conciliazione internazionale, creata alla fine della sua presidenza) ha avuto un ruolo ispettivo in alcune elezioni palestinesi, fra cui quelle del gennaio 2006, trionfalmente vinte da Hamas, e ne ha constatato la correttezza.

Carter ha ragione: fra tutte le consultazioni elettorali dei Paesi arabi dell'ultimo decennio, quelle palestinesi sono state le più democratiche. E ha ragione anche quando osserva che l'autorità di Hamas non è basata sulle sue operazioni terroristiche, ma sulla popolarità di cui gode nei territori occupati. Parlare con Mahmud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, è necessario ma non sufficiente. Non è possibile predicare la democrazia agli arabi, come ha fatto la presidenza Bush in questi anni, e ignorare che le elezioni palestinesi sono state molto più trasparenti di quelle egiziane. E credo che sia stato un errore infine respingere certi segnali di disponibilità lanciati da Hamas o trascurare i tentativi di mediazione dell'Arabia Saudita. Per questa ragione il viaggio di Carter mi è parso utile e opportuno.

Nel quadro dei rapporti fra Israele e gli Stati Uniti Jimmy Carter appare, a prima vista, come una eccentrica anomalia. Il suo viaggio non è piaciuto né al governo di Gerusalemme, che ha trattato l'ex presidente con grande freddezza, né al Dipartimento di Stato. Eppure vale forse la pena di ricordare che Carter non è un fenomeno isolato e che gli Stati Uniti furono in molte occasioni alquanto critici della politica israeliana. Nel 1956, all'epoca della spedizione di Suez, minacciarono di adottare sanzioni contro Israele per il suo ruolo nella spedizione anglo-francese contro l'Egitto di Nasser. E fino al 1967 rifiutarono di assicurare forniture importanti alle forze armate israeliane. La situazione cambiò dopo la guerra del Sei giorni quando Israele divenne il maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione e poté contare su cospicui aiuti finanziari e forniture di armi. Ma in un articolo pubblicato dal Wall Street Journal del 7 maggio uno studioso israeliano, Michael B. Oren, ricorda che Ronald Reagan condannò il bombardamento israeliano del reattore nucleare iracheno e l'assedio di Beirut l'anno successivo; mentre Bush sr. interruppe i finanziamenti americani in segno di protesta per la creazione d'insediamenti israeliani nei territori occupati destinati agli immigrati russi. Sono atteggiamenti critici che potrebbero divenire nuovamente attuali se Barak Obama venisse eletto alla presidenza degli Stati Uniti.
A questa lucida analisi ecco cosa sanno contrapporre i «Corretti Informatori»:

Corriere della Sera Critica
30.05.2008 Sergio Romano elogia Jimmy Carter
ci sarebbe stato da stupirsi del contrario

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 maggio 2008
Pagina: 0
Autore: Sergio Romano
Titolo: «I RAPPORTI USA-ISRAELE E LA DIPLOMAZIA DI CARTER»

Sergio Romano sul CORRIERE della SERA del 30 maggio 2008 elogia Jimmy Carter, che "non ha esitato a denunciare la politica degli israeliani verso i palestinesi come una forma di apartheid" (cioè non ha esitato a dire il falso, demonizzando Israele, che dà a tutti i suoi cittadini eguali diritti, e che si difende da un offensiva terroristica proveniente da territori autonomi) per le aperture ad Hamas, gruppo terroristico che deve essere riconosciuto come interlocutore politico perché ha vinto elezioni più regolari di quelle degli stati arabi, scrive di inesistenti "segnali di disponibilità" degli islamisti e in conclusione auspica che un'elezione di Barack Obama renda nuovamente attuali "atteggiamenti critici " dell'America verso Israele.
Per atteggiamenti critici, nello specifico, Romano intende appunto la convinzione che Hamas debba essere riconosciuto come interlocutore. Anche se non abbandona il terrorismo, anche se straccia gli accordi sottoscritti dall'Autorità palestinese, anche se vuole che Israele venga distrutto (le elementari condizioni poste dalla comunità internazionali si riassumono nel ribaltamento di queste linee politiche dei Fratelli musulmani palestinesi).
"Atteggiamento critico" verso Israele significa dunque, nel linguaggio di Romano, sostenere che essa debba "trattare" sul proprio diritto all'esistenza.
Basta capirsi.
E si fa presto a capire la consueta faziosità ed ottusità dei «Corretti Informatori» che ripetono lo stesso repertorio convinti che a furia di ripeterlo qualche sprovveduto possa crederci. Ci asteniamo dal commento interlineare, essendo gli argomenti sempre gli stessi. Siamo stanchi di ripetere le critiche già fatte. Resta interessante, malgrado tutto, l’articolo di Sergio Romano che richiama la nostra attenzione sul libro di Carter.

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3. Una Postilla su Sabra e Shatila. – Quando si parla di Lobby si intende lobby e cioè: “”. Esiste una specifica rete mondiale con ramificazioni nazionali il cui scopo è far passare determinati contenuti mediatici, ossia la propaganda del governo israeliano. “Questa è una guerra ideologica” e noi ne siamo gli attori. Vi è chi combatte col le armi in senso proprio (cannoni, fucili, bombe) vi è chi combatte con la propaganda. Per poter sparare le sue armi, ad esempio una cannonata su una madre mentre fa colazione con i suoi quattro figli, il sionismo ha un vitale bisogno di far credere ai distratti cittadini occidentali che è “giusto” sparare su quella madre e sui suoi quattro figli, con argomentazioni che sono un insulto al comune senso etico, ad esempio: un incidente tecnico trascurabile, oppure vicino si trovavano terroristi, o magari erano terroristi gli stessi bambini che erano pronti a lasciarsi espoldere in un prossimo attentanto kamikaze. Non vi è limite alla spudoratezza. Ma questa spudoratezza ha bisogno del concorso mediatico di una rete come questa:

Ricevo da Honest Reporting Italia e molto volentieri inoltro,
pregandovi di fare altrettanto e di iscrivervi alla
mailing-list(riceverete massimo una/due emails al mese)

Per iscriversi a HonestReportingItalia inviare una e- mail vuota a:
join-HonestReportingItalian@host.netatlantic.com

----- Original Message -----
From: Comunicato HonestReportingItalia
To: davide
Sent: Wednesday, May 28, 2008 12:20 PM
Subject: Sergio Romano, ovvero l'arte della disinformazione


Dear davide,

Vorrei ricordarvi che l'efficacia della nostra iniziativa è
strettamente legata al numero delle lettere inviate ai media. Vi
invito pertanto personalmente ad un'attiva partecipazione, tramite le
vostre lettere, ogni qualvolta riceverete il comunicato.

[È un messaggio generato automaticamente che viene inviato ad ogni iscritto alla ML. Ne ho ricevuto uno anche io con la scritta Dear Antonio seguito da identico testo. A mio avviso, un’iniziativa illegale e lesiva del diritto dei singoli che solo per aver espresso una privata opinione si trovano bersagliati da una vera e propria collettiva di Lapidatori. In effetti, la lapidazione è pratica biblica. Non vi è chi non veda come ciò si presti ad ogni arbitrio e sia una vera e propria istigazione al linciaggio. Ma sembra che questa prassi del linciaggio pubblico sia tollerata e perfino promossa]
Comunicato Honest Reporting Italia 28 maggio 2008

Sergio Romano, ovvero l'arte della disinformazione
[E che dire della vostra arte dell'inganno e dell'impostura?]
Si è sempre nel dubbio, quando si leggono le ricostruzioni storiche di
Sergio Romano, se sia più grande l'ignoranza o la malafede.
[Per la vostra ignoranza e malafede basta ricordarvi la falsa citazione di Martin Luther King, finita nel frontespizio di un libro di Fiamma Nirenstein. Basta questo solo esempio.]
Quello che
è certo ed evidente è che massicce dosi di disinformazione non mancano
mai. E non mancano neppure in questa sua risposta a un lettore che
chiede chiarimenti sulla strage di Sabra e Chatila, pubblicata sul
Corriere della Sera di martedì 27 maggio.
In fondo i nostri «Corretti Informatori» sono un’agenzia di provincia. Al momento non mi è dato appurare i finanziamenti o la rete dei collegamenti organici con la loro Centrale. Posso però intuirli e la mia curiosità non ha la capillarità e scientificità propria dei servizi del Mossad.

Se si ritorna qui sull’argomento si vede come i «Corretti Informatori» si muovono su tre discorsi diversi: a) Il lettore che pone un problema di cifre; b) Romano che offre una trattazione completa di questo aspetto, confermando la natura del “massacro”; c) il “corretto commento” che non ci azzecca per nulla con il problema, ma sputa veleno come sempre: Israele über alles.

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4. L’impudenza infinita di Deborah boccuccia di rosa. – A chi va sul link trova un volgarissimo e farneticante articolo di Deborah Fait, appositamente composto per «Informazione Corretta». Si noti che il testo è tutto insulti verso il mondo intero, ma sul merito non puà smentire proprio nulla. Il massacro di Sabra e Shatila? Ma proprio quello dovete andare a spulciare! Ci sono tanti alti. E poi quelle carogne che son morte proprio se lo meritavano. Non è certo il caso di sottilizzare. Questo il testo. Questo il senso. Naturalmente il testo è ad uso interno, per le brigate di lapidatori stessi che devono farsi una ragione delle loro caragnote passate, presenti e future. Qualche disosrientamento potranno produrlo presso persone non informate dei fatti. Ma queste potranno scegliere se dare credito a Sergio Romano, insultato da Deborah boccuccia di rosa, o prendere per buone le contumelie della boccuccia di rosa. La scelta non è difficile.

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5. Israele, uno stato nato dal nulla sul territorio altrui. – Le argomentazioni della propaganda sionista hanno un che di paranoico. Basta percorrere per sommi capi la nascita dell’«entità» Israele per riconoscere un processo di immigrazione feroce e premeditato, fin dall’inizio intenzionata ad estromettere gli autoctoni. La guerra di appropriazione e giuridicizzazione del maltolto inizia dal 1948. Leggendo comuni libri di storia, più o meno di parte, si vede di quanta brutalità e cinismo siano stati capaci i padri israeliani della patria: pulizia etnica, massacri, scelleratezze di ogni genere, terrorismo, accordi cinici di spartizione della Palestina con quanti avevano eguali cinici disegni di potere, e simili. Ma la propaganda immagina un Israele nei confini di 2000 anni fa. Addirittura nella conquista brutale e barbarica dei territori parlavano di “liberazione” di paesi e villaggi che venivano tolti ai loro abitanti, radendoli al suolo e cambiandone il nome. Per la loro politica che poco aveva da invidiare ai cattivi nazisti avevano bisogno dell’alleanza di potenze occidentali contri i popoli arabi: francesi, inglesi, statunitensi. I francesi sono stati così generosi che hanno loro fornito i mezzi per costituire il loro arsenale nucleare. Se aggressione vi è mai stata questa si chiamava e si chiama Israele. Nella critica a Sergio Romano si nota l’ottusa ostilità nei confronti di un diplomatico che ha il senso della storia e della giustizia fra i popolo e che non è soggetto alle pressioni condizionanti della lobby, ai suoi ricatti, come è invece il caso di molti, non sempre facilmente smascherabili.

