venerdì 9 ottobre 2009

Aspettando Martino note critiche sul cosiddetto antisemitismo

Vers. 1.4/12.10.09
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Credo di aver intuito la portata di una vasta operazione che l’uscita, il prossimo 15 ottobre, di un volume presso Laterza non è che un suo momento. È già sufficiente la fascetta editoriale e le recensioni che ne sono già uscite per comprende le tesi di fondo, invero alquanto semplici. La trattazione però è ampia ed articolata. Non mi coglie di sprovvista e non mi dispiace in quanto mi consente di aggiornare altri miei blogs tematici, trascurati a vantaggio di “Civium Libertas”. Per orientare i miei Cinque Lettori devo però svelare quelli che a mio giudizio sono gli Arcana di un operazione che in effetti impressiona per la vastità della sua copertura finanziaria, mediatica, cospirativa. Devo qui necessariamente essere schematico, salvo poi argomentare e sviluppare in parecchie schede singole, dedicate per esempio ad ognuno degli autori precristiani che non avevano preso in simpatia i cultori di un dio chiamate Jahvè, il quale aveva dichiarato guerra a tutti gli altri dèi ed ai loro fedeli pretendendo di essere l’unico Dio, ma non già dio di tutti gli uomini, bensì dei soli ebrei. Se la “religio” è un momento di unità fra gli uomini, questa nuova religione si proponeva nel momento antico come segno di divisione e di “odio” verso la restante umanità, presso la quali i giudei di ogni tempo voglione però vivere in condizione di eterni ospiti. Di Adriano imperatore non ho letto nelle recensioni finora apparse quale era la sua appartenza religiosa. Era stato iniziato ai misteri di Eleusi, la più alta forma di religiosità del mondo antico, per accedere alla quale era necessaria una lunga iniziazione e che davvero rifuggiva dal proselismo, essendo severamente proibita la rivelazione dei misteri, ai quali peraltro chiunque poteva accedere mediante iniziazione. E tra questi fi fu anche l’imperatore Adriano, uomo amante della pace e della serenità più di ogni altro. Era sua dimora la celebra villa in Tivoli.

Non pare che Adriano amasse gli ebrei della sua epoca. Ma non era il solo. Diciamo subito che nella letteratura che si accompagna all’imminente libro di Martin Goodman in edizione italiana viene a mio avviso trascurato la specificità propria di ogni contenuto religioso. Tra cristianesimo ed ebraismo vi è una contrapposizione insanabile che si può riassumere nella seguente formula: per il nascente cristianesimo che poi si sviluppò in due millenni nel corpo dottrinale teologico del cattolicesimo, pur con tutte quelle stranezze di cui Odifreddi si lamenta, fondatamente, l’essere umano in quanto tale, l’altro senza nessun altra specificazione di razza, lingua, condizione sociale, etc., costituiva un “valore”. Per l’ebraismo antico e nuovo ha sempre costituito un “disvalore”. L’operazione che si va portando avanti da quando le lunghe mani del B’naï B’rith sono riuscite a penetrare nel Concilio Vaticano II e nei documenti pontifici consiste nell’attribuire ad un pregiudizio tutto pagano il cosiddetto antisemitismo cattolico. Poiché il pregiudizio è sempre un pregiudizio ne consegue che in realtà non esiste nessuna seria contrapposizione teologica fra cristianesimo ed ebraismo ed in realtà lo stesso cristianesimo non è che una trascurabile eresia ebraica, opportunamente e saggiamente stigmatizzata nei testi talmudici, di cui il grande pubblico ha avuto sentore nella trasmissione televisiva israeliana dove la Madonna veniva presentata grosso modo come una donna di malaffare. A voler fare esercizio di filologia e documentazione – e la faremo – si possono trovare espressioni di irriducibile odio, avversione, intolleranza verso il cristianesimo da parte dell’ebraismo più di quanto sia vero l’inverso.

