Letteratura sionista: Sez. I. Nirenstein; II. Panella; III. Ottolenghi; IV. Allam; V. Venezia; VI. Gol; VII. Colombo; VIII. Morris; IX.
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Status: 25.10.08
Sommario: 1. Il libro della «fondazione». – 2. «Attriti e scontri». – 3. I gentili. – 4. I diritti innati. – 5. Gli stratagemmi. – 6. La figura di Herzl. – 7. Nazionalismo arabo e sionismo. – 8. Vittime: chi?. –
Quelle che seguono sono note in margine alla lettura in corso del libro di Morris. Le riflessioni vengono raggruppate per singoli paragrafi tematici. Ogni paragrafo potrà essere interamente riscritto e perfino ribaltato nei giudizi e nelle conclusioni. Già prevedo che il tutto potrebbe assumere in consistenza e struttura la dimensione del classico libro, ma è più probabile che mi stanchi presto di Morris e lasci qui tutto allo stato di abbozzo incompiuto, secondo un mio modo di lavorare. Mi basta intuire una verità, per poi abbandonare i dettagli e passare a occuparmi di nuovi più pressanti temi di ricerca. La scrittura in internet consente però di offrire a potenziali lettori i risultati parziali acquisiti. Non avendo essa la fissità della stampa cartacea, è come una creta sempre fresca che può essere continuamente riplasmata.
1. Il libro della «fondazione». – Il libro di Benny Morris dal titolo «La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli stati arabi 1947-1949» sembra essere di poco successivo, o almeno contemporaneo a quello di Ilan Pappe, «La pulizia etnica della Palestina». Di entrambi ho un’edizione italiana dello stesso anno 2008. Del libro di Pappe, letto per primo, ho già impiantato un apposito post, dove mi propongo uno studio supplementare del tragico evento storico, assai poco conosciuto rispetto al “mito” della fondazione dello Stato ebraico, di cui si tende a far passare in cavalleria di che lagrime e sangue esso grondi. Per Ilan Pappe procederò altrove secondo le linee di studio stabilite. La cosa richiederà un suo tempo, ma non sono fortunatamente afflitto con scadenze da dover rispettare e da nessun impegno con editori. Per la lettura del libro di Morris intendo procedere in modo diverso in quanto non lo considero un libro di storia nel senso alto e nobile dell’espressione, ma un libro a carattere ideologico-propagandistico probabilmente redatto allo scopo di contrastare gli effetti del libro di Pappe, che certamente muta l’ordine delle nostre conoscenze su un evento che dopo 60 anni non può ancora considerarsi “trascorso”. La Fiera del Libro di Torino edizione 2008 ha preteso di commemorare il 6o° anniversario della “fondazione” dello Stato di Israele, ignorando e pretendendo di far ignorare cosa esso ha significato ed ancora significa per quanti sono stati letteralmente cacciate dalle loro case in nome dello “Stato ebraico”. È un discorso serio e tragico che stiamo facendo in margine alla lettura di Pappe.
Qui invece intendiamo fare un discorso non serio in margine alla lettura di Morris, le cui pulsioni ideologiche e di parte spuntano fra le righe. Mi sono accorto della sua funzione già dalla citazione interessata di un sionista come Giorgio Israele che lo citava come una fonte di autorità. Mi riesce purtroppo sempre più difficile leggere libri nella misura in cui ogni pagina letta suscita reazioni critica che mi inducono a scriverci sopra. Prima di internet questo genere di riflessioni estemporanee avrebbero dovuto pure esse venire redatte in forme di libro, trovare un editore ed andare ad inflazionare la repubblica delle lettere, dopo aver violentato non poca carte ed altre materie prime necessaria per la produzione di un libro. Adesso basta soltanto avere il tempo disponibile a scrivere, preferibilmente in forma abbastanza comprensibile perché qualche altro possa leggere ed eventualmente aggiungere le sue ulteriori considerazione.
Non riassumo il contenuto del libro già implicito nel suo titolo. Mi limiterò ad osservazioni via via che procedo nella lettura sequenziale. In questo modo certamente la lettura del libro molto richiederà molto più tempo, sottratto ad altri interessi non meno importanti. Del resto, mi è bastato annusare il libro di Morris per capire cosa esso sia e quale scopo si prefigga. Se è mia intenzione contrastarne gli effetti, è giocoforza scriverci qualcosa. Ma basta i preamboli e diamo alla lettura del libro.
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2. «Attriti e scontri». – Fin dal primo rigo Morris lascia già capire il senso della narrazione che seguirà nella successive 517 pagine, esclusi apparati bibliografici, cartine e indici vari. L’Autore non intende narrare le fasi di una colonizzazione del tutto premeditata da più di un secolo, ma colloca invasore ed invaso, occupante ed occupato, vittime e carnefice, esattamente sullo stesso piano come se si trattasse di due litiganti di fronte ai quali che legge può conservare una posizione di terzietà e neutralità, finta o meno. Morris dice cose anche oggettivamente vere sul piano della fattualità. Se non facesse neppure questo, difficilmente potrebbe pretendere la qualifica di storico che indubbiamente gli compete. I fatti però, a ben vedere, dicono poco o nulla senza una loro interpretazione e qualificazione. Qui il filosofo, il giurista o altri specialisti nei disparati ambiti del sapere volano più alto di quanto uno storico possa permettersi, se non sa fare altro che collezionare notizie e informazione trasportando il giornalismo del presente su epoche che sfuggono alla memoria dei più. Fin dalle prime righe e dalle prime pagine si può riconoscere lo stesso Morris che ha consegnato ad alcuni quotidiani le sue valutazioni e le sue posizioni in merito alla quotidianità politica di questa estate 2008, in cui viviamo nel timore che una nuova guerra di aggressione all’Iran – dopo l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano – faccia scorrere nuovi fiumi di sangue nei deserti sabbiosi del Medio Oriente. Il piccolo popolo di Israele può andare davvero fiero di tanto sangue.