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6. Gli «Eletti Lapidatori» tentano l’affondo. – La faziosità ed ottusità degli estensori anonimi dei commenti di «Informazione Corretta» – cui si aggiungono ora altre agenzie simili – sembra non aver limiti e superare di continua se stessa come in quest’ultimo attacco a Sergio Romano che risponde ad un suo Lettore nella consueta rubrica del “Corriere della Sera”:

La saggezza

Caro Romano, il generale Mini nel corso di una trasmissione tv ha sostenuto che il problema iraniano è ingigantito e che la dirigenza politica del Paese persiano è molto più saggia e responsabile di quanto non appaia attraverso i media occidentali. Lei è d'accordo?
Giulio Prosperi
giulio.prosperi@email.it

Il generale Mini ha ragione. Insieme alla Turchia l'Iran è il solo Stato secolare del Medio Oriente con forti tradizioni politiche e amministrative. Ha una classe dirigente di buon livello ed è perfettamente in grado di sostenere negoziati lunghi e difficili con le diplomazie occidentali. Aggiungo, a proposito della saggezza e della respo
nsabilità, che nella sua storia degli ultimi cento anni vi sono guerre subite, non provocate.
Cosa hanno da eccepire i «Corretti Informatori» su un testo come questo, sereno ed equilibrato. Ecco il delirante commento insieme con la delirante pretesa. Si noti l’istigazione con la quale si invitano i Lapidatori a scrivere letteracce al Corriere della Sera per licenziare Sergio Romano come opinionista:
Corriere della Sera Critica
21.06.2008 Lo stato secolare più saggio del Medio Oriente, secondo Sergio Romano ?
L'Iran, e con quale motivazione

Testata: Corriere della Sera
Data: 21 giugno 2008
Pagina: 45
Autore: Sergio Romano
Titolo: «La saggezza»

Ci era sfuggita sul CORRIERE della SERA di ieri, 20/06/2008, nella rubrica di Sergio Romano, una mail che riguarda l'Iran. Tra l'altro viene riportata da un lettore l'opinione
[non è lecito avere opinioni in questo paese se non con la superiore autorizzazione dei «Corretti Informatori»]
del Generale Mini (nomen omen, con dei generali così stiamo freschi),
[e perché un nome come Pezzana non un fortissimo incentivo alla fantasia? pezz... eccetera. Appunto nomen omen, almeno "mini” fa pensare a qualcosa di gentile, grazioso, pulito, igienico! ]
ma da notare è la risposta di Romano, che, in poche righe, riassume il suo Ahmadinejad-Pensiero.
[Si noti la demonizzazione ormai decretata e passata ai velinari della propaganda. Quando si è costruito il mostro non ci sono controprove che reggano. Chi ha potuto ascoltare o leggere i discorsi di Ahmadinejad li trova di un normale equilibrio. Non così può dirsi dei discorsi di quanti vogliono scaternare ad ogni costo una nuova guerra dopo quella in Afghanistan, in Iraq, in Libano, in molte parti del mondo dove le forme di governo vengono decise dalla CIA. L’Ahmadinejad-Pensiero è il doppio speculare del Pezzana-Pensiero, un pensiero di pezza, come dice il nome.]
Che l’Iran voglia distruggere Israele con la bomba atomica
[che Israele ha già e che non dovrebbe avere. Israele è la vera minacchia. La sua esistenza in Medio Oriente significa una guerra senza fine]
che sta costruendo,
[è da dimostrare. Anche Saddam la stava costruendo o l’aveva già costruita. Gli “eletti mentitori” non hanno mai pagato per le loro menzogne ed ora ne apprestano altre pretendendo che si creda loro. Ma ammesso e non concesso ciò che dicono, perché israele non smantella i suoi arsenali? Cosa dà ad israele il diritto di possedere ciò che ad altri non è concesso possedere?]
che insieme alla Cina sia il paese che impicca gli oppositori, che le donne adultere vengano lapidate in strada, che gli omosessuali vengano condannati alla pena capitale, tutto questo,
[tutto questo è nulla rispetto alla “pulizia etnica della Palestina” ed alle violazioni dei “diritti umani” abitualmente compiute da Usa nelle sue innumerevoli basi imperiali sparse per il mondo e ad opera degli stessi israeliani che integrano con obici la magra colazione delle madri palestinesi mentre nutrono i loro figli. I “danni collaterali” gli “indidenti” sono un monumento all’ipocrisia sionista]
per Romano, rientra evidentemente nella «saggezza»
[di chi in cento anni non ha mai fatto ad altri una guerra, avendola solo subita]
della classe dirigente iraniana, come lui la chiama.
[una classe dirigente che a partire dal 1979 con una rivoluzione di popolo è stata sostituita a quella insediata nel 1953 con un colpo di stato organizzato dalla CIA non per scopi filantropici]
Ci paiono ragiomenti sufficienti per inviare e-mail di protesta
[protesta di che? Del fatto che ognuno in questo paese ha ancora il diritto di avere le sue opinioni?]
al direttore del CORRIERE della SERA che affida la rubrica delle lettere dei lettori ad un opinionista di tal fatta.
[Ed a chi dovrebbe affidarla? Ad Angelo Pezzana? O a Magdi ora Cristiano Allam? Ha i suoi fans! Se li tenga pure!]
Basta cliccare su lettere@corriere.it per inviare la propria opinione a Paolo Mieli, direttore del CORRIERE della SERA.
[È quello che facciamo subito, segnalando a Paolo Mieli – se già non ne fosse a conoscenza – un’aggregazione lobbistica e sionista come IC, che putroppo trova coperture dentro lo stesso “Corriere”, la cui linea editoriale resta - se non erro a giudizio di Massimo Teodori – quella del gioco delle tre carte]
Il caso di Michelino il Folle non era per nulla isolato. Questo invito – la cui natura e qualificazione lascio al giudizio del lettore – illustra bene cosa è un’aggregazione come «Informazione Corretta», a difesa della quale era sceso in campo il rabbinato italiano, in un incidente giornalistico che aveva visto in lite su due suffissi in -ista Odifreddi e Giorgino Israel.

6.1
Elencazione
aggiornata e casuale di altri attacchi

L’attacco prosegue secondo una chiara concertazione qui. Sono così numerosi quanto pretestuosi gli attacchi che non possiamo analizzarli tutti, ma ne possiamo dare in questo punto del nostro testo una elencazione via via che li troviamo ad uno ad uno, come pidocchi sparsi nell’archivio di «Informazione Corretta» ed agenzie simili. Ne diamo un’elencazione casuale con numero progressivo e con quale altra indicazione utile fra parentesi: (25.6.08), (Comunicato HonestReportingItalia), (Piera Prister, membro dell’AIPAC e redattrice di IC), (A proposito di una risposta di Sergio Romano su Pio XII); (Lettera aperta di Dimitri Buffa a Sergio Romano).

Torna al Sommario.

7. Ma chi sono questi Lettori? A proposito delle fattorie contese. – Nel mondo dei media e della carta stampata si può distinguere fra un tipo di comunicazione verticale ed un tipo di comunicazione orizzontale. Nel primo caso un soggetto parla ad una pluralità di altri soggetti, anche milioni di persone, che non possono né rispondere né interagire. Le persone che ricevono sono passive ed il loro grado di condizionamento dipende dallo loro capacità critica di discernimento. Esiste anche un problema di “correttezza” da parte di chi trasmette contenuti che potrebbero essere anche deliberatamente e palesemente falsi. Non approfondisco ora i problemi deontologici connessi alla comunicazione. Il tipo di comunicazione orizzontale è quelle dove ognuno può replicare e rispondere ad ognuno. Ha il difetto di non poter coinvolgere contemporaneamente milioni di persone, come le trasmissioni di Santoro, di Vespa, di Lerner, o anche i lettori del pià diffuso quotidiano italiano, ossia il «Corriere della Sera,» che tira un milione di copie. Su questo quotidiano l’ambasciatore Sergio Romano, grande esperto di politica estera ed apprezzato analista ed opinionista, tiene una sua rubrica dove risponde ai suoi Lettori, che sono certamente un nutrito numero. Per chi non avesse stima nell’analista Sergio Romano sarebbe facile scegliere di non leggere più le sue risposte. Sergio Romano deve scegliere ogni volta fra le centinaia di lettere che riceve quella di volta in volta ritenuta più significativa e tale da interessare una più vasta cerchia di lettori. Devo dire, pur non essendo assiduo lettore di Sergio Romano, di aver sempre trovato acute ed interessanti le sue risposte.

È curioso, anzi esilarante, leggere come Emanuele Segre Amar si preoccupi dei Lettori di Sergio Romano, quasi fossero della stessa pasta di quelli di «Informazione Corretta», che nasce ed opera al solo scopo di tentare di condizionare, per non dire intimorire le testate ed i giornalisti indipendenti. In ultimo hanno persino osato di chiedere a Miele come mai l’ambasciatore Sergio Romano potesse continuare a scrivere sul “Corriere della Sera» cose non gradite agli Eletti Informatori. I lettori di IC sono dei militanti sionisti il cui compito è di scrivere lettere agli indirizzi indicati dalla Redazione. In pratica una vera e propria istigazione ad opera di una concertazione di cosiddetti «Lettori» che però io chiamo «Lapidatori». Ecco uno spaccato dei tipici «Lettori» di «Informazione Corretta»
…Vorrei ricordarvi che l'efficacia della nostra iniziativa è strettamente legata al numero delle lettere inviate ai media. Vi invito pertanto personalmente ad un'attiva partecipazione, tramite le vostre lettere, ogni qualvolta riceverete il comunicato.
(vedi supra)
Quindi, tutt’al altra cosa il singolo Lettore che senza concerto con un Gruppo decide singolarmente come privato e senza nessuna dipendenza da altri di scrivere una lettera ad un Illustre opinionista come Sergio Romano. Se questi sceglie la sua lettera e dà ad essa una pubblica risposta ne ricavaun qualche lustro il Lettore che ha saputo formulare un interessante quesito. Questo genere di Lettori non ha proprio ma proprio nulla a che fare con il genere dei Lettori di IC, i quali abitualmente scrivono testi ai limiti della legalità. Addirittura un certo Michael Levi, cittadino israeliano residente in New York, su istigazione di IC scriveve al presidente dell’ordine dei giornalisti per esigere la cacciata dall’Albo del giornalista Maurizio Blondet, reo di scrivere cose non gradite allo stesso nonché ad IC. Nessun Lettore di Sergio Romano si immagina lontanamente di poter inoltrare una simile richiesta. Le sue lettere riguardano osservazioni o richieste di chiarimento su questioni di politica estera o interna che sono di interesse generale: nulla di personale e nessun attacco personale a terzi.

Orbene, il signor Emanuele Segre Sion, che ha a che fare con l’Associazione Italia-Israele oltre che con la stessa IC, scrive una lettera a Sergio Romano che questi avrebbe potuto benissimo cestinare, scegliendone altre più meritevoli di risposte. La lettera a noi pare tanto scortese quanto saccente e dà la misura del personaggio, a noi già noto, per una querelle su la Stampa in tema di «cosiddetto Olocausto», espressione il Padre di Emanuele aveva usato ad insaputa del Figlio ed evidentemente senza permesso. Da par suo l’ambasciatore (credo che si conservi il titolo anche dopo la cessazione della carica, come per gli Onorevoli che vengono chiamati ancora così anche quando non sono più in parlamento. In ogni caso dire “ex-ambasciatore” è ostentazione di una villania aabituale fra gli Eletti Informatori) sorvola sugli insulti e si ferma sul merito della questione. Così introdotti diamo ora i testi in tre tempi:
7.1
1° tempo

La lettera villana al «Corriere della Sera»


