Francesco
Borgonovo,
La malattia del mondo, Milano 2020,
pp. 207, € 15,00
Questo libro è una
riflessione sulla pandemia da coronavirus, che dall’evento risale alle
condizioni ideali e materiali da cui è stato incentivato, in un’epoca in cui
eventi del genere, che hanno funestato l’umanità per millenni, sembravano
chiusi nell’archivio della storia. Archivio che a dispetto dei progressisti – e
purtroppo non solo loro – si è riaperto.
La pandemia è
stata frutto di due fattori fondamentali, ambo ideali: il primo è la ybris, il secondo è (la
pretesa/aspirata) assenza di limiti (non solo fisici) che caratterizzano il
pensiero della globalizzazione (e dei globalizzatori). Quanto alla prima scrive
l’autore, la ybris è “prima di tutto superamento del limite, del
confine. E se ci pensate, l’intera storia dell’epidemia di Covid-19
(esattamente come la storia della globalizzazione) è una faccenda di confini
varcati e limiti infranti”. Il limite infranto è quello della natura “Della natura noi uomini siamo, al massimo, i
custodi, come rivela il libro della Genesi. Quando veniamo meno al nostro
ruolo, o quando tentiamo di farci creatori sostituendoci al Creatore, allora
scateniamo l’epidemia, la pestilenza biblica”. Secondo gli scienziati il
Coronavirus è nato – come altri agenti patogeni – da uno spillover da un “salto” tra specie (da animali selvatici all’uomo).
Varcato il limite della specie è stato assai più agevole, dato il progresso
tecnico e la permeabilità delle frontiere, diffondersi nel pianeta a velocità
impressionante “Prigionieri come siamo
dell’ideologia della dismisura, non abbiamo saputo chiudere tempestivamente i
confini, non abbiamo voluto fermare il vortice della circolazione globale: la
malattia, dalla Cina, è approdata in Germania, e da lì è giunta in Italia. Poi,
il disastro. Quando il Covid-19 è calato nella nostra nazione, tutti i nostri
limiti sono tornati prepotentemente a galla: quelli delle nostre strutture
sanitarie, della nostra potenza industriale, della nostra indipendenza
economica… Il confine, il limite, le barriere salvifiche che avrebbero potuto
arginare l’avanzata del nemico occulto sono stati sbriciolati dal capitalismo
selvaggio e dall’ideologia che impone: nessuna frontiera”.
Ricordando quanto
scriveva Schmitt della contrapposizione tra terra e mare e le conseguenze che
comporta sull’ordine, sul diritto e sull’economia, Borgonovo sostiene che non
erra Zigmunt Bauman quando definisce la società post-moderna “società liquida”
contrapposta alla solida terra che fonda società basate sul limite (confine
delle proprietà, dei territori delle sintesi politiche, almeno di quelle
stanziali, ossia, nella modernità, tutte). Per espandersi la “società liquida”
necessita di superare se non di abolire i limiti.
Hegel lo aveva
notato per l’industria nel paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto: “come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè
il fondo e il terreno stabile, così per l’industria l’elemento naturale che la
anima verso l’esterno è il mare.
Nella
brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si
eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia
limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della
fluidità, del pericolo e del naufragio…”; il mare pertanto era l’ “ambiente” più
favorevole al commercio e all’industria. Ancor più quando, venuta meno la
scoperta di nuove terre (e mercati) l’espansione deve basarsi sull’abolizione
dei residui confini.
Il libro è colmo
di idee. Per restare nei limiti di una recensione, la sintesi – purtroppo limitata come tutte le sintesi – è che
la post-modernità si fonda sulla ybris,
ossia la superbia di superare i limiti della natura. Borgonovo ricorda come i
greci notassero ciò: Erodoto ed Omero, cui occorre aggiungere Sofocle, in
particolare nell’Antigone e nell’Edipo re. Come condanna della ybris come distruttrice dell’ordine
terreno e divino è particolarmente significativo il canto del coro nell’Edipo re “Possa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a
cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo
è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà:
un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni”. O nella
profezia di Tiresia a Creonte nell’Antigone,
nella quale l’indovino prevede la rovina del re per aver violato le leggi di
natura “questo non è un potere tuo, né
degli dei supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”. Indubbiamente
una civiltà come quella greco-romana che Spengler riteneva basarsi sul senso
del finito, cioè del limite è
particolarmente utile per capire la degenerazione faustiana della post-modernità.
La quale trova
la propria caratteristica fondamentale nel ritenere superabili realtà e leggi
naturali. Lo stesso comunismo reale,
rapidamente espanso e conclusosi, si fondava sull’illusione del giovane Marx di
cambiare la natura umana, mutando i rapporti di produzione; alla fine della
dittatura si sarebbe costruita la società comunista, senza comando né
obbedienza, pubblico e privato, amico e nemico. Cioè senza i presupposti del politico – le costanti che connotano ogni comunità politica umana.
Risultato smentito dalla breve storia del comunismo. Il quale si è retto solo
perché ha mantenuto anzi potenziato le costanti del politico nella dittatura
sovrana del partito. Cessata la fede nella quale è imploso. Nella
post-modernità questa ybris ha preso
altre forme, immaginato altri idola: tutti
accomunati dalla credenza di poter oltrepassare leggi e limiti naturali. Illusione
sempre smentita e fondante, come cantava Sofocle, nuove tirannie.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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