Almeno lo storico Morris riconosce l’esistenza di “immigrati ebrei” (p. 17), come pure l’esistenza di “sionisti”, i quali si “contenderebbero” la terra con gli quanti pacificamente già vi abitavano. L’idea della “contesa” contiene già un principio di falsicazione del racconto storico delle successive 500 pagine. Un lettore criticamente avvertito può subito opporre che non di “contesa” si tratta, ma di premeditata occupazione e colonizzazione. Vi è un certo cinismo e una qualche forma di razzismo nella velata convinzione dell’Autore che gli indigeni siano vittime sacrificali predestinate, quasi che un dio abbia stabilito la loro visine in un disegno insondabile di giustizia divina. Alquanto discutibile la collocazione del sionismo nell’alveo del nazionalismo di popoli che una terra su cui già vivevano la possedevano. In fondo per loro si trattava di meri mutamenti istituzionali di sovranità e di forma politica. Non toglievano nulla a nessuno e davano un nome nuovo a se stessi e alle loro terre. Per gli “ebrei” - o come altrimenti li si possa e debba chiamare – le cose non stavano e non stanno affatto così. Direi che Morris dalla sua prima pagina si rivela molto più ideologo di quanto non sia storico. La stessa critica di ideologia non si può muove a Ilan Pappe in quanto egli si limita ad esprimere in parole e segni scritti l’evidenza inconfutabile della pulizia etnica e della colonizzazione. Una dissertazione sul concetto di ideologia ci porterebbe assai lontano. Qui basta averne indicata la problematicità nonché l’uso subdolo che molti ne fanno.
Il richiamo alle origini bibliche del popolo ebraico pare ignori acquisizioni rese recentemente di pubblico dominio secondo cui è sono pure favole tutti i racconti della diaspora e dell’emigrazione del popolo ebraico dopo la distruzione del Tempio. L’ebraismo è una religione con un suo proselitismo e con una sua caratterizzazione che in quanto religione la rende diversa da altre. Su questo mito sono costruite molte pagine nel volume di 517 pagine complessive. L’averne subito qui accennato ci potrà risparmiare di ritornarvi nuovamente. Le opzioni di valore, i pregiudizi dell’Autore si ripetono spesso. Di ognuno di essi si potrebbe dare illustrazione ritornando sempre allo stesso punto.
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3. I gentili. – Credo che nessuno di noi si sia mai autodefinito un “gentile”. È un’espressione che proviene tutta dall’orizzonte mentale giudeo-cristiano che vedono gli altri che non sono loro e li chiamano “gentile”. Questa alterità ebrei / gentile si trova alla radice di problemi millenari. Il tema dell’antisemitismo è fonte di confusione e speculazioni di ogni genere. La “questione ebraica” ha una versione antica ed un moderna, anzi una per ogni epoca ed ogni contesto. Le trasposizioni di differenti ambiti e contesti sono per un verso indice di cattiva filologia e per un’altro consapevole strumentalizzazione di carattere ideologico. Dovendo però in qualche modo orientarci preferiamo qui fissare come inizio della nostra storia l’anno 1789 in cui ogni ebreo era dichiarato cittadino francese. Nel corso dell’Ottocento tutte le costituzioni europee si sono adeguate a quella francese. Il problema è forse sintetizzabile con una semplice domanda: gli ebrei che si erano visti parificare nei diritti a tutti gli altri cittadini erano contenti di questa nuova condizione giuridica ed erano disposti ad assimilarsi ed integrarsi nella società che aveva aperta loro le porte? O non intendevano piuttosto avvalersi di una nuova opportunità restando sempre appartati e potenzialmenti ostili e refrattari verso i gentili, percepiti come una massa di “idolatri”? In altri termini la distinzione fra ebreo e gentile è una distinzione di carattere religioso o di carattere politico? Se un ebreo ritiene di essere un “popolo” a parte nettamente distinto dal popolo nel cui territorio vive, abita, lavora, respira, guadagna, ecc, come pretende di essere percepito da quanti in un certo senso “snobba” nella sua diversità, nel suo sentirsi popolo “eletto”? Forse l’antisemitismo successivo alla rivoluzione francese ed all’epoca dei nazionalismi può trovare una chiave di decifrazione nella stessa peculiarità ebraico. Il caso Dreyfus che scoppiò in Francia alla fine del secolo perché mai avrebbe dovuto produrre una falsa accusa di spionaggio incolpando ingiustamente proprio un ebreo anziché un qualsiasi altri componente della società francese e per giunta incolpandolo di spionaggio in favore dei tedeschi, che a loro volta non erano teneri verso gli ebrei?
Nella prima metà del XX secolo ad uno dei fratelli Rosselli fu chiesto se egli si sentisse innanzitutto un italiano e poi un ebreo. Rispose che si sentiva innanzitutto un italiano. Sembra che questa stessa risposta non sia possibile per una certa parte dei tedeschi dopo il 1945. Uno noto storico della letteratuta tedesco ebbe a rispondere in Roma, ad una serata in suo onore presso un istituto culturale tedesco, che egli si sentiva solo un ebreo e per nulla un tedesco, anche se in Germania godeva di tutti i vantaggi e di tutti gli onori in quanto cittadino tedesco. Scartata ogni facile accusa accusa di antisemitismo, è da chiedersi come un cittadino italiano o tedesco o di altra nazionalità possa percepire un concittadino ebreo che chiaramente considera residuale e strumentale il possedere una cittadinanza italiana o tedesca.