«Che sventura quella del Libano, sottomesso agli appetiti dei suoi potenti vicini»!
[Il virgolettato non è filologicamente corretto. Il testo esatto recita: «A causa della sua fragilità il Paese ha la sventura di essere soggetto agli appetiti dei suoi potenti vicini». Stilisticamente ed anche concettualmente viene alterato il testo di Sergio Romano, pur riplubblicato dai “corretti” Informatori]
E, fra questi, ancora una volta lei volutamente trae in inganno
[L’espressione ha una grave connotazione morale. Come Lettore di Sergio Romano non rilevo nessun inganno, mentre ne noto parecchi nei suoi Accusatori, ma si tratta di autoinganni che possono convincere solo il congresso peculiare dei “Lettori” di IC. Le precisazioni su un aspetto marginale fugano in ogni caso le premure espresse verso i Lettori di Sergio Romano]
il suo lettore, additando, con Iran e Siria, anche Israele, reo di ancora «detenere le fattorie di Sheba, conquistate durante la guerra del 1967».
[Nell’epoca della civiltà del diritto la conquista è ancora un titolo? Tutto ilo cosiddetto diritto di Israele si basa sul diritto di conquista. Ma se questo può e deve essere considerato un diritto non lo è di meno negli altri il diritto di resistenza. Solo che gli Eletti Informatori chiamamo questo secondo diritto terrorismo, pretendendo che a questo definizione si adeguino gli stati “amici” o vassalli degli USA]
Eppure lei dovrebbe ben sapere che anche l'Onu ha dichiarato che quei pochi metri di terra mai appartennero al Libano, ma furono sottratti alla Siria. Israele ha restituito al Libano la sovranità su tutti i territori occupati in occasione delle guerre, mentre con la Siria non è mai arrivato, almeno per il momento, ad alcun accordo che giustificasse il ritiro.
[Curioso ragionamento. In ogni caso, o alla Siria o al Libano, Israele ha sottratto ad un terzo qualcosa che non era suo. Mi era capitato una volta di assistere ad una lite fra due usurpatori che si contendevano un terreno che sapevano entrambi appartenere ad un terzo assente e lontano. Qui per bocca di Emanuele sembra lo stato di Israele si ponga il problema dell’«a chi» convenga restituire il maltolto. Una curiosa etica politica a metà fra l’ipocrisia e la furbizia. Se mai potrebbe e dovrebbe esservi una trattativa fra Siria e Libano sul territorio conteso senza alcun ruolo del terzo “ladro”, che dovrebbe soltanto ritirarsi di buon grado. Ma Israele per bocca di Emanuele vuole un accordo su ciò che riconosce non esser suo. Si parlava giusto di arte dell’inganno. Nessuno supera israele in questa abilità. Lo si può riconoscere.]
Visto che questo è stato il suo primo articolo sull'argomento, beh, direi che davvero non si smentisce neanche in questa occasione.
[Appunto! chi muove questi appunti a Sergio Romano non smentisce se stesso] No
n resta che aspettare le prossime puntate. Mi permetto di osservare: poveri lettori del Corriere, così ingannati!
[I lettori di Sergio Romano rispondono per quanto singolarmente mi riguarda: quanta pelosa carità nei Corretti Informatori ovvero Eletti Mentitori! Non compiangono i Lettori di «Informazione Corretta» perché non ne esistono. In altri modi si possono chiamare ma certamente non «lettori» nel senso normalmente attribuiti a questo termine. Le “puntate” sul Libano sono qui riunite, prurgate dall”eletto commento, a beneficio di chi legge questo blog]

Emanuel Segre Amar
segreamar@fastwebnet.it
7.2
2° tempo

La risposta signorile di Sergio Romano sul «Corriere della Sera»

Caro Segre Amar,

Tralascio le sue annotazioni sulla mia persona perché non desidero occupare lo spazio della rubrica facendo l'avvocato di me stesso e vengo al tema della sua lettera che potrebbe maggiormente interessare i lettori, soprattutto in questi giorni.
[Effettivamente si tratta di una precisazione interessante, piuttosto macchinosa, se a sollecitarla non fosse stata la carità pelosa di Segre Amar. È del resto noto a chi scrive sui giornale che bisogna contenere gli articoli in un determinato numero di caratteri. Si sacrificano perciò gli aspetti che paiono meno interessanti. Ma questo non significa ancora ingannare. In ogni caso Israele è e resta un “ladro” di fattorie altrui, appartengano queste al Libano o alla Siria. L’accordo va fatto fra questi due che accampano un eguale diritto, non con il “ladro” che deve solo “ritirarsi” senza nessun accordo.]
Il punto in discussione è un fazzoletto di terra, le Fattorie di Sheba, incastrato tra la valle libanese della Bekaa, le Alture del Golan e la punta più settentrionale del territorio israeliano. E' lungo nove km, largo due km e mezzo e comprende in tutto ventidue km quadrati. Gli israeliani lo occuparono durante la guerra dei Sei giorni e lo considerarono parte del territorio siriano conquistato nella stessa occasione. Quando abbandonarono il Libano meridionale nel maggio del 2000, le Nazioni Unite certificarono il ritiro dal territorio libanese e accreditarono in tal modo la tesi secondo cui le Fattorie di Sheba dovevano considerarsi siriane. Ma il Libano non ha mai smesso di rivendicare Sheba ed Hezbollah si è servito di tale rivendicazione per giustificare la propria struttura militare. Finché un pezzo di terra libanese è in mano di Israele — ha dichiarato più volte in questi anni il «partito di Dio» — abbiamo il diritto e il dovere di armarci e combattere. Il governo siriano, dal canto suo, non ha mai contraddetto esplicitamente la posizione del governo di Beirut. Non era nel suo interesse, evidentemente, privare l'alleato Hezbollah dell'argomento di cui si è servito per rifiutarsi di rinunciare alle proprie armi. Sta di fatto comunque che sulle Fattorie di Sheba esistono due rivendicazioni: quella esplicita dei libanesi e quella tacita dei siriani.

Israele ne è perfettamente consapevole e sa di possedere una carta che può essere giocata indifferentemente su due tavoli. Negli scorsi giorni il governo israeliano ha fatto sapere ai libanesi di essere pronto ad aprire negoziati e a discutere con Beirut di tutte le questioni aperte fra cui, per l'appunto, quella delle Fattorie di Sheba. Ha deciso di giocare la sua carta sul tavolo libanese? Lo ha fatto per dare agli Stati Uniti, dopo il recente viaggio di Condoleezza Rice a Gerusalemme e a Beirut, una prova di buona volontà? Vuole togliere a Hezbollah l'argomento che gli ha consentito di mantenere un esercito composto da circa 40.000 uomini? Vuole mettere alla prova i rapporti che legano la Siria a Hezbollah? Vuole puntellare la traballante la posizione del premier Ehud Olmert, insidiato da un'azione giudiziaria? Sono domande a cui soltanto il negoziato con la Siria e quello con il Libano, se Beirut accetterà di trattare, potranno dare una risposta. Nel frattempo mi limito a osservare che Israele non è mai prigioniero della propria linea ufficiale e che chiede spesso ai suoi amici e alleati di assumere posizioni da cui è il primo, se necessario, a discostarsi. Lo ha dimostrato negli scorsi giorni riconoscendo di fatto Hamas e potrebbe dimostrarlo ancora una volta nei prossimi mesi.
[Questo va raccontato al nostro ministro Frattini, che ancora una volta ha confermato l’italica tardizione in “cupidigia di servilismo”]

7.3

3° tempo

Le replica presuntuosa su «Informazione Corretta», centrale lobbistica
[Secondo una consolidata prassi in IC la replica è ad uso e consumo del “lettori” di IC. Non è pensabile che Sergio Romano ne venga a conoscenza e dia ulteriore risposta.]
Dottor Sergio Romano,

il mio intervento era volto a contestare la sua affermazione perentoria che Israele dovrebbe mettere fin al proprio contenzioso col Libano restituendo le fattorie di Sheba sottratte appunto al Libano nel 1967.
[Una siffatta affermazione perentoria non esiste nel testo di Sergio Romano: il disvelatore di inganni Segre Amar ha un suo eletto e peculiare rapporto con la lingua italiana. Nel testo si trovano non affermazioni perentorio ma una succesione di frasi ipotetiche introdotte dal se: «Ma darà buoni risultati soltanto se sarà riconosciuto dalla Siria, se l'Iran rinuncerà a servirsi di Hezbollah per i suoi scopi, se Israele metterà fine al suo contenzioso con il Libano restituendogli un pezzo di territorio nazionale (le fattorie di Sheba) occupato nel 1967 ». Di perentorio vi sono solo le presunzioni e le illazioni di Amar Segre.]
Solo grazie alla pubblicazione della mia lettera il lettore meno informato è ora al corrente del fatto che il controllo passato, da parte del Libano,
non è comunque così certo come da lei scritto.
[Per il lettore di cui Segre Amar si prende cura si tratta di una precisazione indubbiamente interessante, come sempre la scrittura di Sergio Romano, ma ininfluente per l’intelligenza di quanto l’ambasciatore aveva già scritto. L’omissione dei dati ulteriore di conoscenza non configura nessun inganno in quanto non viene alterato il senso generale e principale del discorso oggetto dell‘articolo. Si è invece trattato di un maldestro tentativo di cogliere in fallo un ambasciatore che conosce bene il suo mestiere e che conserva pienamente il senso diplomatico delle distinzioni oltre ad uno stile ed un senso della forma di cui Segre Amar non ha la più pallida idea.]
In un documento dell'allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan del 22.5.2000 è chiaramente riportato che, in contrasto con quanto reclamato dal Governo libanese in un suo documento del 15.5.2000 (documento che appunto reclama la proprietà libanese sulle fattorie di Sheba), le Nazioni Unite sono in possesso di 10 documenti dei passati governi del Libano, dal 1966 in avanti, tutti unanimi nel riconoscerne la proprietà alla Siria. E sta anche scritto che la stessa Siria, dal 1966, ha inviato, a sua volta, 6 documenti ufficiali alle Nazioni Unite nei quali rivendica il possesso di tali fattorie.
[Tutto ciò nulla toglie al fatto che Israele ha “rubato” cose di terzi ed è comica la preoccupazione di Segre Amar che meglio farebbe ad interessarsi del catasto sulla cui base nel 1948 vennero sottratte ai palestinesi le loro terre e sulla cui base oggi si continuano a sfrattare i beduini dai loro villaggi e dalle loro terre, magari irrorando persone e terreni di convicnenti pesticidi]
E' quindi scorretto quanto lei scrive ora di una rivendicazione esplicita
libanese ed una tacita dei siriani!
[Esilarante l’apprendere dove va a finire la «correttezza»]
Mentre dovrebbe riconoscere che mantenere 40000 uomini in armi da parte di
Hezbollah, adducendo a pretesto queste terre reclamate, è: 1) in contrasto con la risoluzione ONU del 2006 che proibisce sia la detenzione di armi nel sud del Libano, sia l'importazione di armi da parte di gruppi politici senza l'esplicito consenso del governo centrale.
[Verrebbe da chiedersi come mai ci si preoccupa di queste risoluzioni (da verificare) e non delle infinite altre che condannano Israele, imponendogli adempimenti, ad incominciare dal 1948. Due pesi due misure. Quando poi al diniego del diritto altrui di portare le armi per restare indifesi davanti alle ricorrenti aggressioni israeliani è cosa – come si suol dire – che si commenta da sé. L’eroica etica israeliana di guerra consiste nel massacrare avversari disarmati o male armati. Quanto all’ONU, la cui commisione dei diritti umani, è in procinto di produrre una Durban II, si può leggere nella stessa IC una recente campagna di diffamazione e delegittimazione. Come dice Sergio Romano, il governo israeliano si tiene sempre libere le mani, salvo invocare tutti i diritti possibili ed immaginabili]
2) una grave forma di pressione nei confronti sia degli ultimi due governi libanesi, sia di tutte le realtà politiche libanesi che siano in disaccordo con Hezbollah.
[ E che dire delle pressione di ogni genere su Abu Mazen e dappertutto, in Israele e fuori, fino al punto di chiedere al direttore Miele perché mai Sergio Romano continui a scrivere sul Corriere. Che faccia!]
3) un fatto che nessun paese democratico, come il Libano continua a cercare
di essere, può permettere sul proprio territorio.
[Non è Israele che deve interessarsi della democrazia libanese. Ben sappiamo come la intende e come la interpreta]
Per questa ragione ritengo sia scorretto presentare solo una parte delle
rivendicazioni o dei tanti fatti che hanno reso così tragicamente complessa la questione.
[Le scorrettezze di IC sono da me monitorate da un paio di anni. Non ne esistono di maggiori e più gravi. Ammesso e non concesso che quelle di Sergio Romano siano scorrettezze, è proprio il caso di dire: da quale pulpito viene la predica]
Per poi dire, come è suo costume, che la responsabilità è di
Israele.
[La responsabilità di Israele ha ben altre radici. Probabilmente i padri del sionismo si sono sbagliati di quale secolo con il tempo . Ed anche con la geografia. Pensavano di poter sbarcare in Palestina avendo a che fare con selvaggi da poter liquidare al riparo da occhi indiscreti e dal giudizio morale altrui. Un giudizio che resta che nella coscienza dei singoli, anche quando agli israeliani riuscisse di liquidare e neutralizzare totalmente l'ultimo palestinese rimasto]
Affermazione che non stupisce più di tanto, visto che lei considera
l'Iran, stato dei Mullah, un paese"secolare" ! ( l'ha scritto il 20.6 us in risposta ad un lettore).
[Eccola la frecciata del Parto, che però può essere restituita al mittente. Per l’Iran il sionismo sta preparando gli stessi scenari iracheni. Altro che inganno vi fu! La menzogna più spudorata offese tutti i popoli della terra. Ancora giustizia deve esser fatto. I mentitori di allora pretendono adesso di spacciare le stesse menzogne e di far piombare l’umanità in un nuovo bagno di sangue e nella barbarie. Il popolo iraniano ha il diritto di darsi la forma di governo che meglio crede. La CIA nel 1953 impose agli iraniani una dittatura di comodo che gli iraniani rovesciano nel 1979. Israele non ha il diritto di imporre niente a nessuno]
Emanuel Segre Amar

Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera cliccare sul link sottostante
lettere@corriere.it
Il Libano raccontato da Sergio Romano per “puntate”, riportate da IC con Eletto Commento, da noi spurgato da siffatti, viene qui riportato integralmente. Sarà per noi un’occasione di studio, ma non faremo qui noi gli avvocatori difensori dell’illustre diplomatico davanti ai suoi «Corretti Denigratori». A noi interessa solo rilevare la denigrazione e l’attività lobbistica volta a far tacere ogni voci che sia appena un poco critica verso Israele e la politica culturale interna seguito dai governi europei dopo il 1945. Il grande merito e la grande capacita di Sergio Romano è di saper esprimere il suo pensiero con grande equilibrio concettuale e formale. Ed è proprio per questo che egli produce il più nero livore da parte dei lobbisti che non possono giocare con lui l’accusa diffamatoria dell’antisemitismo o dell’odio razziale, autentiche bestialità giuridiche con le quali in pratica si mette un bavaglio alla libera espressione delle idee, che possono essere contraddette e confutate da altre idee e posizioni storico-filosofiche, non certo con la sanzione penale e addirittura con il carcere. Se ciò accade, la pretesa democrazia nata dalla resistenza e dall’antifascismo avrà superato in illiberalità ed in fascismo lo stesso fascismo: un gioco di parole che confidiamo risulti facilmente comprensibile. Del resto, fascismo e nazismo dovrebbero una buona volta uscire dal dominio di politici ignoranti ed opportunisti per essere consegnato insieme con l’apertura degli archivi e la desecretazione dei documenti nelle mani e alle menti di quanti sanno pensare storicamente ed intendono offrire un servizio ai propri concittadini liberando la memoria storica dalle brache in cui una lobby eterogenea e variopinta ha voluto metterla.

Il Libano conteso a Sergio Romano:
7.4
Prima puntata
Titolazione originale di Corsera:
Viaggio a Beirut
Il libano che teme la guerra civile e si ferma sull’orlo del precipizio
La svolta del presidente Suleiman: «Via i miei ritratti dalle strade»
BEIRUT — Mentre lavorava alla formazione del nuovo governo libanese, il generale Michel Suleiman, presidente della Repubblica, ha chiesto che venissero rimossi dalle strade di Beirut i suoi ritratti, apparsi in gran numero, dopo la sua elezione, sulle facciate delle case e nelle vetrine dei negozi.

Il maronita Suleiman è un uomo sobrio, pacato, poco loquace. Ma la richiesta, in questo caso, non è un segno di modestia. Nelle strade di Beirut non esistono soltanto i ritratti del capo dello Stato. Le fotografie dei leader, spesso grandi quanto l'intera facciata di una casa, annunciano l'identità religiosa e politica di una zona urbana. So di essere nel quartiere di Amin Gemayel, capo delle Falangi cristiane, perché la piazza principale è dominata dalla gigantografia del figlio Pierre, esponente della maggioranza anti-siriana, assassinato nel novembre del 2006 quando era ministro dell'Industria nel governo di Fouad Siniora. So di essere in un quartiere sciita perché la strada principale è tappezzata dai ritratti di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, e da quelli dei «martiri» caduti combattendo contro Israele.

Quasi tutti i quartieri di Beirut sono religiosamente omogenei e alcuni di essi «gridano» la loro identità esponendo l'immagine del leader di cui sono elettori. Chiedendo la rimozione dei suoi ritratti Suleiman chiede alla classe politica di fare altrettanto e di rinunciare alla spartizione di Beirut fra aree d'influenza. Vorrebbe che il Libano smettesse di essere un mosaico di comunità religiose (sono diciotto) e divenisse finalmente uno Stato di cittadini, eguali di fronte alla legge, uniti dall'appartenenza a una stessa nazione. È il sogno di tutti i riformatori. Non chiedono ai loro connazionali di rinunciare alla propria fede religiosa, ma vorrebbero che accanto all'identità confessionale vi fosse in ciascuno di essi il patriottismo libanese. Ogni crisi si conclude con un invito all'unità nazionale, unico rimedio contro le fazioni che dividono il Paese sin dal giorno, nel 1920, in cui il generale Henri Gouraud, conquistatore di Damasco, ne proclamò la nascita sotto le ali protettrici della Repubblica francese. Vi è persino qualcuno che vorrebbe conferire ai poteri pubblici una funzione tipica dello Stato moderno, ma esercitata in Libano dalle singole comunità religiose: lo stato civile. Sino a quando le nascite, le morti, il diritto matrimoniale e le disposizioni testamentarie saranno nelle mani delle singole confessioni, il Libano continuerà a essere un vestito d'Arlecchino, cucito con le pezze colorate di diciotto staterelli ecclesiastici. Occorre uscire da questa versione estrema della multiculturalità per creare infine il cittadino libanese.

Peccato che le crisi si concludano generalmente grazie ad accordi che ribadiscono l'esistenza delle comunità religiose e il loro ruolo nella gestione politica del Libano. Ridotto all'osso, il patto firmato nello scorso maggio a Doha nel Qatar è soltanto lo strumento con cui i firmatari riconoscono che la storia e la demografia hanno modificato i rapporti di forza fra i tre maggiori gruppi religiosi: cristiani, sunniti e sciiti. Non esistono dati ufficiali perché un censimento periodico, come nei Paesi occidentali, avrebbe qui il pericoloso effetto di riaprire interminabili discussioni sulla spartizione delle maggiori cariche istituzionali. Ma non è necessario un censimento per sapere che gli sciiti, dopo essere stati per molto tempo l'ultima ruota del carro della società libanese, sono oggi, grosso modo, la metà del Paese. A Doha è stato deciso che il governo si comporrà di trenta ministri, che undici di essi saranno sciiti e che le maggiori decisioni verranno prese con la maggioranza dei due terzi. Il diritto di veto, che Hezbollah ha chiesto insistentemente sin dalla fine del 2006, è quindi ormai nelle sue mani. Non basta. Quando tornerà alle urne, probabilmente fra un anno, il Paese voterà con una nuova legge, approvata a Doha, che prevede distretti elettorali più piccoli e garantisce il seggio al gruppo religioso dominante. Il prossimo Parlamento sarà quindi, ancora più dell'attuale, il riflesso fedele del puzzle religioso libanese.

L'esperimento tentato dal governo di Fouad Siniora negli scorsi mesi (la coalizione sunnita-cristiana al potere, gli sciiti e i loro alleati all'opposizione) è drammaticamente fallito nel momento in cui il presidente del Consiglio ha cercato di togliere a Hezbollah alcuni degli strumenti che consentivano alla maggiore organizzazione sciita di essere uno Stato nello Stato. La solidarietà nazionale, in altre parole, si conquista soltanto riconoscendo che il Libano, oggi, può essere soltanto una democrazia consociativa.
All'ascesa politica degli sciiti corrisponde il declino demografico e politico delle comunità cristiane. Ho incontrato il Patriarca dei maroniti, Nasrallah Boutros Sfeir, nel suo palazzo di Bkirki alle pendici delle colline che salgono verso il Monte Libano: un piccolo «Vaticano» bianco in stile neoclassico circondato da chiese e da alberi contro lo sfondo di un cielo impeccabilmente azzurro. Capo di una Chiesa che riconosce il primato del vescovo di Roma, Sfeir è anche cardinale ed è il leader spirituale di una comunità religiosa composta da circa otto milioni di fedeli dispersi su cinque continenti. Ormai quasi novantenne ricorda con nostalgia l'epoca in cui il presidente della Repubblica, tradizionalmente maronita, veniva eletto con largo consenso prima che terminasse il mandato del predecessore. Erano gli anni in cui i cristiani (soprattutto maroniti, ma anche greco-ortodossi, greco-cattolici, armeni, caldei, siriaci) rappresentavano la metà della popolazione. Erano gli anni — ricorda Sfeir — in cui i maggiori partiti cristiani erano protagonisti della vita politica nazionale. Oggi hanno perduto la loro autonomia. Due di essi appartengono alla coalizione anti-siriana del 14 marzo, creata dopo l'assassinio di Rafik Hariri nel 2005, e il terzo (quello del generale Michel Aoun) gioca in campo sciita accanto agli Hezbollah di Nasrallah e al partito Amal di Nabih Berri, presidente del Parlamento. Il Libano della giovinezza del Patriarca Sfeir, il Paese dinamico e felice in cui la maggioranza cristiana esercitava una sorta di egemonia culturale, ha cessato di esistere. È scomparso durante la guerra civile quando un milione di persone, prevalentemente maronite, abbandonò il Paese.
Resta da vedere se il nuovo compromesso raggiunto a Doha possa creare un nuovo Libano, meno cristiano e più sciita, ma pur sempre capace di alloggiare, all'insegna della convivenza e della reciproca tolleranza, il più largo ventaglio di comunità religiose esistente nel Mediterraneo. Beirut è sempre, ancor più del Cairo, un pezzo di Occidente sulle coste meridionali del Mediterraneo, una città in cui una larga parte della popolazione non rinuncia a considerarsi culturalmente e civilmente europea. Non esiste ancora uno Stato dei cittadini, ma lo spettro della guerra civile rappresenta pur sempre una sorta di paradossale collante. Dopo essersi ferocemente combattuti, i libanesi sembrano essere uniti dal timore di ricadere all'indietro nel peggior periodo della loro storia. L'improvvisa insurrezione di Hezbollah, dopo la prova di forza tentata dal premier Siniora, sembra indicare che i semi della discordia sono ancora all'opera.
Ma la rapidità con cui l'accordo è stato concluso dimostra che tutti gli attori del dramma, dopo essersi pericolosamente affacciati sull'orlo del precipizio, hanno saputo fare un passo indietro.
Non tutto, però, dipende dai libanesi. A causa della sua fragilità il Paese ha la sventura di essere soggetto agli appetiti dei suoi potenti vicini. A causa della sua parcellazione politico-religiosa è il luogo in cui si combattono per procura tutti i conflitti della regione. ll patto di Doha ha avuto il merito di evitare un nuovo conflitto civile. Ma darà buoni risultati soltanto se sarà riconosciuto dalla Siria, se l'Iran rinuncerà a servirsi di Hezbollah per i suoi scopi, se Israele metterà fine al suo contenzioso con il Libano restituendogli un pezzo di territorio nazionale (le fattorie di Sheba) occupato nel 1967. Il maggiore fattore di rischio è oggi ancora rappresentato dall'intreccio di interessi che lega da molti anni il movimento Hezbollah alla Siria di Bashar al Assad e all'Iran di Mahmud Ahmadinejad. Sarà questo l'argomento di un nuovo articolo.
(fine prima puntata)

Alla attenta lettura vorrei aggiungere un personale commento. Non sono dentro le segrete stanze dove si decide la politica interna ed internazionale, ma è mia convinzione che il governo di Israele avrebbe quanto mai gradito che il Libano fosse precipitato di nuovo nella guerra civile. E sono pure convinto che il Mossad abbia fatto tutto il possibile per favorire questa eventualità. Dal 1948 in poi, ma pure prima, la politica israeliana è stata costantemente rivolta alla divisione dei fronte arabo. Quanto più si fanno la guerra e si dividono fra di loro, tanto maggiore è la forza di israele e la sua crescita in potenza e territorio. Con il re di Giordania fin dal 1948 avevano concordato una spartizione delle spoglie libanesi. Il re di Giordania sembra avere ancora oggi una concezione patrimonialistica del territorio sul quale esercita il potere, in pratica una fattoria un po più grande del solito.