Il mondo antico nella misura in cui poteva accorgersi e si era accorto dell’ebraismo aveva sue distinte ed autonome ragioni di avversione verso l’ebraismo, come distinte ed autonome ragioni ebbero già nell’antichità precristiana tutti i popoli mediorientali. Giustamente, Bernard Lazare cui si deve un testo ormai classico sulla storia dell’antisemitismo ebbe ad osservare che se tutti, propri tutti ce l’hanno con te, probabilmente la causa deve essere cercata in te stesso e non negli altri. Abbiamo detto che queste sono anticipazioni per far capire, ove ne avessero bisogno, ai nostri Cinque Lettori quale è la partita che si va giocando nell’arco della nostra generazione. Mentre un articolo di giornale è appunto cosa di un giorno, anzi di pochi minuti, la redazione di un libro di oltre 700 pagine richiede ben altri tempi e risorse. Non bisogna spaventarsi. Si tratta spesso di giganti dai piedi di argilla. Basta scorgerne i punti deboli per ridimensionarne la forza e la minacciosità. In questo post terremo un sommario, un rinvio anche ad altri blogs tematici, dove andremmo sviluppando la lettura, l’analisi, il commento, lo studio degli autori e dei personaggi storici citati, nel contesto di una dozzina di libri che abbiamo già individuato e che sono nei nostri scaffali.


1. Lazare e il sionismo. – 2. – Letteratura proibita. – 3. Lo stato nello stato. – 4. Limiti della trattazione di Lazare. – 5. Il sionismo di Lazare. – 6. Una critica interna. – 7. La teoria del “capro espiatorio” in Lazare ed altre spiegazioni dell’antisemitismo. – 8. Poliakov ossia da Spinoza alle “camere a gas”. –

1. Lazare e il sionismo. – Forse il primo testo, del 1894, che affronta l’«antisemitismo» con l’idea di scriverne una storia è quello di Bernard Lazare, che dice di non voler essere né antisemita né filosemita. Mentre procedo nella lettura di questo libro, nell’originale francese e nella traduzione italiana, insieme ad altri testi sullo stesso soggetto mi chiedo se il libro non sia condizionato dal fatto di venire scritto in un’epoca il cui il sionismo era già visibile. L’idea stessa che l’«antisemitismo» sia un problema che occorre spiegare, anzi farne addirittura la storia, nasconde in se una sensibilità e consapevolezza del tutto moderna. Nei primi capitoli Lazare, richiamandosi a fonti antiche, fa delle affermazioni che oggi vengono negate da parte ebraiche: che il proselitismo sia estraneo all’ebraismo. Non era così già nelle fonti citate da Lazare. Addirittura i padroni ebrei convertivano con la forza i loro schiavi non ebrei. Ed anche, a causa dei privilegi che le comunità ebraiche erano riuscite a spuntare dentro l’Impero – ancora oggi è così – inducevano tanti poveri diseredati a convertirsi all’ebraismo per condividere quei privilegi. L’idea dunque di una discendenza biologica di ebreo da ebreo è una manifesta falsità. A meno di non voler sostenere che tutte le vacche sono nere non può essere dubbio che da un punto di vista strettamente teologico vi sono differenze fra ebraismo o giudaismo e le altre forme storiche di religione. Ed è una differenza sostanziale che oggi si tende ad occultare mentre per un altro verso si producono leggi liberticide contro un antisemitismo che non si riesce neppure a poter definire. Potremmo dire che è una forma odierna, violenta quanto subdola, per produrre conversioni, dette “della porta”, all’ebraismo, riducendo il cattolicesimo ad un sottoprodotto dell’ebraismo stesso. Naturalmente, l’Islam più tenace nelle sue tradizione, è il nemico che occorre abbattere in via preliminare.

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2. Letteratura proibita. – Se il volume di Martin Goodman viene annunciato già da due recensione, a noi note, ancora prima della sua ucita e dispobilità in commercio, l’una sul Corriere e l’altra su l’Avvenire, vi sono però molti altri testi alla macchia, i cui autori rischiano il carcere per aver affrontato il soggetto senza esserne stati preventivamente autorizzati ed aver fornito assicurazioni sulle tesi sostenute. Non avendo questi libri il beneficio della pubblicità e delle discussione scientifica a stento si riesce ad averne notizia. Io ne vengo casualemente a conoscenza e non posso dire nulla di essi senza prima averli letti. Così ad esempio ho trovato in rete l’opera, gratuita, di un certo Doctor Mathez, che se ho ben letto dice in qualche pagina della sua voluminosa opera di rivendicare il diritto di poter essere antisemita. Questo a noi affatto sconosciuto autore, che aveva stampato il suo libro a sue spese, fu condannato e imprigionato negli ultimi anni della sua vita ed il suo libro fu pure condannato alla distruzione. Correva l’anno 1969 e siamo nella civilissima Svizzera! Serveto era stato bruciato nel 1553. Non pare sia cambiato molto da allora. Jürgen Graf vive, per fortuna, ma esule in Russia.