Il messianismo che Morris sembra porre alle origini del sionismo accanto al nazionalismo europeo di fine Ottocento non molto diverso da quel fondamentalismo che oggi viene addebitata all’Islam. Il messianismo fu causa della scissione cristiana ed è il motivo per cui i Romani repressero il giudaismo. Aveva in sé il germe della destabilizzazione di ogni ordine costituito. Al tempo stesso esso può avere accezione molto diverse. Può essere di questo mondo o di un altro mondo. Per quanto riguarda la versione sionista esso ha certamente un significato aggressivo. Invece il fondamentalismo è piuttosto una creazione polemica della propaganda israeliana odierna. Ha in ogni caso una natura difensiva. La fascetta editoriale del libro, l’ultima di copertina, sembra quasi rimproverare ai “vinti” come una loro propria colpa il fatto che: «la guerra del 1948 ha ossessionato il mondo arabo nei livelli più profondi della sua identità collettiva, del suo ego e del suo orgoglio. È stata un’umiliazione da cui quel mondo non si è ancora ripreso». Quei disgraziati, insomma, proprio non si vogliono rassegnare: come non vedere in ciò una punta di razzismo intrinseca al sionismo? Era quanto stava venendo fuori nella conferenza ONU di Durban ai primi di settembre del 2001, pochissimi giorni prima di quell’11 settembre che ha provvidenzialmente guidato la successiva strategia israeliana.
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4. I diritti innati. – Forse non occorre leggere tutte le 648 pagine del libro di Benny Morris per sapere qual è la visione storica che ci vuole trasmettere. Poiché siamo nati per soffrire, berremo fino in fondo il calice per sapere se il fondo dell’amaro liquido è identico ai primi sorsi. Ma intanto ecco il “corretto” pensiero storico del nostro a proposito dei palestinesi che vedevano frotte di ebrei approdare sempre più sulle loro coste: «…Erano vagamente consapevoli dell’antisemitismo che stava spingendo gli ebrei verso la Palestina (e taluni condividevano tale pregiudizio), ma non vedevano alcun motivo per dover dare asilo ai profughi europei o pagare di tasca loro un qualche prezzo per la situazione in cui versavano i giudei d’Europa. Inoltre non riconoscevano il legame storico degli ebrei con la Palestina, negando a questi immigrati di lingua russa, vestiti in modo strano, un diritto innato o una qualunque rivendicazione» (p. 24). È incredibile ciò che si legge e sorge il dubbio che Benny Morris abbia il senso della cronologia storica, essenziale ferro del mestiere. Inoltre poco prima Morris stesso ci rivela come i coloni ebrei consideravano i nativi: «…I nuovi coloni, assediati da un clima nuovo e ostile, da malattie sconosciute e dal brigantaggio, nella migliore delle ipotesi consideravano i nativi come intrusi provenienti dall’Arabia e, nella peggiore, come rivali per il controllo della terra e come potenziali nemici» (p. 21). Per un verso, spostando cento anni addietro una costruzione ideologica del presente, si pretende che i palestinesi di fine Ottocento dovessero accogliere, avendone uno specifico obbligo morale, i coloni che venivano a privarli della loro terra: dovevano pagare un prezzo in riconoscimento della superiorità morale e storica dei colonizzatori. Per altro verso si riconoscevo che costoro non venivano in cerca di solidarietà e non chiedevano pietà e comprensione per guai loro causati da altri, ma venivano da legittimi proprietari a rivendicare un possesso presunto di oltre due mila anni addietro, a rivendicare il loro “legame storico” con il territorio. Se questo non è razzismo bello e buono, travestito da opera di narrazione storica, diventa difficile attribuirgli un genere letterario. Precedenti possono trovarsi nell’opera di Gobineau.
Sulla natura razzista del sionismo lo stesso Morris non lascia dubbi: «Come la maggior parte dei coloni europei del Terzo Mondo, anche gli ebrei consideravano gli abitanti del luogo come individui subdoli e indegni di fiducia e, al tempo stesso, come persone semplici, sporche e pigre. La maggior parte di loro non si preoccupava di imparare l’arabo e alcuni maltrattavano i loro lavoratori arabi, come raccontò il famoso saggista ebreo russo Ahad Ha‘am dopo una sua visita in Palestina nel febbraio-maggio 1891. Oltre cento anni dopo, nel settembre 2001, alla prima conferenza di Durban, questa natura intrinsecamente razzista del sionismo era emersa in tutta la sua chiarezza ai rappresentanti ONU riuniti per studiare il fenomeno e ciò che era nel frattempo divenuta la Palestina, dove non solo gli ebrei non si curavano di imparare l’arabo, ma agli arabi viene ora imposto di imparare l’ebraico, una lingua artificiale riesumata dagli arsenali della storia antica. «Ai nativi, dal canto loro» non può essere rimproverato altro che il fatto di vedere «questo afflusso di immigrati come qualcosa di inspiegabile e i coloni come persone strane, sciocche e infedeli, nonché come una vaga minaccia» (p. 21). In questo punto della lettura e dell’analisi di Morris non sono in grado di stabilire se il nostro Autore abbia sempre pensato le cose che scrive o vi sia stato un mutamento nel corso degli anni. Di lui ho sentito che sarebbe il padre dei “nuovi storici”. Avanzo qui l’ipotesi che questa “nuova storia” nelle intenzioni di Morris fosse fin dall’inizio volta a riconoscere senza infingimenti ed ipocrisie il fatto dell’occupazione e della conquista violenta del territorio palestinese. Ma al tempo stesso volta a farne apologia e a darvi legittimazione. Una vera e propria operazione razzistica: non un “negazionismo” ma uno sfacciato “affermazionismo” del divino diritto ad occupare le terre altrui su un quanto mai discutibile e fantasioso “legame storico” con il territorio da parte dei nuovi occupanti. Ben diversa cosa l’opera degli altri “nuovi storici”, come Ilan Pappe, che si avvalgono dell’apertura degli archivi e del riconoscimento degli stessi dati di fatto per interpretazioni affatto diverse da quelle cui spinge un Benny Morris novello Gobineau. Non sono stati al gioco e addirittura con Shlomo Sand divulgano al grande pubblico la bufala della Diaspora, alla quale Morris ha ancora bisogno di credere per mantenere l’impianto della sua narrazione razzista.