7.5

BEIRUT — È probabile che il compiacimento con cui il Dipartimento di Stato ha commentato l'accordo raggiunto dalle fazioni libanesi a Doha, nel Qatar, nasconda un certo disappunto. L'America ha sostenuto il governo di Fouad Siniora quando era assediato nel Serraglio (il grande Cremlino Ottomano costruito nella seconda metà dell'Ottocento) dalla tendopoli dei militanti di Hezbollah. E ha approvato l'apparente fermezza con cui Siniora ha cercato di togliere alla maggiore organizzazione sciita due formidabili strumenti di potere: la proprietà di una grande società delle telecomunicazioni e il controllo della sicurezza nell'aeroporto di Beirut. Non può piacerle quindi che un'«organizzazione terroristica» (come Hezbollah viene abitualmente definita a Washington) divenga il partner indispensabile della maggioranza anti-siriana e partecipi al governo con un diritto di veto sulle questioni di maggiore importanza.
Ma gli Stati Uniti farebbero bene a ricordare che il terrorismo è soltanto uno dei volti dell'organizzazione. Hezbollah può essere contemporaneamente molte cose. È un esercito composto da circa 40.000 miliziani che tengono il kalashnikov sotto il letto come un riservista svizzero terrebbe il fucile nell'armadio, e rispondono all'appello di un sms con la rapidità di un pompiere. È un movimento di guerriglia che ha punzecchiato Israele per parecchi anni e gli ha tenuto testa durante l'estate del 2006. Ha un vertice in buona parte segreto e un leader carismatico (Hassan Nasrallah) che parla a folle adoranti da un rifugio segreto mentre raffinate tecnologie proiettano la sua immagine su un grande schermo. È il maggiore alleato della Siria nella società libanese. È la longa manus dell'Iran nella regione. Ed è infine, grazie ai generosi finanziamenti iraniani, una specie di elementare «welfare state». Le ragioni della sua popolarità sono in buona parte dovute alla prontezza e all'efficienza con cui può colmare, a favore della comunità sciita, i vuoti dell'assistenza statale. Fu Hezbollah che aiutò gli abitanti dei quartieri distrutti, dopo l'estate del 2006, con generosi sussidi. Di questo stile assistenziale, con una forte coloratura religiosa, ho avuto una dimostrazione durante una visita a Baalbek, il grande sito archeologico dove sorgono le bellissime rovine di due dei più grandi templi dell'antichità romana. Baalbek è nella valle della Bekaa, a meno di due ore da Beirut, in una zona prevalentemente sciita che i francesi tolsero alla Siria e dettero al Libano nel 1920. Il governo di Parigi lo fece per compiacere i suoi alleati cristiani e allargare i confini del suo pupillo favorito, ma gettò in tal modo i semi dei mutamenti demografici che avrebbero progressivamente alterato gli equilibri religiosi del Paese. In Europa Baalbek ebbe grande notorietà degli anni Cinquanta e Sessanta per il suo festival e per i fastosi spettacoli ambientati fra le colonne dei templi di Giove e di Bacco.
Era il più felice periodo della storia libanese, quello in cui il Paese appariva al mondo come una sorta di fortunata sintesi fra la Svizzera e il principato di Monaco. Per molto tempo Baalbek visse soprattutto di un ricco turismo straniero che nutriva gli abitanti della piccola città e agli agricoltori del contado. Interrotto dalla guerra civile, il festival rinacque stentatamente negli anni Novanta ed è stato costretto a chiudere i battenti ancora una volta dalla guerra israeliana del 2006. Ma Hezbollah è corso ai ripari costruendo alle porte del Paese una vistosa moschea in stile iraniano, ricoperta dal blu profondo di migliaia di piastrelle. È dedicata a una bambina che non vide mai la vita. Nacque morta probabilmente nella vale della Bekaa, durante la fuga dalla Mesopotamia della madre, Zainab, dopo l'assassinio del nonno Ali e dello zio Hussein. Appartiene quindi alla dinastia dell'imam ucciso, al mito di Kerbala, al grande dramma della successione che divise l'Islam in due famiglie rivali: quella «usurpatrice » dei sunniti e quella «legittima» degli sciiti. Come i santuari intitolati al nome della madre, numerosi nel mondo musulmano, anche quello della figlia mai nata di Zainab attrae pellegrini da ogni parte dell'Islam. E il pellegrinaggio religioso, come dimostrano molte esperienze europee, da Lourdes a San Giovanni Rotondo, può essere una formidabile risorsa economica.
Se il denaro di Hezbollah proviene dall'Iran, le armi e i missili di cui dispone arrivano in Libano attraverso il territorio siriano o l'aeroporto di Beirut che il governo Siniora, per l'appunto aveva inutilmente cercato di sottrarre al controllo sciita. Tagliare il nodo che lega l'organizzazione a Damasco è difficile, ma non impossibile. Fra uno Stato laico, nazionalista e socialista, come la Siria, e un movimento nazional- religioso come Hezbollah, non esiste alcuna affinità ideologica. Il matrimonio fu stipulato per ragioni di convenienza e potrebbe essere sciolto, ad esempio, il giorno in cui la Siria si appagasse della restituzione delle Alture del Golan, materia di un negoziato avviato già da tempo con l'intermediazione della Turchia, e rinunciasse alla tentazione di trattare il Libano alla stregua di un protettorato. È alquanto diversa invece la natura delle relazioni fra Hezbollah e l'Iran degli ayatollah. Il movimento libanese fa parte della mezzaluna sciita, come la definì Abdullah re di Giordania, ed è legato da vincoli religiosi a un mondo che la rivoluzione iraniana degli ayatollah, per meglio difendersi dai suoi nemici, ha cercato di unificare. Vi sono fra i cristiani libanesi, tuttavia, personalità convinte che i gusti e le inclinazioni occidentali del Libano siano minacciati dai sunniti molto più che dagli sciiti. Il maggiore sostenitore di questa tesi è il generale Michel Aoun, capo di un partito cristiano (il Libero Movimento Patriottico ) che ha stretto un patto di alleanza con le due maggiori formazioni sciite: Hezbollah e Amal.
Aoun è il personaggio più sorprendente e controverso della recente storia libanese. Alla fine degli anni Ottanta, come capo delle forze armate e per un breve periodo primo ministro, combatteva i siriani e i loro alleati nelle vie di Beirut. Sconfitto, si rifugiò nell'ambasciata di Francia e raggiunse Parigi dove rimase in esilio sino al maggio del 2005. Quando tornò in patria, tre anni fa, molti, pensavano che sarebbe entrato nel blocco anti-siriano dei sunniti di Saad Hariri e dei due maggiori partiti cristiani, quello di Amin Gemayel e quello di Samir Geagea. Ma ecco che l'imprevedibile Aoun, rovescia le sue vecchie posizioni ed entra trionfalmente nel campo di Hezbollah. L'ho incontrato nella sua villa di Beirut, immersa nel verde di un piccolo parco e guardata a vista dai suoi miliziani. Quando gli chiedo perché un generale cristiano sia oggi alleato di un movimento fondamentalista e terrorista, Aoun mi risponde che Hezbollah non è terrorista e neppure fondamentalista. I veri fondamentalisti — sostiene — sono i sunniti dell'Arabia Saudita, dominati da una lettura strettamente letterale del Corano. Lo sa, mi dice, che gli aerei di Swissair potevano sorvolare il territorio saudita soltanto durante la notte perché nessuno potesse vedere la croce elvetica dipinta sulle loro ali? Gli sciiti invece sono più liberi e duttili, più disposti ad adattare i precetti del Corano alle esigenze della modernità. Quando gli ricordo la condizione della donna nello Stato iraniano, Aoun risponde che quello è uno Stato per i persiani, non per gli arabi, e aggiunge: ciò che va bene per l'Iran non va bene per il Libano. Può darsi che in queste parole vi siano le personali ambizioni di un uomo politico spregiudicato che ancora puntava, qualche settimana fa, alla presidenza della Repubblica. Ma non è sbagliato sostenere che gli sciiti siano stati in molte circostanze, più flessibili e pragmatici dei sunniti.
Il problema comunque è molto più politico che teologico. Piuttosto che lasciarsi coinvolgere in dispute religiose, l'Europa, presente in Libano con alcune migliaia di soldati, dovrebbe lavorare a rendere meno stretti i rapporti speciali di Hezbollah con la Siria e l'Iran. Dovrebbe essere l'Unione Europea, non la Siria o l'Iran, il miglior tutore del Libano e il più efficace garante della sua stabilità. Parlare con Hezbollah, dopo quanto è accaduto nelle scorse settimane, può essere, oltre che necessario, utile.
( 2/continua)
Le cause remote della guerra civile libanese furono i precari equilibri fra le diciotto comunità religiose installate da secoli in una stretta lingua di terra fra il Mediterraneo e la valle della Bekaa. Ma le cause vicine, quelle che dettero fuoco alla miccia nella primavera del 1975, furono l'arrivo nel Paese di parecchie migliaia di militanti palestinesi, cacciati dalla Giordania di re Hussein. In Libano, accolti in campi di fortuna, vivevano già altri palestinesi, fuggiaschi del 1948 e del 1967. Ma i nuovi arrivati avevano le armi, un'organizzazione militare e soprattutto l'intenzione di trasformare il Libano in una base strategica per le loro operazioni contro Israele. Erano quindi, virtualmente, uno Stato nello Stato. Non vi fu un colpo di pistola, come a Sarajevo, nell'estate del 1914. Ve ne furono molti, con la loro inevitabile coda di rabbia, lutti e vendette, sino al 13 aprile 1975 quando un autobus carico di palestinesi cadde sotto il fuoco incrociato delle Falangi cristiane a Beirut mentre attraversava il quartiere di Ain Al Rumanneh. I morti furono 27, i feriti 19: i primi di una sporca guerra che fece probabilmente quasi duecentomila vittime. La partenza delle milizie di Arafat, all'inizio degli anni Ottanta, non impedì che la guerra, ormai alimentata dalle interferenze straniere, continuasse sino al 1990. Ma la memoria del conflitto, nella coscienza dei libanesi, resta indissolubilmente legata al ricordo dei palestinesi che «invasero» a più riprese il territorio nazionale. Ve ne sono circa duecentocinquantamila, divisi fra una dozzina di campi che vengono amministrati da un'agenzia dell'Onu (Unrwa, United Nations Relief and Works Agency). Sono molto meno dei seicentomila che vivono in Siria e di quelli (più di un milione e mezzo) che vivono in Giordania, ma hanno meno diritti dei loro connazionali dispersi nella regione. Non possono acquisire la cittadinanza libanese. Non possono esercitare le libere professioni. Possono tutt'al più svolgere piccoli lavori manuali soprattutto in nero. Per cercare di comprendere quali siano le loro condizioni di vita ho visitato Shatila, il più famigerato dei campi, quello che fu teatro degli orrendi massacri del 1982.
Richard Cook, direttore dell'Unrwa per il Libano mi indica il campo dalle finestre del suo ufficio e più tardi, lungo il percorso, il luogo dove, secondo i cronisti dell'epoca, le forze armate israeliane installarono i riflettori che avrebbero illuminato Shatila durante il micidiale raid delle milizie cristiane. Mentre ci infiliamo in minuscoli vicoli, sgambettando fra pozze d'acqua e occasionali pezzi di selciato, Cook mi spiega che il campo dovrebbe alloggiare tremila persone e comporsi di casupole o baracche di un solo piano. Ma nessuno poté evitare che le casupole, con il passare degli anni, venissero costruite in cemento, che i piani divenissero cinque o sei e che il numero degli abitanti, sullo stesso spazio fornito a suo tempo dalle autorità palestinesi, salisse a circa 12.000. La parola «campo», del resto, è ormai del tutto impropria. Shatila è la caricatura grottesca di una città. Ha vie incredibilmente strette, piccolissimi slarghi, negozi angusti. Affacciandomi su una finestra a pian terreno vedo un muratore: sta alzando un muretto all'interno di una stanza che non supera i tre metri quadrati. Le case sono troppo vicine l'una all'altra perché i raggi del sole possano entrare a Shatila. La piccola fetta di cielo che s'intravede fra i tetti è quasi completamente nascosta da un fitto reticolato di cavi elettrici volanti e da bombole del gas, appoggiate su un terrazzino di fortuna. L'acqua si prende dagli idranti collegati alle tubature di Beirut, ma non è potabile. Dimenticavo: questi minigrattacieli non hanno fondamenta. Basterebbe una sola scossa di terremoto per trasformare Shatila in una tomba collettiva.
Grazie all'Unrwa le condizioni sanitarie, paradossalmente, sono migliori dell'immaginabile. L'agenzia raccoglie la spazzatura al mattino, distribuisce bottiglioni d'acqua potabile, assicura l'insegnamento scolastico e una certa assistenza sanitaria, aiuta le famiglie più bisognose e organizza corsi di family planning per controllare nei limiti del possibile l'aumento della natalità.
Cook mi spiega che le malattie infettive (tifo, colera, antrace) sono rare e che il rischio delle epidemie è modesto. Ma l'aria cattiva, l'umidità, la mancanza di luce e la cattiva alimentazione rendono gli abitanti di Shatila molto più vulnerabili alle malattie «ordinarie», dal diabete al cancro, dalla tubercolosi all'Aids. I bambini sono belli, vivaci, curiosi e, a giudicare dai risultati scolastici, eccezionalmente intelligenti. Ma gli adulti che ammazzano il tempo fumando neghittosamente il narghilé all'angolo di una casa sono quegli stessi bambini venti o trent'anni dopo. La stretta al cuore con cui il visitatore esce da Shatila è il pensiero del loro futuro. È possibile gestire indefinitamente l'orrore con i criteri dell'ordinaria amministrazione? Ne ho parlato a lungo con due persone che dedicano a questo problema buona parte delle loro giornate: Abbas Zaki, rappresentante a Beirut dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e l'ambasciatore Khalil Makkawi, presidente del Comitato di dialogo israelo-libanese.
Zaki sa che il Libano non ha dimenticato il ruolo dei palestinesi nella guerra civile e non può ignorare che la loro integrazione nella società nazionale sconvolgerebbe il delicato equilibrio cristiano-sunnita-sciita. E sa infine che la questione palestinese si è bruscamente riaperta nel 2007 quando poche centinaia di militanti di una misteriosa organizzazione islamista, Fatah Al Islam, si sono impadroniti del campo di Nahr el Bared, nel nord del Libano, hanno rapinato una banca, hanno ucciso 179 soldati libanesi e ne hanno brutalmente massacrati trenta. In quei mesi cruciali, mentre il generale Michel Suleiman, oggi presidente della Repubblica, bombardava il campo di Nahr el Bared, Zaki ha temuto di ricadere nel vortice degli anni in cui i suoi connazionali erano considerati una minaccia all'integrità e alla stabilità del Paese. Per esorcizzare il passato ha diffuso nel gennaio del 2008 una dichiarazione in cui è detto tra l'altro che i palestinesi in Libano debbono sottomettersi all'autorità dello Stato e che l'Olp s'impegna a rispettarne la sovranità.
Ma è preoccupato. Nelle vicenda di Fatal Al Islam, il rappresentante dell'Olp vede interferenze straniere, forse siriane, e la mano di chi vorrebbe seminare zizzania nella regione. Nei confusi negoziati diplomatici delle ultime settimane fra Israele e la Siria, invece, vede il rischio che la questione palestinese finisca su un binario morto. E non può dimenticare, suppongo, che i campi sono focolai di rabbia, vivai di possibili reclutamenti. Sui muri di Shatila non ho visto le fotografie di Arafat e Mahmoud Abbas. Ho visto quelle dei «martiri » che combattono contro Israele nella Striscia di Gaza.
Khalil Makkawi è un vecchio diplomatico, esperto, affabile, intelligente, già rappresentante del suo Paese a Roma e vice presidente dell'Assemblea delle Nazioni Unite. È copresidente con Zaki del Comitato per il dialogo libano- palestinese da quando il governo di Fouad Siniora, nel 2006, volle dimostrare che il Libano non aveva dimenticato i suoi sventurati «ospiti». Ma la sua maggiore preoccupazione in questo momento è il loro presente, non il loro futuro. Mi ha mostrato i progetti per la ricostruzione del campo di Nahr Al Bahr, spiegati sulle pareti del suo ufficio come nello studio di un architetto, e mi ha parlato della conferenza dei donatori che avrebbe dovuto tenersi a Vienna qualche giorno dopo per trovare il denaro necessario alla ricostruzione. Non basta. Si rende conto che occorre dare ai palestinesi il permesso di lavorare e non esclude che il parlamento libanese, più tardi, possa autorizzarli con una legge speciale all'esercizio delle professioni. Ma per il momento anche Khalil Makkawi, come il direttore dell'Unrwa, deve limitarsi ad amministrare l'esistente e a correggere per quanto possibile gli aspetti più inumani della vicenda.
I rifugiati palestinesi in Libano sono la più piccola delle tre comunità insediate nella regione. Ma la natura del Libano rende la loro integrazione molto più difficile di quanto sia quella dei palestinesi in Siria e in Giordania. Dimenticando per un momento le obiettive difficoltà politiche, l'osservatore straniero non può fare a meno di ricordare che i coloni israeliani nei territori occupati sono oggi circa 400.000 mila. Se si è trovato lo spazio per i loro insediamenti perché non potrebbe esservi spazio, un giorno, anche per i 250.000 palestinesi del Libano? Separare la loro sorte da quella dei compatrioti più stabilmente alloggiati in altri Paesi potrebbero essere un segnale di buon senso, oltre che di umanità.
(3/fine)