Nel mio viaggio virtuale io non farò nessuna distinzione fra letteratura autorizzata e letteratura proibita, fra autori rinomati ed autori del tutto ignoti o quasi. Cercherò soltanto di seguire il lume della logica e del ragionamento, per quanto possibile ricavando conclusioni dalle premesse poste o perfino indagando oltre ciò che l’autore stesso si era immaginato. È appunto questo il lavoro dell’interpretazione che si rinnova sempre nelle mutate circostanze e sotto stimoli e sollecitazioni diverse. Non ci fareme per nulla impressionare dalle condanne pronunciate da altri come non assicureremo il nostro plauso ai premiati autori. Anzi, in questo campo l’aver avuto l’autore un premio qualsiasi, o l’essere stato receduto da recensioni favorevoli è per noi un buon motivo per essere maggiormente critici e circospetti. L’ordine di successione dei nostri paragrafi sarà del tutto casuale e dipendente dai testi di cui si verrà di volta in volta a conoscenza. Poiché le persone stupide e in malafede esistono e sono assai numerose, non è inutile avvertire che noi qui indaghiamo su concetti, su posizioni, su “essenze filosofiche” e che la nostra è una libera investigazione le cui conclusioni – se ve ne saranno – sono ignote a noi stessi, che qui intraprendiamo il nostro viaggio. Avevo già una volta intrapreso un viaggio simile, a proposito di «Olocausto», e malgrado avessi fatto un’analoga premessa, ciò non mi è servito ad evitarmi una piaggio di insulti e denigrazioni di cui non mi rendevo conto. Fatta quella esperienza, sono più preparato ad affrontare critici più o meno ferrati sull’argomento, più o meno onesti, e diciamolo pure i “nemici”, che esistono ed occorre chiamare con il loro nome. Sugli argomenti che andremo a trattare rientra a pieno titolo il volume di Gian Pio Mattogno su “Imperialismo ebraico”, che ho letto interamente, ma che ho dimenticato in altra mia residenza e che non posso citare testualmente, ma anche l’opera complessiva di don Curzio Nitoglia che ha un’intelligenza teologica dei problemi trattati, in genere assente negli storici recensiti.

Siamo certi che i libri, o meglio i pensieri, su un qualsiasi argomento si voglia trattare sono sempre molto più numerosi di quelli che si riescono a conoscere, o soltanto ad averne notizia. E già quelli che esistono, di valore ineguale, possono essere così numerosi da non poterli tutti leggere neppure se si avesse a disposizione più di una vita. Questo significa che la selezione e l’affidarsi alla fortuna nel reperimento delle fonti è inevitabile. Inoltre, in questi condizioni, un ricercatore che non fosse onesto nella sua devozione alla verità potrebbe sostenere l’una tesi o quella opposta, privilegiando l’una o l’altra fonte. Ma non si può essere mai sicuri dell’onestà di un libro finché esistono norme penali che promuovuono l’una tesi e condannano l’altra. Né può riconoscersi ad una tesi condannata valore di verità per il solo fatto di essere stata condannata. Il nostro viaggio è dunque quanto mai difficile e impervio. Ma non siamo affatto scoraggiati ed apprezziamo quella che noi chiamiamo una scrittura sull’acqua, cioè lo scrivere direttamente in internet contributi originali, non trasposizioni dal cartaceo, ed in una forma – lo avvertiamo – che ha una sua originalità rispetto al cartaceo.

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3. Lo stato nello stato. – Il concetto che mi sembra per nulla irrilevante nello spiegare i rapporti conflittuali che le comunità israelitiche hanno avuto con tutti i popoli con i quali sono stati in contatto. Se si fosse trattato di faccende esclusivamente religiose, la loro dinamica sarebbe stata alquanto diversa. Non mi sono mai professato ateo in quanto ritengo che esista un particolare atteggiamento dello spirito e della sensibilità umana, che può essere diversissima da individuo e nello stesso individuo in momenti diversi della sua vita e che io chiamo propriamente religione. Può essere anche la semplice venerazione che si nutre verso i nostri cari scomparsi, i Penati. Anche in Lazare si coglie una distinzione che ho trovato altrove e di cui ora non mi pongo problemi di priorità. L’ebraismo ha avuto nella sua storia diverse evoluzioni, da cui esce la “rivoluzione” del cristianesimo, ma esistono anche irrigidimenti che danno vita al Talmud. Questo non ha nessun rapporto di parentela con il cristianesimo. Ma esso è oggi l’unico ebraismo eistente. Quello antico, pretalmudico, non esiste più. Il Talmud non è un testo religioso, ma un testo normativo che in pratica finisce per fondare uno stato nello stato. Non credo che debba spendere altre parole per farne capire le implicazioni. Un paragone certamente irriverente puà essere fatto con organizzazioni come la mafia, la ndranghteta che si distinguono dalla semplice criminalità in quanto si contrappongono allo stato, anche se devono convivere necessariamente con lo stato. Se diventassero essi stessi lo stato cambierebbero subito di natura e dovrebbero affrontare i problemi di direzione e rappresentatività di tutti i sottoposti.

