Gaza: Waiting, waiting and waiting – Attesa senza speranza
Settembre 2009
Diana Carminati, Alfredo Tradardi
1. L'arrivo a Gaza
Siamo stati a Gaza dal 17 al 22 settembre 2009 unendoci al gruppo americano Codepink, che riesce con relativa facilità ad entrare e uscire dalla Striscia. Ha i suoi santi in terra.
Entriamo dal valico egiziano di Rafah dopo circa sette ore di attesa e dopo essere stati fermati e controllati, nei 30 km. che vanno da El Arish a Rafah, da cinque posti di blocco e dopo un viaggio, il giorno precedente dal Cairo a El Arish, di 9 ore, scandito dal passaggio attraverso altri cinque posti di blocco della polizia egiziana. Amici italiani ci avevano detto che nel Sinai ci sono molti controlli anche per via del Fronte di liberazione del Sinai. Ma nel viaggio ci dicono che se richiesti non si deve parlare di Rafah. E crediamo che i controlli al nostro pulmino vengano fatti per motivi più …venali. Ad El Arish la sera troviamo l’atmosfera di una piccola città di provincia contadina povera, tradizionale, arretrata.
Al valico, in entrata, famiglie palestinesi in attesa di un visto egiziano in occasione dei tre giorni della festa dell’Eid, giovani donne in lacrime, a cui probabilmente il visto è stato negato; autobus con carrelli traboccanti di valigie, donne egiziane sedute all’ombra di un carretto che cercano di vendere sacchetti di mandorle, uomini sotto un pergolato, asinelli al sole, un via vai di ambulanze. Ci dicono che il valico è aperto qualche giorno al mese o ogni due mesi. E questo succede per le/i palestinesi anche in uscita. Settimane, mesi di attesa. Perché? ci chiediamo. E’ un semplice sistema vessatorio, di soprusi e allo stesso tempo un sistema di corruzione ben sperimentato di uno stato di polizia. E in questi territori, come altrove, impunità-immunità sono la regola. Anche per il gruppo Codepink il passaggio non è stato immediato. La polizia egiziana pone mille volte le stesse domande. Alla fine si passa, dopo oltre sei ore di attesa e i motivi di tali lungaggini si possono forse immaginare.
La sera, a Gaza city, incontriamo i genitori di Rachel Corrie, e il gruppo della Fondazione in suo nome. Sono arrivati la sera prima, dopo aver atteso due giorni al valico di Rafah.
2. I luoghi del massacro
“The massacre” è il termine più usato dal palestinesi per indicare quanto è avvenuto dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009.
Visitiamo la mattina seguente i luoghi più devastati del nord della Striscia, quelli lungo il settore orientale di Gaza city dove si erano sviluppate piccole fabbriche di edilizia, aziende di allevamento polli [vedi al riguardo i §§ del rapporto Goldstone, dove si parla di “chicken”- AC] e altri animali, e i paesi di Beit Hanoun, Beit Lahya, dove alta era stata la partecipazione al voto nel 2006 in favore del partito di Hamas. Altre devastazioni, a macchia di leopardo, segnano il luoghi simbolici, il Parlamento, la vecchia sede dell’ANP, proprio di fronte al mare, gli edifici di alcuni ministeri, le scuole della UNRWA, scuole primarie e secondarie a Jabalia, la scuola americana, alcuni ospedali; poi le poche rovine della casa rasa al suolo di uno dei leader di Hamas, Nizar Rayan, ucciso con tutti i componenti della sua famiglia, 16 persone, tranne un sopravvissuto; edifici nei quartieri poveri, case che si trovavano nella traiettoria più facile per i bombardamenti, lungo le principali strade asfaltate, dove potevano passare i tanks dell’esercito israeliano.
La devastazione più visibile è nella zona di Abed Rabbo, ancora a est, con 150 case distrutte insieme a piccole fabbriche e, più a sud, fra le zone più povere della città, dopo il quartiere di Zaitoun, dove stavano le case della famiglia Al Samouni, (di quella famiglia, radunata dai soldati in una casa che è stata poi bombardata e distrutta, sono stati uccise 31 persone fra uomini, donne e bambini), intorno decine di case rase al suolo. Gli uomini raccontano le devastazioni, il massacro, l’occupazione di una casa non distrutta perché diventi punto di osservazione per i cecchini, le scritte razziste nella casa lasciate dai soldatini dell’IDF. Le donne, in disparte sotto una tenda temono l’autunno con la pioggia, il fango, il freddo. A distanza di otto mesi sono traumatizzati, in particolare i bambini, affamati, spaventati e aggressivi. Vivono in mezzo alle macerie e alle ferraglie, ridotti alla pura sopravvivenza (una reale, visibile ‘bare life’ - dura vita, non quella teorica di Agamben).