8. «Due pesi due misure». - Andando al link si trova un nuovo ennesimo attacco a Sergio Romano, che con la consueta lucidità mette in relazione i recenti fatti della Georgia con l’attacco israeliano al Libano, dove a fronte di una singola incursione di Hezbollah vi fu una “spropositata” reazione di Israele. Allora gli USA coprirono Israele in sede ONU, dove non fu possibile adottare una nuova risoluzione di condanna di Israele. A fronte di questa evidenza i «Corretti Informatori» tirano fuori il solito luogo comune della “distruzione di Israele” quale argomento risolutivo.

9. La natura del “Corretti Informatori”. – Andando al link il Lettore di questo blog può confrontare la supponenza, la presunzione, la partigianeria del commento e le limpide e razionali argomentazioni di Sergio Romano. Vi è poco da aggiungere. Basta leggere i due testi per ricavare netta la sensazione di una supina trasposizione di temi propagandistici propri del servizi israeliani o filoisraeliani. Oltre un certo livello possiamo solo congetturare cosa determini tanto ottusità negli Eletti Commentatori. Al momento in cui scriviamo queste righe, il 13 settembre de 2008, il quadro geopolitico internazionale sembra mutato. Mentre radio Bordin annunciava come imminente un attacco degli USA-israeliano all’Iran, è scoppiato invece il pasticcio georgiano, dove si scopre che vi era lo zampino di Israele. Stati dell’America Latina hanno ritirato i loro ambasciatori dagli Usa. La Russia sembra essersi ridestata e non voler stare ad un gioco che gli USA si erano fin troppo abituati a condurre indisturbati. In questo quadro è più facile riconoscere come in Medio Oriente il problema sia costituito non dall’Iran, ma proprio da Israele, che sarà pure uno stato democratico, se si vuole, giacché si vota ed esiste la classica tripartizione dei poteri, ma ma ciò non impedisce che un simile stato sia fondato sull'apartheid e che alla sua nascita si trovi una pulizia etnica, la Nakba, che per gli arabi non ha minore portata identitaria della Shoa.

10. Non “corretta” ma semplicemente oggettiva. – Nel loro afflato pontificale di possessori delle sante ragioni di Israele i “Corrett Informatori” non sanno distinguere una ricostruzione storica obiettiva, per giunta da parte di un testimone oculare e persino protagonista dei fatti che racconta, da quei criteri di “correttezza” che sono gli abituali metri di giudizio con i quali si divide il mondo e la storia a seconda che giovi o non giovi a Israele. Mentre si pretende di giudicare e bollare i pregiudizi altrui non si vedono i propri che assumono la forma di un vero e proprio razzismo, dove la razza discriminata è il mondo intero colpevole di non essere sionista e filoisraeliano. Poveri noi, hanno plagiato pure Berlusconi che ogni tanto ne spara qualcuna delle sue.

11. Una strana campagna di diffamazione. – Ho trattato nelle schede su Dimitri Buffa e Arturo Diaconale una odierna “lettera aperta” a Sergio Romano, dove Dimitri Buffa pensa di infangare la figura di Sergio Romano tirando fuori la storia secondo cui essendo l’ambasciatore nella redazione o direzione di una rivista ENI, che per la verità non conosco e di cui poco mi curo, verrebbe condizionati nei suoi giudizi di politica estera dallo stesso ENI. So di Sergio Romano che collabora o dirige innumerevoli riviste, collane editoriali e è presente in ogni dove nel mondo dell’editoria. Ne so qualcosa per vie indirette. Mi sembra assurdo che il suo giudizio possa essere condizionato magari da diversi editori che potrebbero avere anche vedute e interessi contrapposti. Inoltre, nella sua splendida carriera Sergio Romano ha alle spalle anche una esperienza di diplomatico di professione. Se non è lui in grado di fornire analisi di politica estera, dubito che possa farla un Dimitri Buffa o un Arturo Diaconale, che può stampare il suo foglio fantasma solo grazie ai soldi dei contribuenti, che di certo non sono responsabili delle eneormità che pubblica. È certamente insensato questo attacco. È solo da chiedersi se è l’iniziativa isolata di una mente balzana o vi sia dietro un qualche disegno organico. Non riesco a darmi una risposta e non ho nessun rapporto personale con Sergio Romano, che conosco solo di fama e per i suoi scritti che apprezzo.

12. Domande provocatorie sulla tortura. – Magistrale come sempre l’ambasciatore Romano non nell’eludere le domande ma nello smontare le insidie dialettiche e la malafede altrui. La tortura è in effetti ampiamente praticata oggi in Israele e negli USA. Ciò che la propaganda pretende è la copertura politica e morale nel soffocamento di ogni forma di resistenza, in pratica l’autorizzazione preventiva al genocidio, esito finale di una guerra ingiusta nei suoi fondamenti, nei suoi metodi, nei suoi obiettivi. Chiaramente, Sergio Romano non era tenuto a pubblicare la lettera. Ma lo ha fatto, rispondendo ai problemi posti, ignorando gli attacchi velatamente personali.