Ahadinejad ha buon gioco nel rispondere a queste argomentazioni che se gli europei si sentono responsabili per il trattamento riservato agli ebrei, ne dovrebbero rispondere loro stessi e non scaricare le loro colpe presunte su terzi ignari e incolpevoli. In realtà gli europei dal 1789 in poi hanno concesso agli ebrei tutto il concedibile, ossia la pienezza della cittadinanza negli stati in cui risiedevano. Resta poi da vedere caso per caso, situazione storica per situazione, quanto il dono sia stato gradito. Per la peculiarità dell’essere ebraico l’assimilazione costituiva un pericolo mortale. Significava diventare a pieno titolo francesi, italiani, tedeschi e così via, riducendo l’ebraicità ad una evanescente caratteristica religiosa quale può essere per ognuno di noi, che si trova battezzato alla nascita per mera convenzione sociale, l’essere cattolico per presunzione, salvo poi nell’età adulta ad assumere più personali convinzioni in materia di religione, etica, morale ovvero a lasciarsi governare dal conformismo sociale. Il carattere di somiglianza o estraneità dell’essere ebraico costituisce buona parte di quell’antisemitismo, la cui natura assume contorni indefiniti e mutevoli nel tempo, ma che non può essere spogliato del suo carattere di “pregiudizio” più o meno storicamente fondato per essere trasformato in una categoria morale, utilizzabile per attribuire “colpe” a questo o ad altri e perfino come base di incriminazione penale. Morris trasferisce questa problematica che sorge in Europa dopo il 1945 alla situazione storica della seconda metà dell’Ottocento. Ogni mediocre studente di storia sa che si tratta di un anacronismo.
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5. Gli stratagemmi. – Morris ci dà l’impressione di un certo disordine morale quando in aggiunta a quanto sopra ci rende edotti come i primi coloni sionisti sentissero il bisogno di ricorrere a “stratagemmi”, non importa se più o meno innocenti. La teoria degli stratagemmi ci induce a prestare attenzione a quello che viene annoverato come un classico dell’antisemitismo e che è bollato come un “falso”. Ci riferiamo ai famigerati “Protocolli dei Savi di Sion” che analizzeremo in altra sezione. È da chiedersi cosa sia che susciti le note forte reazioni: la falsità in sé del documento, parrebbe acclarata, o gli “strategemmi” ivi descritti ed in particolare volti al controllo dei media e dell’opinione pubblica. Era a quest’ultimo elemento di verosimiglianza che aveva inteso riferirsi il filosofo Gianni Vattimo prima di essere travolto da una valanga di accuse di antisemitismo. La teoria degli “stratagemmi”, di cui qui parla Morris, è coeva alla redazione del “Protocolli”. La loro autenticità o falsità è per noi un elemento secondario rispetto alla verosimiglianza degli statagemmi. Posto che i veri autori del libello, fossero i servizi zaristi, doveva trattarsi per lo meno di persone informate ed esperte di ciò che si apprestava ad essere ed a fare il nascente sionismo. È noto che una falsità al cento per cento ha scarsa possibilità di essere creduta e di poter circolare, ma una parziale falsità mischiata ad elementi di verità e di verosimiglianza ha ben altro successo. La teoria sionista degli “stratagemmi” offre interessanti spunti di ricerca e riflessione. Di essa ci rende edotti Benny Morris e sui suoi dati ci basiamo.
Insieme con gli stratagemmi può mettersi la prassi della corruzione. Morris ci rende edotti della superiore moralità sionista attraverso l’impiego di “bustarelle” con le quali qualsiasi funzionario ottomano aveva un suo prezzo. Pertanto potevano essere eluse tutte le direttive del governo a protezione della Palestina. È da chiedersi chi sia moralmente più riprovevole fra il corrotto e il corruttore. Forse lo è di più il corruttore perché guasta moralmente chi riceve la “bustarelle” ma solo dopo aver guastato se stesso: il corrotto è colpevole una sola volta, mentre il corruttore è tre volte spregevole, per se stesso, per quegli che corrompe e per i danni e le sofferenze che produce ai terzi, spesso vittime ignare e innocenti.