Per un ebreo, oggi, essere componente di uno stato nello stato significa avere una cittadinanza aggiuntiva rispetto agli altri cittadini che ne sono sprovvisti e che non ne vogliono proprio sapere di diventare né ebrei circoncisi né ebrei “della porta”, cioè vicini all’ebraismo ed in una posizione secondaria. Dopo le leggi emancipatrici seguite alla rivoluzione francese gli ebrei che non hanno inteso assimilarsi, hanno aggiunto una nuova cittadinanza e nuovi diritti a quelli precedenti. Con il sionismo si aggiunge una terza cittadinanza: quella dello stato di Israele, poco importa se attiva o meno. Tre diritti di cittadinanza a fronte di chi ne possiede una sola o neppure una ritengo costituiscano oggi una fonte di problemi, che stanno venendo al pettine. La “cultura” che ha già lavorato sodo per fabbricare su misura agli ebrei israeliani un’identità a tutto scapito degli inesistenti palestinesi, un popolo la cui esistenza è tutta da negare, lavora adesso per creare un nuovo rapporto storico nelle relazioni fra ebraismo e cristianesimo, proiettando le esisgenze politiche del presente nel più remoto passato storico. Lo scopo è quello di neutralizzare la funzione di katechon che il cattolicesimo ha finora costituito nei confronti dell’ebraismo e della sua concezione esclusiva e settaria della restante umanità. Ci sembra che Martino scenda in campo per questa opera di falsificazione del passato storico. Questo il suo compito.

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4. Limiti della trattazione di Lazare. – Per oltre un terzo del suo libro Lazare non mantiene ciò che promette in alcune sue intuzioni. È sempre citata la sua frase secondo la quale gli ebrei se lo sarebbero voluto se hanno sempre attirato le ostilità di tutti i popoli presso i quali si sono trovati a convivere. Ma anche qui non è ben chiaro il concetto di popolo. Mentre dall’Europa a contatto con le invasioni barbariche si forgiavano e nascevano nuovi popoli che formano poi l’Europa moderna, gli ebrei assistono a questo processo standosene alla finestra, come a dire noi siamo il popolo eterno a fronti degli altri che nascono e muoiono. Lo stesso Lazare senza aspettare Shlomo Sand e molto prima di lui parla di diffuso proselitismo ebraico. Insomma, Lazare non chiarische se l’essere ebreo è un codice genetico o un codice associativo. Nel primo caso avremmo dei discendenti sempre in linea retta da Abramo che per non contaminarsi mai mescolano il loro sangue con quello dei numerosi popoli in cui si sono trovati a vivere, non per un giorno, ma pe secoli. Nel secondo caso vi è un codice di aggregazione sulla base di una normativa pseudo-religiosa e concepita per lucrare al meglio ai danni di terzi con i quali anche dopo secoli non ci si sente solidale e si mantiene un costante rapporto di estraneità ostile. Immaginiamo di avere nelle nostre case un eterno ospite, sempre più esigente e che in ultimo ti caccia pure di casa, magari rivendicando un diritto originario. Non è una metafora. È ciò che è successo in Palestina dal 1882 ad oggi.

Si trova in Lazare anche l’intuizione dello “stato nello stato” come condizione normale degli ebrei. Ma non ci pare che all’intuizione seguano adeguati svolgimenti. Anche la trattazione teologico dottrinale è troppo generica per essere utile ed affidabile. Mancano citazioni testuali e brani dimostrativi. Nella loro genericità anche un lettore esperto fatica ad accettarne la fondatezza. In realtà, l’opera pioneristica di Lazare si spiega meglio con l’esigenza da cui nacque nell’epoca del processo Dreyfus. Doveva contrapporsi al libro di Drumont che è più vasto come trattazione ma soprattutto più ricco di determinazioni. Lazare dice di non voler prendere parte per l’uno o l’altro dei contendenti, ma poi in fondo non si capisce bene perché mai in tanti ce l’avrebbero avuta con gli ebrei. Almeno così ci appare Lazare ad un terzo del libro, che non è poco. Torneremo nel prosieguo della lettura e analisi degli altri due terzi di libro.