13. Numeri contesi e “negati”. – Ci interessa qui evidenziare una delle cause di cui si nutre la persecuzione penale di ricostruzioni riguardanti già il numero delle vittime. Da una Lettrice di Sergio Romano, costantamente attaccato dal gruppo di propaganda sionista operante in Italia intorno alla testata “Informazione Corretta”, viene messo il dito nella piaga. Il dato è qui costituito da non so quale ricerca storica che riduce il numero dei morti di Dresda da 250.000 a 18.000. Naturalmente, se ciò corrisponde a verità, ne sono ben lieto. Ho qualche sospetto, ma non è questo il punto. È che se la stessa operazione viene condotta per i morti di Auschwitz o della Shoa, lo storico revisionista che osi tanto, rischia una condanna penale fino a cinque anni. Dunque, non vi è qui barbarie per una legislazione penale che in vari paesi colpisce il cosiddetto “negazionismo”, ma una barbarie aggiuntiva nel trattare penalmente in modo differenziato e discriminatorio uno stesso fatto. Anzi nell’un tipo di “revisionismo” e “negazionismo” non vi è nessuna sanzione penale. Nell’altro caso, ma per un fatto metodologicamente identico, vi sono pene pesantissime ed il bando civile.

La questione toccata è centrale ed i testi meritano di essere riportati integralmente. Intanto le due lettere alle quali Sergio Romano risponde:
Ho letto l'articolo che tratta la questione dei bombardamenti anglo-americani di Dresda del febbraio '45. Dunque, i morti civili non sarebbero più 250 mila ma 18 mila. Se anche fosse vero (cosa di cui, personalmente, dubito), per 60 anni nessuno storico si sarebbe accorto del «leggero divario» delle cifre?
Antonio Serena
ant_ser@libero.it
Ho visto che sono state riviste le cifre sui morti del bombardamento di Dresda del '45, passati da 250 mila a 18 mila. Ma non è revisionismo storico anche questo? Oppure solo questo è lecito?
Annamaria Serena
annamariaserena@ hotmail.com
Segue quindi la risposta di Sergio Romano che riguarda non elusivamente una questione generale che tocca tutti i conteggi dei morti nelle guerre del Novecento. Nella parte finale che fa perdere la tramonatana a “Corretti Informatori” si tocca la questione Israele.
Cari lettori,

Il conto delle vittime del Ventesimo secolo è uno dei più complicati esercizi a cui storici e statistici si siano dedicati nel corso degli ultimi anni. Due guerre mondiali, una lunga sequenza di guerre civili, alcuni genocidi, fenomeni di repressione su grande scala, migliaia di campi di concentramento e milioni di persone espulse dalle regioni in cui abitavano, hanno formato oggetto di studi e ricerche non sempre impeccabilmente scientifici. Per consentirci di valutare l'attendibilità di un calcolo, lo scrittore di storia del Novecento dovrebbe dire ai lettori con precisione quali siano i confini concettuali dell'evento preso in considerazione, quale sia esattamente il periodo esaminato e quali siano le cause di morte che giustificano la definizione di vittima. Non è facile separare i morti russi della Grande guerra da quelli della rivoluzione bolscevica. Non è facile distinguere i caduti di una guerra civile da quelli che dovettero soccombere ai disagi, alle privazioni, alle carestie, alle epidemie. Non è sempre facile stabilire se la mortalità dei bambini e dei vecchi durante un conflitto debba essere interamente attribuita all'avvenimento o considerata, almeno in parte, naturale. L'autore, anche se libero da motivazioni ideologiche, cede molto spesso alla retorica dell'«arrotondamento» e dichiara la cifra che maggiormente corrisponde alla sua tesi o alle sue personali emozioni.
Esistono tuttavia siti in cui vengono diligentemente comparati i diversi calcoli e ogni cifra è seguita dal nome dello storico che l'ha adottata. Risulta così che l'avvenimento su cui sembra esservi una maggiore convergenza di vedute è la Prima guerra mondiale: 15 milioni di morti di cui 8 milioni e mezzo di militari. Ma anche in questo caso vi sono, a seconda dell'autore, alcune discrepanze. I morti delle forze armate italiane, per esempio, vanno da 460.000 a 600.00. I calcoli diventano molto più difficili quando occorre misurare le vittime del comunismo in Urss e in Cina, della Seconda guerra mondiale, dei molti genocidi o «democidi» (un neologismo di cui il redattore del sito si serve per definire i massacri di minoranze) e delle brutali espulsioni in massa da territori occupati o annessi. Tutti sono più meno d'accordo sul fatto che la Seconda guerra mondiale abbia provocato 50 milioni di morti. Ma esistono variazioni che dipendono spesso dai metodi di calcolo. Per il genocidio ebraico, ad esempio, le cifre vanno da circa quattro milioni e duecentomila nel 1953, a 4.800.000 verso la fine degli anni Settanta e ai 6 milioni comunemente citati più recentemente. Ma la differenza è spiegata in parte dal fatto che la cifra maggiore include probabilmente anche gli ebrei morti nei ghetti di stenti e malattie (circa 800.000).
Alla difficoltà dei calcoli si è aggiunto l'uso strumentale dei numeri, soprattutto nell'ultimo decennio. L'importanza crescente del genocidio ebraico nel dibattito pubblico e il modo in cui è stato evocato per giustificare la politica israeliana nella questione palestinese, hanno creato una sorta di corsa alla memoria in cui molti gruppi nazionali, etnici o religiosi hanno rivendicato il diritto di essere riconosciuti e rispettati. È questa la ragione per cui le cifre si sono gradualmente gonfiate. Bisognerebbe correggere le esagerazioni e ridimensionare i numeri, ma chiunque osi togliere qualche zero rischia di passare per negazionista, e la formula più diplomaticamente sicura, quindi, è quella di accettare che ogni gruppo fissi unilateralmente la cifra dei propri morti. Ecco perché la ricerca degli storici tedeschi sulle vittime di Dresda, di cui ha parlato Danilo Taino sul Corriere, mi sembra uno straordinario esempio di correttezza, imparzialità e buon senso. Speriamo che altri, d'ora in poi, cerchino di imitarlo.
Riportiamo di seguito anche il “vomitevole” commento dei Corretti Vomitanti:
Sergio Romano risponde oggi , 12/10/2008, a pag. 33,sul CORRIERE della SERA a due lettori che si interrogano sul numero delle vittime del '900. Esaminiamo la sua risposta
[Voi non esaminate un bel nulla. Vi limitate a fare propaganda, come sempre del resto.]
per quanto riguarda lo sterminio degli ebrei, che poi è la parte centrale della sua risposta.
[Ma non disgiungibile dal suo contesto, che sottende un ben diverso e più grave problema che nella vostra abituale disonestà intellettuale ben vi guardare dall‘«esaminare»: come è possibile che sia lecito ridurre i morti di Dresda da 250.000 a 18.000, mentre se si toccano quelli della Shoà ci si beccano in Germania fino a 5 anni di carcere? È questo il problema da voi vomitevolmente eluso!]
Romano fornisce cifre contradditorie, a seconda del tempo in cui furono formulate. Ma questo è falsificare la storia, in quanto la cifra di 6 milioni è documentata, come può constatare qualunque persona in buona fede che consulti gli archivi di Yad Vashem a Gerusalemme.
[E che ha di speciale l’archivio dello Yad Vashem? Per quanto ne so, e non mi interessa saperne più di tanto, i dato numerico sui morti ebrei è quello più contestabile e indifendibile. E perché mai una libera ricerca sulla verità numerica e fattuale di tutta la faccenda deve essere preclusa da norme penali? Come può fare il suo lavoro uno storico se sa che pena la prigione i morti devono essere 6.000.000? Non uno di meno, ma possibilmente qualche milioncino in più!]
Romano fa poi una distinzione tra eliminazione per uccisione e morte nei ghetti per "stenti e malattie",
[E perché? Non si muore anche di stenti e malattie? Se nel 1945-45 in ogni parte d’Europa si pativa la fame e magari vi era anche chi moriva di fame, cosa ci dovrebbe far pensare che i campi di concentramento ed i luoghi di prigionia fossero degli alberghi a quattro stelle con sauna e piscina?]
una differenza che soltanto una mente cinica
[solo una mente atta a suscitare “vomito” può pensare di speculare sulle tragedie umane. Un certo Finkelstein, un ebreo di quelli che odiano loro stessi, ha descritto una simile umanità nel suo libro l’«Industria dell’Olocausto». Se esistono profittatori simili, non è loro lecito ostentare nessuna superiorità morale nei confronti del loro prossimo]
può elaborare, inaccettabile da chiunque abbia una conoscenza anche superficiale di cosa sono stati ghetti e campi di sterminio.
[Quelli che ne hanno una qualche conoscenza sono abitualmente mandati in galera. Dunque, una conoscenza che è meglio non acquisire, rebus sic stantibus]
Non poteva mancare, per delegittimare la tremenda realtà della Shoà,
[Come si può delegittimare quello che dovrebbe essere un dato di conoscenza liberamente verificabile e documentabile? La conoscenza e la ricerca si autolegittimano. Una verità che è imposta per legge diventa una verità sospetta e si delegittima da sola.]
il richiamo alla tesi, rivoltante, che il genocidio del popolo ebraico da parte del nazismo, serva a coprire la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
[Tutto l’insediamento coloniale in Palestina, anche a costo di un genocidio e di una pulizia etnica in nulla inferiore a quelle attribuite ai nazisti, è motivato come una sorta di risarcimento a danno di terzi, cioè i palestinesi. Giustamente, Ahmadinejad ha denunciato l’assurdità e la palese ingiustizia di un simile risarcimento]
Visto l'argomento, è lecito affermare che Romano in questa risposta, che si legge provando un senso di vomito, sta dando veramente i numeri.
[I numeri sono stati dati e sono quelli sopra riportati e non sono stati rilevati dallo stesso Romano ma da altri che presumono di saper fare il loro mestiere di storici, forse più di quanto i Corretti Informatori non sappiano fare un ben diverso e meno onorevole mestiere. Il “vomito” è probabilmente suscitato da chi incautamente lo evoca]
Sarebbe per noi forse ora di occuparci di così vomitevoli personaggi, ma ormai consideriamo il nostro una sorta di servizio pubblico. Manderemo il nostro commento ai soggetti citati, ma certamente non ai «Corretti Informatori», essendo troppo forte il nostro senso di repulsione fisica e morale.

