NON INDURRE IN TENTAZIONE…
Presupposto delle
quali è la pretesa lesione del diritto di uguaglianza, che avrebbe provocato o
comunque incentivato il malaffare dei politici. Questo è difficilmente perseguibile
perché la giustizia “politica” – cioè con oggetto e/o soggetto politico - è
(per sua natura) derogatoria sia delle competenze che delle procedure ordinarie,
onde le deroghe apparivano (e sono viste) come vulnera del principio d’uguaglianza dei cittadini. I quali così,
anche ai fini penali, sono distinti in governati e governanti: i primi soggetti
alla legge, i secondi alle di essa “eccezioni”. A cui si aggiunge anche la
lesione dei principi dello “Stato di diritto”.
Non è così: sin
dai primi teorici (e dalle disposizioni delle costituzioni) degli Stati
borghesi – risulta che la giustizia politica non può che essere derogatoria di quella ordinaria.
Teodoro Klische de la Grange |
Il carattere
derogatorio è giustificato dai quei pensatori, sia dalla possibilità di
sottrarre i ministri a vendette politiche, sia ad applicazioni di norme senza
tener conto dell’interesse generale, sia all’indipendenza
superiore di organi speciali rispetto ai tribunali ordinari. Non s’immaginava
che gli organi giudiziari (ordinari) si trasformassero in soggetti politici, interloquenti e contrattanti con altri soggetti, politici a tutto tondo, come
parlamentari, leaders, componenti del
governo. E non solo per l’attività amministrativa
del CSM, come la nomina dei dirigenti degli uffici o la giustizia disciplinare.
Ma per la condanna o l’accusa giudiziaria di uomini di governo, cioè per la perversione del fine della giustizia,
strumentalizzato ai fini della lotta politica.
Ma per riuscire compiutamente a ciò occorre che l’esito
dell’azione giudiziaria intrapresa si traduca in risultato istituzionale: cioè nell’allontanamento/perdita delle cariche
rivestite del politico condannato.
E questa è la
prima tentazione alla perversione
della giustizia e del pari il punto di
frizione tra principi dello Stato borghese e principi di forma politica.
Perché se da una parte trattare diversamente chi è giudicato è lesivo dell’isonomia, rimuovere dall’incarico chi è
stato nominato dal potere politico - in
una democrazia dal popolo – è lesivo sia della distinzione dei poteri (cioè di
uno dei principi dello Stato borghese) che dell’essenza e supremazia del “politico”.
Come scrive Schmitt “la democrazia è una forma essenzialmente politica, mentre
la giurisdizione invece è essenzialmente non politica, poiché dipende dalla
legge generale… in uno Stato democratico il giudice è indipendente, se deve
essere un giudice e non uno strumento politico. Ma l’indipendenza dei giudici
non può mai essere qualcosa di diverso dall’altro aspetto della loro dipendenza
dalla legge”.
Proprio il
carattere derogatorio della giustizia politica serve a garantire sia la
distinzione dei poteri che la superiorità
del politico e l’indipendenza del giudice. Ma per far questo occorre che
sentenze e altri provvedimenti del
giudice non incidano sulle decisioni politiche (e democratiche), in particolare
sulle cariche elettive, e soprattutto degli organi
rappresentativi. Se l’organo competente a mantenere (o esautorare) un
eletto è un ufficio giurisdizionale (come nelle conseguenze alla legge
Severino) questo diventa (quanto agli effetti) un organo di direzione politica.
Come mi è capitato di scrivere tempo fa “Avendo il potere di carcerare chi
governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i
Tribunali e non i governati che li hanno eletti.
Per ovviare a
questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit,
riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse
continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.
A questa soluzione
Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a
ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo,
«in una cella della prigione della Santé»?
E il giurista
siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro
cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica,
nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di
responsabilità con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa)
di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia,
rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale,
che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o
indirettamente)” (v. Giudici e governo,
Italia e il mondo 19/02/2019).
Per questo incolpare
solo i giudici o solo il dr. Palamara della “perversione” è parziale
e…ingeneroso. La realtà è che, proprio a quel fine distorto, sono stati
predisposti da tempo gli strumenti adatti.
E i peccati di oggi sono le conseguenze di quelle tentazioni, predisposte proprio
al fine di farli commettere. In nome dell’uguaglianza e dello Stato di diritto,
per di più.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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