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5. Il sionismo di Lazare. – Se si legge un autore recente come Rabkin (v.), si nota a proposito del territorio storico di Israele come questo fosse ormai nel giudaismo può un luogo della mente che non l’oggetto di uno specifico obiettivo politico, come sarà con il sionismo. Ci sembra, che oltre ai limiti sopra rilevati, il libro di Lazare sia viziato da un’ottica sionista che viene trasferita di peso nella ricostruzione storica di tremila anni di storia. Ad esempio, questo brano ci appare altamente sospetto:
«Essi ebbero proprietà, ma fecero contivare i loro terreni dagli schiavi, perché il loro tenace patriottismo
[siamo nel 1896 e si sta parlando di tempi medievali, dove il concetto di patria è ancora assai dubbio]
proibiva di zappare la terra straniera:
[ancora straniera dopo secoli di permanenza?]
questo patriottismo, l’idea che attribuivano alla santità della patria palestinese,
[più tardi il sionismo metterà ferocemente al bando questa parola “palestinese”. La Palestina assolutamente non esiste. Nella legislazione, nell’informazione, nel sistema educativo la “pulizia etnica della Palestina” proseguira nel linguaggio e nel cervello],
l’illusione che continuamente alimentavano della restaurazione di questa patria,
[con sospetto anacronismo questa illusione è più facile trovarla nei congressi sionisti ai quali Lazare partecipò come delegato che non in pieno medioevo],
e quella peculiare credenza per cui si sentivano come esiliati
[E se così si sentiva anche Dreyfus non vi era nessuna ragione per imbastirgli un processo su false accuse: bastava riformarlo alla visita militare per inaffidabilità]
che un giorno avrebbero rivisto la città sacra, li spinse a dedicarsi al commercio più di tutti gli altri stranieri e colonizzatori»
(trad. it., p. 109).
E se questo era l’atteggiamento mentale, cioè di stranieri e colonizzatori, con il quale pretendevano di convivere con altri popoli e di essere da questi accettati, tollerati e riveriti non occorre molta fantasia per spiegarsi le facili reazioni, che però Lazare nel suo malcelato sionismo non evidenzia adeguatamente, facendo nutrire il sospetto che sia stata fatta ingiustizia verso gli ebrei più di quanta ingratitudine gli stessi ebrei non avessero avuta verso gli odiati goym, cristiani o non cristiani essi fossero.

L’edizione italiana da me usata è a cura di Massimo Sestili, di Altrimedia Edizioni, tradotta dallo stesso Sestili e da Ascensina Maria Evangelista, edita a Matera nel 2006. Ci disturbano alcuni sbilanciamenti nei giudizi che ci fanno sospettare dell’edizione stessa. Ritorneremo. Una nota biografica menziona espressamente i rapporti di Lazare con il sionismo inclusa la personale conoscenza con Herzl, con il quale vi fu poi rottura. Non sappiamo al momento per quali ragioni e non ci occorre adesso indagarlo. Ci sentiamo invece di poter dire che l’opera di Lazare è viziata dal contesto storico nel quale è apparsa, e cioè per un verso l’esigenza di contrapporsi a Drumont, per un altro l’adesione al sionismo già caratterizzatosi e che trovava in Lazare stesso un suo militante.

Sull’affare Dreyfus non sono digiuno di letture. Comprato per 50 centesimi, avevo trovato un ottimo libro sull’argomento che lessi con vivo interesse. Si tratta però di una vecchia lettura che sarà utile rifare per raccordarla alle letture posteriori e qui annotate.

