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Il libro è proprio “fresco di stampa”, anzi freschissimo. Ne ho avuto notizia grazie ad una segnalazione denigratoria dell’Hasbara torinese e per un solo giorno mi sono perso la presentazione che si è tenuta a Roma alla Galleria Colonna, forse alla presenza dell’autrice. Dico subito che non ho più la pazienza necessaria per leggere opere narrative come anche questo libro si presenta. Ma questa volta si tratta di un’eccezione in quanto mi occorreva un libro come quella di Suad Amiry, una architetto palestinese che si veste di abiti maschili, cerca di nascondere più che può le sue rotondità femminile e partecipa insieme ad un giovane che l’accompagna e percorre insieme con lui in uno scenario d’inferno un tratto assai limitato di strada in un tempo interminabile nella Cisgiordania occupata e costellata di insediamenti e di checkpoints o posti di blocco secondo la corretta traduzione italiana.
Mi giunge a proposito questo libro per poter corredare con un vissuto vero o verosimile la serie di post che ho iniziato per elencare e descrivere ognuno dei 500 posti di blocco nell’apartheid israeliano. Non credo che andrò mai in Palestina a vedere con i miei occhi ciò che lì succede ed è abilmente nascosto al mondo, forse un mondo ben disposto a non vedere, almeno per quanto riguarda i suoi uomini politici e di governo. E tuttavia la mia serie sui Checkpoints non può ridursi ad un arido elenco che verrebbe a nascondere la tragedia umana che rappresenta. Ecco dunque spiegate le ragioni per le quali mi sono precipatato a comprare il libro, approfittando di uno sconto su tutti i libri che scadeva proprio ieri.
Ne ho iniziato la lettura, dove alle prime pagine l’autrice rievoca la sua infanzia, quando già da bambina le piaceva indossare panni maschile e fare il maschietto. Adesso, da adulta di mezza età, le capita di dover nuovamente indossare panni maschili, ma non per andare a giocare. Bensì per compiere un viaggio esplorativo nel regime dell’apartheid e rendersi conto di persona, per poi poterlo raccontare nel libro. Non ero certo che avrei trovato nel libro ciò che cercavo e che di solito ottengo nella forma del saggio, con lo stile comunicativo che è proprio al linguaggio del vero rispetto a quello immaginifico del verosimile. Ma dopo poche pagine di avvio, finalmente trovo ciò che cerco e che combacia con i dati già acquisiti.
Alcuni giorni fa, dopo il seminario di Jeff Halper in Roma, ho partecipato anche ad una “testimonianza” più che conferenza organizzata a Roma da Terra Santa, cioè da Pilato. Fra i vari interventi ve ne è stato uno dove si raccontava come girare per la terra dell’apartheid senza una carta di identità poteva avere conseguenze tragiche. Da noi uscire di casa senza documenti è cosa di quasi nessuna importanza, ma in Israele terra dell’apartheid sulla Palestina occupata, di cui si cerca di cancellare e il nome e la memoria, è un’assoluta tragedia se si viene fermati da una pattuglia o si deve passare un posto di blocco. Nelle pagine del libro, il viaggio inizia con l’assicurazione che Suad nel suo ampio giubbotto mimetico ha in una delle tasche la necessaria carta d’identità, da lei collocata prudentemente in una tasca diversa da quella nella quale ha messo i soldi. Ed è qui che interrompo la mia lettura, per continuarla via via che proseguo nella serie di post sui checkpoints. Mi servirò di brani appropriati a mo di didascalia delle foto, rigorosamente autentiche, in cui si vedono scene di vita offesa ed umiliata ai posti di blocco israeliani, dove si vedono tante facce di ragazzini ebrei – tanti Shalit – che con terribili fucili umiliano la canizie di tanti palestinesi da sempre tenuti in condizione di prigionieri in casa loro. Dicono che è “sicurezza” e “autodifesa”. Certo, la sicurezza dei criminali e degli assassini che vogliono essere certi della loro impunità.
(segue)
Mi giunge a proposito questo libro per poter corredare con un vissuto vero o verosimile la serie di post che ho iniziato per elencare e descrivere ognuno dei 500 posti di blocco nell’apartheid israeliano. Non credo che andrò mai in Palestina a vedere con i miei occhi ciò che lì succede ed è abilmente nascosto al mondo, forse un mondo ben disposto a non vedere, almeno per quanto riguarda i suoi uomini politici e di governo. E tuttavia la mia serie sui Checkpoints non può ridursi ad un arido elenco che verrebbe a nascondere la tragedia umana che rappresenta. Ecco dunque spiegate le ragioni per le quali mi sono precipatato a comprare il libro, approfittando di uno sconto su tutti i libri che scadeva proprio ieri.
Ne ho iniziato la lettura, dove alle prime pagine l’autrice rievoca la sua infanzia, quando già da bambina le piaceva indossare panni maschile e fare il maschietto. Adesso, da adulta di mezza età, le capita di dover nuovamente indossare panni maschili, ma non per andare a giocare. Bensì per compiere un viaggio esplorativo nel regime dell’apartheid e rendersi conto di persona, per poi poterlo raccontare nel libro. Non ero certo che avrei trovato nel libro ciò che cercavo e che di solito ottengo nella forma del saggio, con lo stile comunicativo che è proprio al linguaggio del vero rispetto a quello immaginifico del verosimile. Ma dopo poche pagine di avvio, finalmente trovo ciò che cerco e che combacia con i dati già acquisiti.
Alcuni giorni fa, dopo il seminario di Jeff Halper in Roma, ho partecipato anche ad una “testimonianza” più che conferenza organizzata a Roma da Terra Santa, cioè da Pilato. Fra i vari interventi ve ne è stato uno dove si raccontava come girare per la terra dell’apartheid senza una carta di identità poteva avere conseguenze tragiche. Da noi uscire di casa senza documenti è cosa di quasi nessuna importanza, ma in Israele terra dell’apartheid sulla Palestina occupata, di cui si cerca di cancellare e il nome e la memoria, è un’assoluta tragedia se si viene fermati da una pattuglia o si deve passare un posto di blocco. Nelle pagine del libro, il viaggio inizia con l’assicurazione che Suad nel suo ampio giubbotto mimetico ha in una delle tasche la necessaria carta d’identità, da lei collocata prudentemente in una tasca diversa da quella nella quale ha messo i soldi. Ed è qui che interrompo la mia lettura, per continuarla via via che proseguo nella serie di post sui checkpoints. Mi servirò di brani appropriati a mo di didascalia delle foto, rigorosamente autentiche, in cui si vedono scene di vita offesa ed umiliata ai posti di blocco israeliani, dove si vedono tante facce di ragazzini ebrei – tanti Shalit – che con terribili fucili umiliano la canizie di tanti palestinesi da sempre tenuti in condizione di prigionieri in casa loro. Dicono che è “sicurezza” e “autodifesa”. Certo, la sicurezza dei criminali e degli assassini che vogliono essere certi della loro impunità.
(segue)
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