3. Vietato pescare
Nei giorni successivi, alcuni del gruppo vanno con i pescatori a fare esperienza di cosa significa gettare le reti nella brevissima striscia di mare rimasta a disposizione, come acque territoriali (ora meno di due miglia, rispetto alle 12 miglia delle convenzioni internazionali, ma ridotte a sei e poi a tre per la striscia di Gaza dalla marina israeliana). Ma anche quella spesso è proibita, poiché il giorno dopo il rientro in Italia leggiamo sulla rivista online IMEMC (International Middle East Media Center) che il 22 settembre navi israeliane hanno sequestrato e arrestato pescatori all’interno di quegli spazi. E occorre ricordare che almeno per 500 metri o più il mare davanti alle spiagge, in particolare davanti a Gaza city è inquinato dai torrenti di liquami che escono dagli scarichi. Unico sbocco per il sistema fognario in condizioni critiche dopo il bombardamento nel 2006 della centrale elettrica e in seguito a causa della carenza di gasolio per le pompe di funzionamento del sistema di trattamento delle acque, ora distrutto.
4. In visita alle famiglie
Il gruppo si divide domenica 20, per la festa della fine del digiuno, l’Eid, per visitare singole famiglie, scelte in varie zone dai nostri giovani accompagnatori palestinesi, Deema e Mohanna. Visite di saluto e di reciproca conoscenza. Intorno nei quartieri molta gente, macchine, bambini su carretti tirati da asinelli passano cantando. Con una attivista di Malta sono andata a conoscere una famiglia nel quartiere di Sheik Radwan, accompagnata da Rose, che appartiene alla famiglia allargata. Abbiamo parlato tre ore con le donne e le ragazze della famiglia, presentandoci e raccontando come si cerca di costruire solidarietà per il popolo palestinese. Le ragazze, in particolare hanno raccontato dei loro studi e dei loro ‘sogni’. Ma anche delle loro delusioni, del loro vivere senza speranza. Una in particolare, A., diplomata, vorrebbe fare la giornalista, ha detto che molti giovani non credono più a nulla, vogliono soltanto chiudere la porta di casa e guardare la tv. Siamo state a salutare una parente anziana, la nonna di Rose, che vive sola e malata al piano di sopra. Ci ha subito raccontato, come se nella sua memoria il tempo là si fosse fermato, della fuga da un villaggio vicino ad Ashdod nel 1948, lei bambina di 6 anni. Una fuga verso sud, di villaggio in villaggio, coi cammelli, i sacchi sulle spalle, i bambini affamati, le madri che cercavano di fare il pane, si dormiva nelle tende, nascosti fra gli alberi; ma dice, gli israeliani bombardavano anche le tende. Infine radunati e trasferiti nella striscia di Gaza.
Abbiamo visitato anche due famiglie di Beit Hanoun che hanno avuto figli uccisi, una bambina di tre anni durante l’aggressione di gennaio, in cui l’intera famiglia è stata ferita. Negli occhi delle due bambine e del più piccolo, superstiti, ancora il trauma e lo sgomento; e un adolescente, Ghazi al- Za’anin, 14 anni, ucciso il 4 settembre 2009 da soldati israeliani sconfinati, nonostante la cosiddetta tregua, mentre era con il padre e i fratelli nei campi. Anche qui dolore e sgomento.
Il 21 settembre si va al confine della terra di nessuno (buffer zone) a est e visitiamo una famiglia di contadini che aveva aranceti, limoneti e ulivi (5.000 dunums di terra: 1 dunum = 1000 m2) che sono stati quasi completamente spianati con i bulldozer già nel 2002. Ora nell’invasione di terra i soldati sono arrivati e hanno anche distrutto i pozzi, mettendo fuori uso le pompe idrauliche. Poi hanno occupato la casa, per farne un punto di osservazione, costringendoli a fuggire verso la città. Sono rimasti 13 giorni, distruggendo anche l’interno. Le donne della famiglia, sorridenti e dignitose ci hanno offerto caffé, dolci e pane caldo invitandoci a tornare. Ma, sempre su IMEMC, leggiamo che il giorno dopo, il 22, alcuni tank israeliani sono entrati oltre la buffer zone, hanno sradicato alberi e sparato contro case di contadini, non siamo riusciti a capire se proprio contro quella famiglia o altre vicine, ma in ogni caso con un chiaro messaggio di violenta minaccia.