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6. Una critica interna. – Appunto perché “poco credente” (p. 323), anche se legato alla tradizione e non uscito dall’ebraismo per annullarsi nell’assimilazione che ormai la legislazione europea consentiva a chi voleva fare il gran passo, Lazare può permettersi una visione critica dall’interno stesso dell’ebraismo, come ad esempio in questo efficace brano, uno dei migliori finora incontrati:
D’ora in poi l’Ebreo non pensa più. E che necessità poteva ormai avere di pensare dal momento che possedeva un codice minuzioso e ordinato, opera di legislatori in grado di rispondere a tutte le domande che era lecito porre? Infatti, si proibiva al credente di informarsi su questioni che il Talmùd non prevedeva. Nel Talmùd, l’Ebreo trovava tutto previsto: vi erano indicati i sentimenti e le emozioni, qualunque essi fossero; preghiere e formule già pronte permettevano di esprimerli. Il libro non lasciava spazio né alla ragione né alla libertà tanto più che, insegnandolo, praticamente si sopprimevano la parte di legenda e la parte gnomica e si insisteva sulla legislazione e sul rituale. Con un’educazione così concepita, l’ebreo non soltanto perse ogni spontaneità e ogni intellettualità: vide diminuire e indebolirsi anche la sua moralità
(op. cit., p. 104).
Ed è qui che nascono le nostre inquietudini. A quale ebraismo Lazare si riferiva? A quale sua epoca? Lo abbiamo già scoperto come un anacronista, incapace di calarsi in epoche remote e facile a proiettare nel passato le sue esigenze del presente. Nasce forte il sospetto che Lazare descriveva con maggior fondamento l’ebraismo della sua epoca e del luogo in cui viveva, essendo egli stesso un ebreo che certo non aveva tagliato tutti i ponti con il suo ambiente di provenienza, di cui certamente avvertiva le angustie, proprio per essere egli attiguo al mondo e alla vita dei goym. In particolare, la caduta di moralità è cosa che si incontra in altri luoghi letterari che purtroppo non mi sono annotato e che qui cito a mente. Era una volgare faccenda di moneta: ti ho dato cento o venti per dieci. Restituiscimi il non dovuto. Nella scena è descritta appunto una sceneggiata, con l’ebreo che si sbraccia e grida a più non posso mentendo e sapendo di mentire e di frodare. La spiegazione era che non si trattava di un normale e volgare episodio di disonestà, possibile in ogni luogo tempo e persona, ma si trattava di una prescrizione talmudica: ingannare e frodare il goym è cosa lecita e giusta. Se ciò può sembrare infondato e diffamatorio, si può allora passare alla cronaca quotidiana di ciò che succede in Palestina, a “piombo fuso”, i cui crimini sono documentati da un ebreo, Goldstone. È facile riscontrare casi innumerevoli dove ci si interroga sulla peculiare moralità di chi occupa terra, casa, vita altrui e non si pone nessuno scrupolo di carattere morale, ma anzi pretende di esercitare il massimo del proprio diritto ed incolpa la vittima di non voler accettare sevizie e angherie. Lazare, suo malgrado, ci dice che questa è una costante dell’ebraismo di ieri e di oggi, ma non ci capire, non evidenzia abbastanza l”altrui legittima reazione morale e politica.

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7. La teoria del “capro espiatorio” in Lazare ed altre spiegazioni dell’antisemitismo. – Non mi sembra che Lazare mantenga quel che promette. Nella più ricorrente delle sue affermazioni egli dice che gli ebrei devono trovare il loro stessi le cause delle persecuzioni di cui sono stati fatti oggetto nelle più diverse epoche e presso tutti i popoli:
Se questa ostilità e ripugnanza si fossero manifestate nei confronti degli Ebrei soltanto in un limitato periodo e in un solo paese, sarebbe facile rintracciarne le cause particolari; al contrario, questa stirpe è stata oggetto dell’odio di tutti i popoli in mezzo ai quali si è stabilita. Posto che i nemici degli ebrei appartenevano alle etnie più svariate, che vivevano in contrade distanti tra loro, che erano guidati da leggi differenti e governati da principÎ diversi, che non avevano né stesse tradizioni né gli stessi costumi, che erano animati da uno spirito diverso che non permetteva loro di esprimere un giudizio identico su tutte le questioni, ne consegue che le cause generali dell’antisemitismo sono state sempre insite in Israele stesso e non in coloro che lo contrastavano.
(Lazare, op. cit., 39-40).
Una prima osservazione che può qui farsi è l’ammissione, già in Lazare, della perenne estraneità della “stirpe” ebraica rispetto a “tutti i popoli in mezzo ai quali si è stabilita”. Reazioni e persecuzioni a parte e che restano da spiegare, cosa che non ci sembra Lazare faccia, viene da chiedersi perché mai i popoli debbano accettare elementi ad essi estranei con nessuna volontà di integrarsi nel loro seno. Nella narrazione che segue sembra che siano i popoli a dover spiegare e giustificare il loro rifiuto, violento o meno, degli ebrei, che non questi ad addurre ragione nel voler stare in mezzo ad altri in costante separatezza, senza qui contare l’immenso dispresso e odio da essi nutrito verso i goym, un odio che nel testo di Lazare non appare. Compare invece più avanti il termine “capro espiatorio” e si affaccia pure un’altra pericolosa ammissione secondo cui gli ebrei avrebbero sempre tratto le loro fortune da crisi dissolvitrici delle società nelle quali si trovavano ed alla cui dissoluzione hanno sempre attivamente collaborato dai tempi della decadenza e caduta dell’Impero romano fino alle guerre europee del XX secolo, per non parlare della dissoluzione dell’Impero ottomano, da cui nasce la Dichiarazione Balfour e l’odierna avventura coloniale di Israele.