6. La figura di Herzl. – Anticipiamo qui alcune ipotesi di lavoro per la nostra analisi ad di fuori degli schemi consueti con cui viene affrontato il problema. Di Herzl, nato nel 1860, morto di sifilide nel 1904, autore nel 1896 del famoso Der Judenstaat (“Lo Stato Ebraico”) si legge in Morris: «È possibile che le discriminazioni antisemite e i pogrom in atto nell’impero zarista avessero già insinuato un tarlo nella sua coscienza, ma fu lo scoppio dell’affare Dreyfus in Francia, nel 1894, a convertire Herz alla causa del sionismo» (p. 21). A noi non interessa quanto Herzl abbia fatto progredire il sionismo, ma se questo sia pure in forme embrionali era precedente lo stesso Herzl e l’affare Dreyfus che sarebbe stato un effetto scatenante. Parrebbe di sì. Nel 1897 si tenne a Basilea il 1° congresso sionista ed è difficile credere che fosse un convegno di studi sul libro di Herz, appena uscito l’anno prima. Non so se esistano gli atti e i verbali del congresso. Potrebbe essere interessante leggerli. L’ipotesi che qui intendo porre e quindi verificare nel prosieguo della ricerca è se sionismo e antisemitismo non possono spiegarsi risalendo ad una causa unica come due facce di una stessa medaglia. Con il riconoscimento della piena eguaglianza dei diritti agli ebrei, a partire dal 1789 con la rivoluzione francese, per gli ebrei diventava in pratica un obbligo l’assimilazione. Se l’ebraismo tende nella sua essenza alla costituzione politica di un popolo ebraico, con tutte le caratteristiche proprie di un popolo, diventa per lo meno ambigua e sospetta la presenza di un popolo “ospite” ma con diritti equiparati e perfino superiori nel territorio del popolo che gli ha concesso piena equiparazione di diritti. Si può chiamare “sionismo” il movimento politico volto alla ricerca di una terra, possibilmente spopolata o bonificabile con una operazione di pulizia etnica, su cui insediare un popolo con doppia cittadinanza, l’una per lucrarne i vantaggi, l’altra per creare discriminazioni non concedendo reciprocità ai concittadini degli stati di provenienza e togliendo progressivamente ogni diritto ai nativi. L’antisemitismo – in cui termine nasce proprio nel XIX secolo – presenta oggi due diversi approcci di studio. Più frequentemente viene considerato sotto una visione moralizzante e normativamente penalizzante. Manca o è carente un approccio volto alla definizione della sua natura ed alla sua comprensione storica.
L’equiparazione dei diritti posta dalla rivoluzione francese e dalle costituzioni liberale del XIX secolo pone all’interno dell’ebraismo la contrapposizione fra “distruzione” e assimilazione. Se per ebraismo deve intendersi non già una normale religione dedita al sacro quanto piuttosto una dottrina politica non possono non enuclearsi i problemi storici effettivamente manifestatisi nei più diversi contesti e in epoche diverse. Fenomeni deprecabili quanto si vuole ogni volta che diano luogo a violenze, ma non per questo incomprensibili. Il termine “distruzione” – che compare in Morris mentre tratta Herzl nel cui testo il termine non credo appaia (lo andrò a verificare) – è stato utilizzato da Hilberg per la sua tesi dello sterminio ebraico, ma è un evento implicitamente temuto dal clero ebraico che paventa l’assimilazione consentita dalle nuove leggi egualitarie. Un ebreo “assimilato” nella società in cui si trova (tedesca, francese, italiana, ecc.) è un ebreo “perso” per la dottrina politica dell’ebraismo ovvero per il mito del Regno e del Messia. Al massimo l’ebreo assimilato opterà per una forma di religiosità non dissimile dall’eresia cristiana che parla non di un Regno terreno ma di un Regno celeste. L’ebreo diventa a pieno titolo e senza riserve o convenienze temporali un cittadino dello stato al pari degli altri. Potrà rispondere come il Rosselli di essere e sentirsi innanzitutto un italiano e solo dopo anche un ebreo, allo stesso modo in cui un altro cittadino potrà dire di sentirsi italiano e poi cattolico, evangelico, mormone, etc.
Insomma, il problema storico della discriminazione e persecuzione degli ebrei va ricercato in primo luogo nella specificità dell’ebraismo. Se un singolo individuo ha occasionalmente una lite con un altro individuo, si potrà immginare che sia stato lui molestato e ingiustamente aggredito. Ma se in ogni tempo e in ogni luogo lo stesso individuo è continuamente coinvolto il liti e risse, si potrà ragionevolmente pensare che la causa di tanto litigio ovvero delle aggressioni da lui subite possa risiedere in lui stesso. È questa la tesi di Lazare, che scrisse il suo libro prima dello scoppio del caso Dreyfus, in epoca non sospetta. Più tardi, dopo il 1945, la questione ebraica si innesterà nelle “sanzioni morali” da infliggere ad un’Europa “distrutta”. Una nozione sempre più vaga di “antisemitismo” diventa criterio di condanna morale e penale. Lo studio storico e scientifico del fenomeno viene inibito. I “nuovi ebrei” diventano quegli storici che si impuntano a voler discutere, verificare, mettere in dubbio, contestare i dati ufficiali di una verità di stato. Addirittura si fissano giornate della Memoria, dove la memoria è fissata ad esempio da un Furio Colombo che riesce ad ottenere le complicità parlamentari necessarie per far passare a maggioranza una legge che impegnerà cittadini estranei a quella decisione quanto mai arbitaria e di natura tale da non poter costituire oggetto di giuridificazione allo stesso modo in cui non più essere fissate per legge le connessioni neurali di ogni singoli individuo della terra. Costoro parlano poi di “diritti umani”, pretendendo di dare l’imprinting ad ogni abitante della terra. Il razzismo etnocentrico che si era preteso di cacciare dalla porta rientra dalla finestra.