5. La normalità a Gaza
Molti hanno già scritto, e con maggior cognizione di causa, della situazione a Gaza, tanto per non far nomi, Vittorio Arrigoni con il suo Gaza – Restiamo Umani. Molti ne continueranno a scrivere.
Quello che aggiungiamo è una ulteriore breve testimonianza a futura memoria, quando il mondo riuscirà a togliersi di dosso la corazza dell'indifferenza e troverà il tempo per riflettere su questi tempi oscuri.
Mohamed, il nostro amico, è un palestinese nato in Egitto, la sua famiglia vive al Cairo. Undici anni fa ha deciso di andare a lavorare a Gaza e ora è responsabile della cooperazione internazionale della Municipalità. E' riuscito ad uscire quest'anno dalla striscia dopo undici anni perché segue un progetto con la città di Barcellona. Gli spagnoli sono andati a prenderlo con una macchina diplomatica e lo hanno portato all'aeroporto di Amman. Al ritorno ha preso un volo per il Cairo. Gli egiziani lo hanno bloccato all'aeroporto e lo hanno rispedito a Francoforte, impedendogli di incontrare i suoi familiari. E' rientrato passando per Amman e di nuovo con una macchina diplomatica spagnola.
Siamo stati raggiunti da una telefonata di una provincia piemontese: “Tradardi c'è una signora palestinese che vive qui con la sua famiglia e lavora in provincia. E' andata a Gaza con due figli a trovare la madre malata ma non riesce a uscire dalla striscia. “Ma io sono a Gaza, mandatemi le informazioni necessarie”.
La signora è arrivata in Egitto a metà luglio, è riuscita a entrare a Gaza all'inizio di agosto. L'ambasciata italiana, che si sta dando molto da fare, ha dovuto interessare l'ambasciata palestinese perché la signora non ha ancora il passaporto italiano. Ad oggi, 15 ottobre, non né ancora riuscita a uscire.
6. Il WI-FI a Gaza
Negli alberghi e nei ristoranti di Gaza funziona, gratis!, quando non manca l'energia eletttrica, il WI-FI.
Siamo riusciti sia pur con qualche difficoltà a inviare qualche email, vedi allegato.
7. Gli incontri
Abbiamo poi avuto alcuni incontri con i direttori e rappresentanti di Centri come il Palestinian Center for Human Rights, con il segretario del Consiglio delle Chiese in Medio Oriente, con John Ging direttore dell’UNRWA, con la direttrice della UNIFEM, e con gli psichiatri del Gaza Community Mental Health Program.
Tutti, in generale, parlano del loro lavoro, in particolare dei programmi riguardanti l’educazione, la formazione all’attività professionale per giovani, donne e uomini, l’attenzione alla salute delle donne e bambini, ma anche delle difficoltà create dal persistente assedio di Gaza dal 2006 e poi nel 2009 dall’aggressione e dai crimini di guerra israeliani.
Il PCHR ha raccolto decine di storie/testimonianze della ‘guerra’ e ne faranno una pubblicazione. Ma stanno organizzando anche audizioni da portare davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Non è facile riuscire ad essere ascoltati perchè Israele e USA ostacolano questi tentativi e le pressioni sono fortissime. Ma si spera ancora nel rapporto Goldstone, appena uscito.
La rappresentante dell’UNIFEM, Heba, parla della situazione delle donne dopo la guerra e conferma che è in aumento la violenza domestica contro donne e bambini a causa della situazione resa ancor più terribile dal massacro. Hanno raccolto 80 storie di donne. Durissima la condizione delle giovani vedove, con problemi legali di eredità e pochissime risorse economiche: il 70% delle donne deve ricorrere agli aiuti umanitari. Donne che lavoravano in piccoli commerci hanno perso tutto e ora cercano denaro per riprendere. Si lavora anche in questo campo per dare sostenibilità in questo settore. E’ cresciuto anche il tasso di infertilità.
John Ging insiste sull’importanza del diritto internazionale, sulla necessità del sostegno occidentale alla popolazione che vive in un clima di accresciuta povertà, disoccupazione, pura sopravvivenza, con un inquinamento devastante, ma soprattutto con un accresciuto senso di frustrazione, odio e violenza. Qui le persone, “umane come ovunque”, sono costrette a condizioni disumane, demonizzate dalla politica occidentale di isolamento. Il problema è più psicologico che materiale, dice, in particolare per i bambini, la nuova generazione. Si è avviata in questo decennio la distruzione morale e psicologica di un’intera società. Occorre rompere questa catena di odio. Per questo è importante il loro lavoro nelle scuole. E’ importante ridare fiducia alla popolazione, insistere sul fatto che “fuori” ci sono persone, in Occidente, che cercano di mutare la situazione. Non indulgere sulle ‘azioni negative, ma offrire dinamiche positive’. E ritorna sull’importanza del diritto internazionale, che “è la nostra protezione”. Ma su questo punto, su un diritto internazionale che non funziona se non a senso unico, per i ricatti economici e militari occidentali e le complicità di molti paesi arabi, ci sono nella discussione che segue con il gruppo, perplessità e dissensi.