Piero Sella (vedi) riassume in una pagina le principali teorie che da parte dell’ebraismo vengono offerte per spiegare le cause dell’antisemitismo, ovvero del fenomeno ormai abitualmente enunciato con questo termine che andrebbe criticamente dissezionato oltre che linguisticamente ricostruito. Gli ebrei, in genere, sono così pieni di sé che non sono neppure in grado di capire come e perché altri possono avercela con loro. La prima delle spiegazioni che si incontrano è appunto quella del “capro espiatorio”, come a dire: noi non c’entriamo nulla e se la prendono con noi, giusto per dare addosso a qualcuno. Questa spiegazione è ripresa in anni recenti da David R. Blumenthal, che recita:
«Turbamenti sociali ed economici che nulla hanno a che vedere con gli ebrei trovano sfogo contro di loro» (cit. in P. Sella, 112).
Già! Strano però che in in questi “turbamenti” si incontrano sempre, per caso, degli ebrei. Per connessione sistematica è utile qui riportare le altre due spiegazioni evidenziate da P. Sella: una di natura “teologica”, ma io direi piuttosto psicologica, che si trova formulata in Freud, che pretende di spiegare il fenomeno con una vera e propria “invidia” da parte del goym verso il patrigno Geova, quasi che tutti i popoli della teoria non aspirassero ad avere miglior padre:
«L’odio per gli ebrei è l’espressione di un risentimento da parte dei non ebrei per la vicinanza del popolo ebraico a Dio. Dio ha scelto gli ebrei e ciò li rende speciali per loro stessi e per gli altri. Gli altri reagiscono a ciò con una profonda invidia» (ivi, 112-113).
Intanto posso dire che la teoria del risentimento come formazione dei giudizi morali si trova prima che in Freud in Nietzsche e poi studiata anche da Scheler. Direi che Freud faccia una pessima trasposizione di concetti che non sono suoi e che soffrono nel contesto della sua dottrina, sempre volta a cercare tracce di stupri nella prima infanzia. Inoltre l’invidia rientra in quella patologia dei sentimenti, meglio descritta dall’ebreo Spinoza che non dall’ebreo Freud, e che appunto per il suo carattere patologico è instabile ed effimero: lo spirito che tende alla pienezza dell’essere deve liberarsi quanto prima di malattie passeggere come l’invidia o l’odio. Per quanto riguarda specificatamente l’odio e previa analisi dei testi sacri ebraici, oltre che di quella deformazione morale acquisita come una seconda natura, è proprio Spinoza che attribuisce all’ebraismo l’odio come sua profonda natura. Negli altri l’odio che può esservi è solo di natura reattiva e quindi passeggero, non tale da poter giustificare l’assiona che Freud pensa di enunciare contro i goym e non certo in nome della scienza. Infine, ad un giudizio spassionato, per esempio da parte di uno spirito nutrita di antichità classica, il dio ebraico non meno di quello cristiano è più facile che susciti repulsione anziché invidia.

La terza spiegazione direi sia figlia diretta di Freud e della psicoanalisi da lui creata, una tipica professione ebraica. Tutti quelli che hanno motivi di ostilità verso l’ebraismo, il giudaismo o il sionismo, diciamo contro l’odierno Israele, sono persone affette da turbe mentali. Non è un caso che in Torino, ambiente dove il sionismo sembra avere una certa forza, un povero docente di liceo è stato perfino sottoposto a perizia psichiatrica per aver osato criticare Israele o la Shoah. Anche in questo blog ho dovuto respingere insulti in chiave psicoanalica provenienti da propagandisti sionisti, hasbaroti, che di mestiere fanno per l’appunto, pare, gli psichiatri. En passant, per questa scienza oggi forse meno di moda e le relative professioni di “strizzacervelli”, vale la pena di ricordare un giodizio di Antonio Gramsci che riteneva più che sufficiente la vecchia solida formazione umanistica per includere tutto genere di problematiche psicologice assurte a nuova specializzazione professionale. Ad averne forse più bisogno di psicoanalisi sono gli stessi sionisti che vivono oggi in Israele o che ad essi danno supporto dalla Diaspora.