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7. Nazionalismo arabo e sionismo. – Al momento appena iniziale della lettura del Libro di Morris ci sembra di aver individuato alcune delle sue linee di costruzione. Se ci sbagliamo, potremo sempre riscrivere o annullare queste righe. In più luoghi Morris sottolinea il fatto che il nazionalismo arabo si andava appena costituendo alla fine dell’Ottocento. Gli indigeni erano dei pochi ignoranti che poco sapevano delle ultime mode intellettuali dell’Europa, fra cui il nazionalismo. In ciò il sionismo, concepito in Europa, era molto più avanti. In pratica il nazionalismo arabo si costruisce in opposizione al sionismo. Poteva anche darsi che i palestinesi ovvero gli arabi della regioni non si accorgessero neppure dei disegni che con grande determinazione e sottili strategemmi il sionismo andava perseguendo. Se non se ne fossero per nulla accorti, non ne sarebbe venuto fuori il pandemonio dei decenni e del secolo successivo. Insomma, il sionismo come una invasione nascosta in mezzo a genti disperse, non aggregate in una unità politica, senza un governo in grado di proteggerli efficacemente, all’interno di un Impero Ottomano in disfacimento, di cui le potenze coloniali europee si andavano dividente le spoglie. In mezzo alle briciole di un corpo politico in putrefazione vi poteva ben essere una parte per il sionismo ed il suo stato. Le genti che in quel territorio abitavano erano “oggetto” di diritto, giammai “soggetto”.
È questo il modo di ragionare di Morris. Decisamente un pensiero razzista che però ignora la genesi del politico. I palestinesi, o in qualsiasi modo Morris voglia chiamare i “nativi”, potevano non avere una particolare consapevolezza politica finché all’interno dell’Impero ottomano – la cui dissoluzione violenta può essere oggi vista come un fenomeno regressivo e funesto – sentivano di avere quella protezione che è il corrispettivo dell’obbedienza da prestare all’autorità legittima. Il nazionalismo è soltanto una ideologia dell’Ottocento, i cui esiti più evidenti sono guerre civili che hanno condotto alla distruzione politica dell’Europa o almeno ne hanno ridotto il peso geopolitico che aveva sempre vuto. Morris crede di poter sottrarre legittimità alla causa palestinese, rilevando la mancanza di quello stesso nazionalismo esasperato che ha sempre caratterizzato il sionismo. È un ragionamento totalmente sbagliato. Nessuno ha diritto di defraudare il prossimo solo perché questo non è abbastanza accorto o forte per potersi difendere e cautelare.
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8. Vittime: chi?. – Ho appena comprato un altro grosso di Benny Morris: “Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001”. Ciò che mi ha subito sorpreso è il lungo elenco di sovvenzioni e finanziamenti che l’Autore ha avuto per la costruzione del libro. Sono certo che simili finanziamenti non vi sarebbero stati se le tesi e le posizioni dell’Autore non fossero stato ben noti fin dall’inizio. Parto dunque prevenuto verso il libro, ma ciò non toglie che la lettura possa essere utile. Basta essere provvisto di spirito critico e saper destrutturare e decostruire l’impianto complessivo di una narrazione di cui è ben detto che si tratta di un conflitto che ormai dura da più di Cento Anni. Il titolo è già ambiguo perché unito al sottotitolo fa pensare ad un comune fascio dove vengono inseriti i coloni occupanti e le vittime indigene. Ma vedremo nel prosieguo del grosso malloppo di 940 pagine indici inclusi. Potendo, compareremo la narrazioni di Morris con altre narrazioni sugli stessi temi. Il lavoro sarà lungo ma ne abbiamo il tempo e nessuno ci corre dietro. Questi sono appunti diaristici apertì alla curiosità di qualche eventuale internauta. Figuriamosi se avessimo noi i finanziamenti di cui Benny Morris ha potuto disporre.
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Quelle che seguono sono note in margine alla lettura in corso del libro di Morris. Le riflessioni vengono raggruppate per singoli paragrafi tematici. Ogni paragrafo potrà essere interamente riscritto e perfino ribaltato nei giudizi e nelle conclusioni. Già prevedo che il tutto potrebbe assumere in consistenza e struttura la dimensione del classico libro, ma è più probabile che mi stanchi presto di Morris e lasci qui tutto allo stato di abbozzo incompiuto, secondo un mio modo di lavorare. Mi basta intuire una verità, per poi abbandonare i dettagli e passare a occuparmi di nuovi più pressanti temi di ricerca. La scrittura in internet consente però di offrire a potenziali lettori i risultati parziali acquisiti. Non avendo essa la fissità della stampa cartacea, è come una creta sempre fresca che può essere continuamente riplasmata.
1. Il libro della «fondazione». – Il libro di Benny Morris dal titolo «La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli stati arabi 1947-1949» sembra essere di poco successivo, o almeno contemporaneo a quello di Ilan Pappe, «La pulizia etnica della Palestina». Di entrambi ho un’edizione italiana dello stesso anno 2008. Del libro di Pappe, letto per primo, ho già impiantato un apposito post, dove mi propongo uno studio supplementare del tragico evento storico, assai poco conosciuto rispetto al “mito” della fondazione dello Stato ebraico, di cui si tende a far passare in cavalleria di che lagrime e sangue esso grondi. Per Ilan Pappe procederò altrove secondo le linee di studio stabilite. La cosa richiederà un suo tempo, ma non sono fortunatamente afflitto con scadenze da dover rispettare e da nessun impegno con editori. Per la lettura del libro di Morris intendo procedere in modo diverso in quanto non lo considero un libro di storia nel senso alto e nobile dell’espressione, ma un libro a carattere ideologico-propagandistico probabilmente redatto allo scopo di contrastare gli effetti del libro di Pappe, che certamente muta l’ordine delle nostre conoscenze su un evento che dopo 60 anni non può ancora considerarsi “trascorso”. La Fiera del Libro di Torino edizione 2008 ha preteso di commemorare il 6o° anniversario della “fondazione” dello Stato di Israele, ignorando e pretendendo di far ignorare cosa esso ha significato ed ancora significa per quanti sono stati letteralmente cacciate dalle loro case in nome dello “Stato ebraico”. È un discorso serio e tragico che stiamo facendo in margine alla lettura di Pappe.