14. Chi ci capisce è bravo. – Non vi è dubbio che Sergio Romano è il più di frequente attaccato fra tutti i personaggi presi di mira dagli squadristi virtuali di «Informazione Corretta», il cui gruppo è individuabile oltre che nella personaggi del fondatore Pezzana, anche nei nomi di chi figurano nella gerenza oltre che i collaboratori occasionali. Questa volta l’occasione è data da una rivolta degli storici scoppiata in Francia, ma estesa a tutti gli storici d’Europa: Liberté pour l’histoire, che noi di «Civium Libertas» seguiremo con la massima attenzione. Fra gli italiani figura la pronta adesione di Sergio Romano che così si esprime in un breve trafiletto apparso sul “Corriere della Sera” del 23 ottobre 2008, pag. 45:
«Vorrei ricordare — dice lo storico ed editorialista del «Corriere» Sergio Romano, tra i firmatari dell'appello per la libertà della ricerca — che Pierre Nora, il promotore del documento, è uno studioso di origini ebraiche autore di libri sui luoghi della memoria. Una cosa però è scrivere sul monumento a Giovanna d'Arco spontaneamente, un'altra farlo per legge. Tutto è cominciato quando, anche per difendere lo Stato di Israele, è stato affermato che il genocidio ebraico è il fatto più importante del Novecento. La richiesta di un giorno della memoria per ricordare la Shoah ha innescato un processo rivendicativo da parte di altri popoli perseguitati, come gli armeni. Le prime generazioni, nel dopoguerra, hanno scelto la rimozione. Il movimento per le leggi memoriali è partito dalle seconde generazioni. Oggi tuttavia ho l'impressione che siamo in una fase di riflusso».
Cosa oppongono i corretti squadristi, in permanente occupazione a spiare , criminalizzare e colpire il pensiero altrui? Il seguente testo demenziale da cui è difficile trarre un senso compiuto:
Di seguito l'ennesimo attacco
[Sergio Romano dice ciò che pensa. La forma dell’attacco è desunta dai vigilantese di IC. Evidentemente chi ha la coscienza sporca si sente attaccato ad ogni stormir di fronde.]
a Israele di Sergio Romano, che sembra voler dimenticare
[Sergio Romano dimentica nulla, ma dice semplicemente che “la richiesta di un giorno della memoria per ricordare la Shoa” ha comprensibilmente “innescato un processo rivendicativo” dove ognuno ci mette il suo. Paradossalmente è proprio questo “processo rivendicato” che consente oggi ad uno storico ebreo come Pierre Nora di scoprire l’assurdità controproducente della richiesta iniziale, che tuttavia non era priva di una sua logica politica benché incompatibile con i principi della libertà di pensiero e di ricerca, sanciti nella nostra costituzione dagli articoli 21 e 33 nonché menzionati in tutte le carte costituzionali e le dichiarazioni universali come diritti fondamentali dell’uomo]
che l'appello degli storici riguarda anche l'imposizione politica di una memoria precostituita circa eventi storici come il massacro degli armeni, la carestia ucraina e la tratta degli schiavi dall'Africa.

Per Romano il dibattito apertosi su Le Monde sembrerebbe essere soltanto un pretesto
[Se esiste uno specifico problema, ed esiste, ad affrontarlo dovranno essere non gli storici, ma quei politici che per ben inviduabili motivi hanno varato leggi contrarie ai principi fondamentali di libertà. Non si può chiedere agli storici degni di questo nome di diventare agenti propagandistici al soldo di Israele. Bastano allo scopo i «Corretti Informatori»]
per riproporre l'accusa di strumentalizzazione della Shoah per giustificare la politica (e forse l'esistenza) di Israele.
[Se qualcuno volesse sostenere la tesu menzionata deve poterne avere la libertà, trattandosi di una pura opinione, più o meno ampiamente argomentabile. Fra i sostenitori di questa tesi figura un altro ebreo di nome Norman G. Finkelstein. I «Corretti Informatori» dovrebbero dimostare di saper sostenere un contradditorio su queste tesi anziché ricorrere alla pratica della diffamazione, denigrazione, delazione, cioè ad una forma di squadrismo mediatico, come ha giustamente rilevato Piergiorgio Odifreddi in un paio di righe apparse marginalmente in un articolo su “La Repubblica”. Sono bastate due righe per far incendiare tutto il sistema rabbinico italiano.]
In realtà, il diritto all'esistenza e all'autodifesa di Israele non si fondano sulla memoria della Shoah, ma soltanto sul dovere morale di applicare agli ebrei gli stessi criteri di giudizio applicati agli altri popoli, senza introdurre ingiusti "doppi standard".
[Petizione di principio. Resta da spiegare come il diritto menzionato possa fondarsi sulla Nakba, sulla pulizia etnica, sul diritto preistorico di conquista e occupazione coloniale, sull’apartheid, sul razzismo nella forma sionista, e così via. Ma i «Corretti Informatori» che si riempiono la bocca con parole svuotate di senso senza spiegare, ad esempio, di quale “autodifesa” può parlarsi di fronte a chi rivendica la casa ed il villaggio dal quale è stato scacciato o che resiste ad ogni nuovo insediamento coloniale, regolarmente condannato dall’Onu e da tutte le organizzazioni umanitarie. È un prendere per i fondelli non si sa bene chi. Certamente, esiste il problema di cosa farne dei prepotenti e degli occupanti, ma le soluzioni devono essere ricercate sentendo innanzitutto le vittime sopravvissute, non eliminando i superstiti, magari con la copertura dei servili governi europei.]
Gli ebrei hanno diritto a uno Stato come gli altri popoli,
[gli ebrei non hanno nessun diritto di cacciare altri popoli dalle loro case e dai loro villaggi: un simile diritto non è riconosciuto a nessuno e quando ciò si verifica è violenza allo stato puro, cosa che purtroppo nella storia si verifica spesso e continua a verificarsi: la fondazione dello stato di Israele ne è un vistoso esempio. Inoltre. è ancora un ebreo a identità non olocaustica, Shlomo Sand, a spiegare e svelare storicamente che in realtà un “popolo ebreo” non è mai esistito, è una pura invenzione ed i coloni sbarcati in Palestina negli ultimi cento anni altro non sono che una banda di avventurieri provenienti da ogni parte del mondo. Hanno pensato di poter fare con i palestinesi ciò che gli statunitensi hanno fatto con gli indiani. Ma siamo ormai fuori tempo ed è proprio Norimberga che non lo consente più, salvo a non voler adottare un “doppio standard”, consentendo agli ebei sionisti di fare ai palestinesi quelle stesse cose fatte dai nazisti agli ebrei e per le quali i nazisti sono condannati senza appello.]
e come gli altri popoli hanno diritto a difendersi dalle aggressioni.
[Le uniche aggressioni di cui possa propriamennte parlarsi sono quelle fatte da coloni israeliani o sionisti ai danni di pacifci residenti palestinesi che hanno tutto il diritto di reagire e difendersi: non cambiamo le carte in tavola! Tipico linguaggio da prepotenti: aggrediscono e dicono di essere stati aggrediti. Veramente disgutoso e irritante.]
Chi afferma questo non sta strumentalizzando la memoria storica. Non ne ha per altro alcun bisogno, perché si sta semplicemente rifacendo a principi universali.
[Quali? Quelli della prepotenza, del diritto del più forte, del’inganno, della frode, dello sterminio dissimulato con l’ipocrisia e il vittimismo. Bisogna vedere chi è disposto a berla, accettando giustificazioni che non reggono all’evidenza.]
Ciò che si può desumere è: isteria, smarrimento, demenza. È confortante il giudizio di Sergio Romano che ormai l’impostazione memorialistica ed olocaustica sarebbe in una fase di “riflusso”. Io non ho altro strumento di verifica che il mio giudizio. Io non sono certamente disponibile ad accettare le impostazioni ideologiche pur propagandate ed imposte da leggi e ricorrenze di ogni genere, ma mi è difficile valutarne l’impatto e l’incidenza. Plauso comunque ad iniziative come quella di Nora e per quel che posso e può valere mi associo, dando pieno sostegno in una comune lotta per la libertà, il diritto, la civiltà.

15. Cosa era il Baath. – Sergio Romano lo spiega bene e non sembra vi sia nulla di scandaloso. Ma i «Corretti Informatori» hanno stabilito che il partito Baath era il partito nazista. E vi è poco da contraddire. In tutti i modi i «Corretti Informatori» tentano di attaccare a Sergio Romano orecchie di asino che sono tutte loro. Il fatto descritto a proposito del Texas, non avendo adesso nessuna voglia di tirare fuori qualche manuale di storia dagli scaffali, può essere un “lapsus”, ma ne dubito, oppure un’interpretazione storica. In entrambi i casi il prestigio di Sergio Romano resta intatto ed è a una distanza siderale da quello di cui possono vantare i sionisti piemontesi. Se poi si tratta di raccogliere gli errori marchiani dei «Corretti Informatori» la lista è lunghissima. In ultimo, ad esempio, l’attribuzione a Miguel D’Escoto della patente di “scomunicato” mentre sarebbe solamente sospeso “a divinis” in ragione del suo impegno politico. Ai «Corretti Informatori» non pareva vero di poter coprire d’infamia un sacerdote cattolico reo, presidente dell’Assemblea ONU e reo in quella sede di aver abbracciato Ahmadinejad. Quanto poi a lapsus, per il quale nessuno ha infierito o ha goduto come sanno godere in Torino, cosa di più divertente di quello di Amos Luzzatto che colloca la voglia di esistere di Israele ancor prima del 1942, anno della sua fondazione? Abbiamo già altrove fustigato la bassezza morale e intellettuale dei «Corretti Informatori».

16. Su Gheddafi e Craxi una limpida pagina di storia. – L’ambasciatore Romano ricostruisce da par suo le notizie che abbiamo appreso sui giornali di quando Craxi salvà Gheddafi da un attacco omicida degli Usa. La narrazione è limpida e persuasiva come sempre, ma come sempre ciò fa imbestialire i «Corretti Informatori» fino a provocarne la... «nausea». Questi sono gli uomini!

17. Un articolo assai istruttivo e lettori assai stupidi. – A fronte di una lettura avvincente ed istruttiva l’unica reazione degli Ottusi Informatori è la solita solfa del terrorismo, che è in fondo – come si legge in Paye – una creazione tutta americana. Basta che gli americani dicano a chiunque che è un “terrorista” perché ci si debba adeguare.

18. Il loro attacco quotidiano. – Non vi è dubbio che contro Sergio Romano l’intero sionismo italiano da anni ha scatenato una vera e propria guerra. Se fossimo in Israele, ci si potrebbero aspettare tragiche conseguenze. Dopo la lettura della Lettera ad un amico ebreo l‘ambasciatore ci sembra addirittura una persona assai moderata. Ma questo non basta davanti al fanatismo ottuso dei suoi denigratori.

1 commento:

Unknown ha detto...

Quanto alla "ignoranza" di Romano sul Texas basta wikipedia:
nel '36 gli indipendentisti anglo-sassoni texani sconfiggono l'esercito messicano e ottengono un trattato di pace o non belligeranza. Tuttavia, mentre gli USA riconoscono la neonata repubblica, il Messico si rifiuta.
E infatti attacca il Texas nel '42. I Texani respingono l'attacco ma si spaventano e chiedono di entrare nell'unione nordamericana.
Ovviamente *non* sono ancora statunitensi ma autoproclamata Repubblica Indipendente del Texas.
Gli USA non sono molto convinti e nicchiano su questa richiesta di adesione per tre anni.
Poi calcolano che accettando il Texas possono legittimare una contesa territoriale col Messico.

Infatti nel '45 (lo spartiacque citato da Romano) accettano il Texas come stato dell'Unione, e subito rivendicano *ALTRE* decine di migliaia di metri quadrati di territorio messicano (spostandone unilateralmente e arbitrariamente il confine al famoso "Rio Grande"). In più chiedono al Messico risarcimento danni per le guerre fatte al Texas (quando non era ancora USA).
Nel 46 scoppia la guerra che porterà a una mostruosa acquisizione di territori (california, utah, nevada, completamento di Colorado, Arizona, new Mexico, Wyoming).

Morale: nel '45 gli Stati Uniti incorporano nell'unione uno stato che insiste manu militari su territori messicani e ne raddoppiano l'estensione, e subito dopo la data spartiacque di Romano fanno una blitzkrieg con bottino di quasi un milione di metri quadri.

Si può anche deliberare di non chiamare tutto ciò "sottrazione del Texas al Messico".
Ma a me pare che Romano (nella stringatezza necessaria a un accenno all'interno di un articolo di amplissimo respiro storico) abbia individuato correttamente la data cardine e abbia anche "ingentilito" notevolmente la sottrazione di territorio compiuta dagli USA limitandola al solo Texas.

Anche formalmente-diplomaticamente è ineccepibile: prima del '45 il Texas non era stato accettato nell'unione. Quindi gli USA non l'avevano sottratto al Messico. Punto.
E le altre acquisizioni ai danni del Messico che non siano il Texas avvengono dopo il '46 e quindi, anche se si tratta in realtà della stessa contesa ed è facile confondersi, Romano "butta lì" in una frasetta di poche battute un dato che è esattissimo sia temporalmente che territorialmente.

Avercene di più che sanno essere stringati e precisi come lui...