I medici del GCMHP (Dr. Hassan Zeyada e Marwan Diab) parlano dei traumi subiti da donne e bambini negli ultimi anni e ora in forte aumento con l’assedio e la guerra. Gli stessi insegnanti sono divenuti più aggressivi. E fra i bambini cresce l’aggressività; notano che persino nei nidi d’infanzia cresce l’identificazione politica con i partiti (Hamas o Fatah). E quindi le divisioni. Si cerca di lavorare per diminuire lo stigma con programmi per i bambini per l’accettazione dell’altro/a. Nell’aggressione di gennaio è stato terribile per le famiglie non poter proteggere i propri figli, dover mostrare di essere inermi, così le figure da imitare per i bambini sono sempre più quelle dei combattenti. O meglio, occorre difendersi da soli con le armi. E nelle strade, dopo la festa dell’Eid, in cui vengono fatti doni ai bambini, era visibile l’ostentazione di armi-giocattolo, pistole e mitra di plastica. Deema, la nostra accompagnatrice interviene sottolineando che queste armi finte, come molte di quelle vere, vengono dal confine egiziano attraverso i numerosissimi tunnel.
‘Sollecitati’ da domande di alcuni internazionali, che insistono al limite della provocazione nella evidente interiorizzazione di stereotipi presenti in modo sistematico nei media occidentali, i medici affrontano alcune questioni più politiche: vi sono stati e vi sono politici incapaci di trovare soluzioni da ambo le parti, ma, attenzione, le “colpe” non sono di Hamas, i problemi dei palestinesi nascono molto prima, nel '47-'48. E, a proposito delle “divisioni interne”, dicono di stare molto attenti, perché sono lotte determinate dai poteri esterni.
Le persone qui, dicono, dopo decenni di violazioni dei diritti umani, l’assedio quasi totale a partire dal 2006 e l’ultima guerra di aggressione hanno perso la speranza di essere ascoltati e sostenuti, si sono sentiti abbandonati. C’è paura e disperazione, la sensazione di non riuscire mai a trovare giustizia. Inoltre la gente è stanca di aspettare, non è stupida, capisce che sono stati truffati (allude all’illusione delle elezioni democratiche, vinte regolarmente dal partito ‘Cambiamento e riforme’ di Hamas e alla immediata punizione delle democrazie occidentali, che hanno rifiutato quel risultato, con l'assedio totale). Si dicono stanchi delle visite di gruppi e delegazioni, anche di quelle di leader come Jimmy Carter o Tony Blair che, finito il loro mandato, si mettono a fare i pacifisti. Le visite sono solo visite, se nulla cambia.
Il segretario del Middle East Council of Churches (NECCCRW), Constantine Dabbagh si era espresso alcuni giorni prima su questo punto, ironizzando amaramente sulle democrazie occidentali e, richiesto di cosa possono fare i pacifisti europei e americani, aveva proseguito, indicando il vero problema spesso evitato, quello politico: ”Non vogliamo cibo, medicine, cose materiali, vogliamo libertà, vogliamo essere liberi”.
Alcuni del gruppo, una sera improvvisamente vengono accompagnati a salutare Ahmed Youssef, uno dei leader di Hamas, un moderato come viene definito, poi visitano un tunnel. Descrivono come terribile l’esperienza della discesa su un piccolo asse tenuto da catene dentro un buco nero di 15 metri. Uno solo, che non soffre di ‘claustrofobia’ riesce a scendere. Eppure tutti i giorni nelle centinaia di tunnel passano le merci, dalla frutta agli animali, al carburante egiziano (che costa un quarto di quello israeliano) e altro, di cui sono in questi giorni colme le bancarelle nelle strade. Senza questi mezzi non ci sarebbe scampo per la popolazione.