Qui invece intendiamo fare un discorso non serio in margine alla lettura di Morris, le cui pulsioni ideologiche e di parte spuntano fra le righe. Mi sono accorto della sua funzione già dalla citazione interessata di un sionista come Giorgio Israele che lo citava come una fonte di autorità. Mi riesce purtroppo sempre più difficile leggere libri nella misura in cui ogni pagina letta suscita reazioni critica che mi inducono a scriverci sopra. Prima di internet questo genere di riflessioni estemporanee avrebbero dovuto pure esse venire redatte in forme di libro, trovare un editore ed andare ad inflazionare la repubblica delle lettere, dopo aver violentato non poca carte ed altre materie prime necessaria per la produzione di un libro. Adesso basta soltanto avere il tempo disponibile a scrivere, preferibilmente in forma abbastanza comprensibile perché qualche altro possa leggere ed eventualmente aggiungere le sue ulteriori considerazione.
Non riassumo il contenuto del libro già implicito nel suo titolo. Mi limiterò ad osservazioni via via che procedo nella lettura sequenziale. In questo modo certamente la lettura del libro molto richiederà molto più tempo, sottratto ad altri interessi non meno importanti. Del resto, mi è bastato annusare il libro di Morris per capire cosa esso sia e quale scopo si prefigga. Se è mia intenzione contrastarne gli effetti, è giocoforza scriverci qualcosa. Ma basta i preamboli e diamo alla lettura del libro.
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2. «Attriti e scontri». – Fin dal primo rigo Morris lascia già capire il senso della narrazione che seguirà nella successive 517 pagine, esclusi apparati bibliografici, cartine e indici vari. L’Autore non intende narrare le fasi di una colonizzazione del tutto premeditata da più di un secolo, ma colloca invasore ed invaso, occupante ed occupato, vittime e carnefice, esattamente sullo stesso piano come se si trattasse di due litiganti di fronte ai quali che legge può conservare una posizione di terzietà e neutralità, finta o meno. Morris dice cose anche oggettivamente vere sul piano della fattualità. Se non facesse neppure questo, difficilmente potrebbe pretendere la qualifica di storico che indubbiamente gli compete. I fatti però, a ben vedere, dicono poco o nulla senza una loro interpretazione e qualificazione. Qui il filosofo, il giurista o altri specialisti nei disparati ambiti del sapere volano più alto di quanto uno storico possa permettersi, se non sa fare altro che collezionare notizie e informazione trasportando il giornalismo del presente su epoche che sfuggono alla memoria dei più. Fin dalle prime righe e dalle prime pagine si può riconoscere lo stesso Morris che ha consegnato ad alcuni quotidiani le sue valutazioni e le sue posizioni in merito alla quotidianità politica di questa estate 2008, in cui viviamo nel timore che una nuova guerra di aggressione all’Iran – dopo l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano – faccia scorrere nuovi fiumi di sangue nei deserti sabbiosi del Medio Oriente. Il piccolo popolo di Israele può andare davvero fiero di tanto sangue.
Almeno lo storico Morris riconosce l’esistenza di “immigrati ebrei” (p. 17), come pure l’esistenza di “sionisti”, i quali si “contenderebbero” la terra con gli quanti pacificamente già vi abitavano. L’idea della “contesa” contiene già un principio di falsicazione del racconto storico delle successive 500 pagine. Un lettore criticamente avvertito può subito opporre che non di “contesa” si tratta, ma di premeditata occupazione e colonizzazione. Vi è un certo cinismo e una qualche forma di razzismo nella velata convinzione dell’Autore che gli indigeni siano vittime sacrificali predestinate, quasi che un dio abbia stabilito la loro visine in un disegno insondabile di giustizia divina. Alquanto discutibile la collocazione del sionismo nell’alveo del nazionalismo di popoli che una terra su cui già vivevano la possedevano. In fondo per loro si trattava di meri mutamenti istituzionali di sovranità e di forma politica. Non toglievano nulla a nessuno e davano un nome nuovo a se stessi e alle loro terre. Per gli “ebrei” - o come altrimenti li si possa e debba chiamare – le cose non stavano e non stanno affatto così. Direi che Morris dalla sua prima pagina si rivela molto più ideologo di quanto non sia storico. La stessa critica di ideologia non si può muove a Ilan Pappe in quanto egli si limita ad esprimere in parole e segni scritti l’evidenza inconfutabile della pulizia etnica e della colonizzazione. Una dissertazione sul concetto di ideologia ci porterebbe assai lontano. Qui basta averne indicata la problematicità nonché l’uso subdolo che molti ne fanno.
Il richiamo alle origini bibliche del popolo ebraico pare ignori acquisizioni rese recentemente di pubblico dominio secondo cui è sono pure favole tutti i racconti della diaspora e dell’emigrazione del popolo ebraico dopo la distruzione del Tempio. L’ebraismo è una religione con un suo proselitismo e con una sua caratterizzazione che in quanto religione la rende diversa da altre. Su questo mito sono costruite molte pagine nel volume di 517 pagine complessive. L’averne subito qui accennato ci potrà risparmiare di ritornarvi nuovamente. Le opzioni di valore, i pregiudizi dell’Autore si ripetono spesso. Di ognuno di essi si potrebbe dare illustrazione ritornando sempre allo stesso punto.