8. Poliakov ossia da Spinoza alle “camere a gas”. – Lazare è stato il primo a trattare il tema dell’antisemitismo. Gli altri sono venuti dopo. In Lazare ciò che non viene perdonato dai suoi critici di parte interna, diciamo da ebrei e sionisti, l’avere ammesso che la causa dell’antisemitismo deve ricercarsi nella peculiarità stessa dell’ebraismo come si è mostrato nel corso dei secoli. L’opera pionieristica di Lazare mi sembra affetta da un certo anacronismo quando proietta un’incipiente sensibilità sionista, che egli almeno in parte condivide, in epoche remote. A leggere Rabkin sembra di poter credere che per secoli e millenni in giudaismo non avesse per nulla una visione coloniale e di conquista materiale della patria Israele. Sembra di capire che per buona parte dell’Ebraismo la terra di Israele fosse più un luogo della mente e dello spirito che non una precisa collocazione geografica. Ma questo a me poco interessa. La mia avversione teologica e filosofica per ogni forma di giudaismo è qui dichiarata insieme al più fermo principio di non violenza e libero e franco dissenso. È tuttavia importante capire le sfumature interne anche di movimenti che si rigettano nella loro interezza. In Lazare non trovo adeguatamente sviluppato il principio enunciato. E cioè che gli ebrei stessi sono responsabili dell’avversione che hanno universalemente riscosso. Ma Lazare sembra quasi ritrarsi da questo enunciato che non svilupparlo. Da qui una certa ambiguità che gli frutterà ora consensi ora dissensi nel suo stesso campo.

Non così per un’altra più tarda, certo non pionieristica, ma di impianto industriale, come quella di Poliakov, della cui sincerità assai dubitiamo. Non paragonabile certo all’approccio impresso da Lazare al suo libro. È sorprendente in Poliakov l’avvio. Un avvio che ci consente già di sapere cosa possiamo aspettarci nel prosieguo dei quattro volumi della sua opera, che ci prenderemo “la pena” di leggere nella sua interezza: davvero “una pena” che speriamo non ci guasti gli umori sanguigni. Poliakov inizia subito con il fondamentale brano di Baruch Spinoza sull’«odio» come essenza stessa dell’ebraismo. È un’affermazione praticamente inconfutabile sia sul versante filosofico sia su quello politico-teologico. Ed infatti Poliakov non la confuta. Sarebbe per lui un’impresa impossibile. Ricorre invece alla pratica davvero sistematica della diffamazione. Spinoza, tre secoli prima del fatto, sarebbe responsabile della “camere a gas” e dell’«Olocausto». Un evento peraltro la cui esistenza è retta da strumenti di tortura e da una persecuzione perfettamente comparabile a quella che gravava sugli ebrei nei secoli passati secondo la narrazione che ne fa lo stesso Lazare.

Croce direbbe che la nozione di “antisemitismo” è uno pseudoconcetto. È coniato soltanto d aun punto di vista ebraico. E si nutre solo di un punto di vista di parte. Lazare intuendo che la causa del cosiddetto antisemitismo era da ricercare principalmente negli ebrei stessi aveva in tal modo posto il superamente della nozione in quanto antiscientifica. Dai suoi più accorti correligionari o connazionali – come possiamo dire? – ciò non gli viene perdonato. La nozione di antisemitismo presuppone un totale disvalore dell’antisemita per il quale in mutate condizioni di potere deve essere comminata la pena più severa e se ne deve prevenire l’esistenza intervenendo capillarmente nel sistema educativo e mediatico. È ciò a cui assistiamo ai nostri giorni in una situazione rovesciata rispetto ai tempi di Lazare. Oggi a correre rischi non sono gli ebrei, ma i cosiddetti antisemiti la cui definizione è quanto mai sfuggente e per questo estremamente pericolosa: tutti possiamo essere diffamati, imprigionati, emarginati in quanto antisemiti. Non sono rari i casi in cui la genericità e l’ambiguità del termine produce episodi comici, come il caso di Vauro che reagisce, credo anche per via giudiziara, per essere stato tacciato di antisemitismo per una sua vignetta della Nirenstein, approdata a parlamentare del PdL, in un camera da lei scambiata per la Knesset.
(segue)

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