Incontriamo, su invito di Mohamed (con cui Diana ha lavorato fino al 2006 per progetti di OMS, Municipalità e Centri delle Donne di Gaza, Torino e Haifa) il nuovo sindaco di Gaza, Rafiq Mekky, al quale ci presentiamo e raccontiamo del nostro lavoro in Italia e delle impressioni sulla situazione qui a Gaza. Incontriamo anche Vittorio Arrigoni che ha in progetto di lasciare Gaza dopo circa un anno, con lui Andrew, un ragazzo scozzese, volontario internazionale ISM. Incontriamo Haider Eid, l'alter ego di Omar Barghouti a Gaza, intellettuale lucido che vive con passione sofferta la sua scelta di non tentar neppure più di uscire. “Preferisco morire piuttosto che provare l’esperienza traumatica e umiliante del confine di Rafah”.
6. La vita a Gaza
La sera si va, accompagnati dall’amico Mohamed, in diversi bar all’aperto dove si possono incontrare giovani uomini e donne. Le strade sono piene di gente in queste sere di festa per la fine del digiuno, di giovani, tanti; un’animazione incredibile, tutti quelli che hanno macchina e carburante sono in coda. Il passeggio nella via principale è affollato per i regali da fare. Coppie giovanissime si tengono per mano. In uno dei caffè-ristoranti nel passato più frequentati dalla media borghesia di Gaza city molte giovani donne nei tavoli non accompagnate da familiari sfoggiano i regali, borsette e nuovi foulard colorati o a disegni dorati; tentano di essere alla moda con tacchi alti, alcune senza velo. Uscendo, la percezione è di rinnovata voglia di vivere, inizia un nuovo anno, chissà. Ma forse è solo la sensazione che troviamo in quel luogo preciso, dove più evidenti sono le differenze ‘di classe’, o di prestigio di quelle che erano le grandi famiglie. Atmosfera di vivacità ‘drogata’ di giovani che vogliono dimenticare? In tutti sembra dominare una sensazione di attesa “senza desideri”, e un unico ‘sogno’, per ora impossibile, quello espresso direttamente da una ragazza che ci ha detto “ma noi vorremmo solo essere liberi di uscire di qui, viaggiare, conoscere altri giovani studiare e poi ritornare”.
Mohamed la prima sera aveva immediatamente anticipato questa percezione “siamo qui che ancora aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo, tante delegazioni, tante promesse e poi nulla”. E soggiunge “Si sente prossima nel 2010 un’altra guerra nell’intero Medio Oriente che finirà per coinvolgere anche Gaza”.
Allegato
Gaza: una fossa comune per i “valori” occidentali
Siamo arrivati a Rafah il 17 u.s. insieme al gruppo americano Codepink. Al confine, aperto per qualche giorno, un gruppo di palestinesi sta uscendo. Nei volti di tutti e di tutte il segno della sofferenza, trattenuta con dignità e fierezza e un interrogativo inespresso: che cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo?
Perché qui a Gaza l’occidente, complice di Israele, ha voluto costruire una sua fossa comune, nella quale seppellire in modo così plateale, brutale e definitivo i suoi cosiddetti valori “universali”? .
Gli egiziani fanno il loro lavoro di aguzzini, il percorso nel Sinai è segnato dalla loro servitù all’occidente, dal loro razzismo verso i palestinesi, simile se non peggiore ai nostri respingimenti.
Abbiamo avuto un incontro con il sindaco di Gaza. Gli abbiamo lasciato il nostro libro “boicottare Israele: una pratica non violenta”.
Non ci sono parole, non ci sono immagini, per dire le atrocità che sono state commesse dall’esercito israeliano, che rimane ovviamente, chi ne può dubitare, “l’esercito più morale del mondo”.
Ma il report dell’ONU (rapporto Goldstone) su quanto è accaduto a Gaza inchioda i criminali di guerra israeliani, in modo inappellabile alla loro disumana ferocia.
Boicottare Israele, un dovere morale, un dovere politico.
Ma siamo venuti a Gaza anche per incontrare Vittorio Arrigoni, un non-eroe civile, un non-eroe mite, un non-eroe positivo. Fine del Ramadan, al centro di Gaza, auto, clacson, moltissima gente in strada, volontà di vivere, determinazione a resistere.
C’è ancora speranza se anche questo accade a Gaza!
Diana Carminati e Alfredo Tradardi
ISM-Italia
Gaza, 21 settembre 2009
Nota
Riprenderemo il tema di Gaza come fossa comune dei cosiddetti “valori” universali.
Intanto suggeriamo la lettura almeno del sommario del report “Human rights in Palestine and other occupied Arab territories – Report of the United Nations Fact Finding Mission on the Gaza Conflict”, più noto come rapporto Goldstone, vedi http://sites.google.com/site/italyism/15-gaza-un-genocidio
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