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3. I gentili. – Credo che nessuno di noi si sia mai autodefinito un “gentile”. È un’espressione che proviene tutta dall’orizzonte mentale giudeo-cristiano che vedono gli altri che non sono loro e li chiamano “gentile”. Questa alterità ebrei / gentile si trova alla radice di problemi millenari. Il tema dell’antisemitismo è fonte di confusione e speculazioni di ogni genere. La “questione ebraica” ha una versione antica ed un moderna, anzi una per ogni epoca ed ogni contesto. Le trasposizioni di differenti ambiti e contesti sono per un verso indice di cattiva filologia e per un’altro consapevole strumentalizzazione di carattere ideologico. Dovendo però in qualche modo orientarci preferiamo qui fissare come inizio della nostra storia l’anno 1789 in cui ogni ebreo era dichiarato cittadino francese. Nel corso dell’Ottocento tutte le costituzioni europee si sono adeguate a quella francese. Il problema è forse sintetizzabile con una semplice domanda: gli ebrei che si erano visti parificare nei diritti a tutti gli altri cittadini erano contenti di questa nuova condizione giuridica ed erano disposti ad assimilarsi ed integrarsi nella società che aveva aperta loro le porte? O non intendevano piuttosto avvalersi di una nuova opportunità restando sempre appartati e potenzialmenti ostili e refrattari verso i gentili, percepiti come una massa di “idolatri”? In altri termini la distinzione fra ebreo e gentile è una distinzione di carattere religioso o di carattere politico? Se un ebreo ritiene di essere un “popolo” a parte nettamente distinto dal popolo nel cui territorio vive, abita, lavora, respira, guadagna, ecc, come pretende di essere percepito da quanti in un certo senso “snobba” nella sua diversità, nel suo sentirsi popolo “eletto”? Forse l’antisemitismo successivo alla rivoluzione francese ed all’epoca dei nazionalismi può trovare una chiave di decifrazione nella stessa peculiarità ebraico. Il caso Dreyfus che scoppiò in Francia alla fine del secolo perché mai avrebbe dovuto produrre una falsa accusa di spionaggio incolpando ingiustamente proprio un ebreo anziché un qualsiasi altri componente della società francese e per giunta incolpandolo di spionaggio in favore dei tedeschi, che a loro volta non erano teneri verso gli ebrei?
Nella prima metà del XX secolo ad uno dei fratelli Rosselli fu chiesto se egli si sentisse innanzitutto un italiano e poi un ebreo. Rispose che si sentiva innanzitutto un italiano. Sembra che questa stessa risposta non sia possibile per una certa parte dei tedeschi dopo il 1945. Uno noto storico della letteratuta tedesco ebbe a rispondere in Roma, ad una serata in suo onore presso un istituto culturale tedesco, che egli si sentiva solo un ebreo e per nulla un tedesco, anche se in Germania godeva di tutti i vantaggi e di tutti gli onori in quanto cittadino tedesco. Scartata ogni facile accusa accusa di antisemitismo, è da chiedersi come un cittadino italiano o tedesco o di altra nazionalità possa percepire un concittadino ebreo che chiaramente considera residuale e strumentale il possedere una cittadinanza italiana o tedesca.
Il messianismo che Morris sembra porre alle origini del sionismo accanto al nazionalismo europeo di fine Ottocento non molto diverso da quel fondamentalismo che oggi viene addebitata all’Islam. Il messianismo fu causa della scissione cristiana ed è il motivo per cui i Romani repressero il giudaismo. Aveva in sé il germe della destabilizzazione di ogni ordine costituito. Al tempo stesso esso può avere accezione molto diverse. Può essere di questo mondo o di un altro mondo. Per quanto riguarda la versione sionista esso ha certamente un significato aggressivo. Invece il fondamentalismo è piuttosto una creazione polemica della propaganda israeliana odierna. Ha in ogni caso una natura difensiva. La fascetta editoriale del libro, l’ultima di copertina, sembra quasi rimproverare ai “vinti” come una loro propria colpa il fatto che: «la guerra del 1948 ha ossessionato il mondo arabo nei livelli più profondi della sua identità collettiva, del suo ego e del suo orgoglio. È stata un’umiliazione da cui quel mondo non si è ancora ripreso». Quei disgraziati, insomma, proprio non si vogliono rassegnare: come non vedere in ciò una punta di razzismo intrinseca al sionismo? Era quanto stava venendo fuori nella conferenza ONU di Durban ai primi di settembre del 2001, pochissimi giorni prima di quell’11 settembre che ha provvidenzialmente guidato la successiva strategia israeliana.
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4. I diritti innati. – Forse non occorre leggere tutte le 648 pagine del libro di Benny Morris per sapere qual è la visione storica che ci vuole trasmettere. Poiché siamo nati per soffrire, berremo fino in fondo il calice per sapere se il fondo dell’amaro liquido è identico ai primi sorsi. Ma intanto ecco il “corretto” pensiero storico del nostro a proposito dei palestinesi che vedevano frotte di ebrei approdare sempre più sulle loro coste: «…Erano vagamente consapevoli dell’antisemitismo che stava spingendo gli ebrei verso la Palestina (e taluni condividevano tale pregiudizio), ma non vedevano alcun motivo per dover dare asilo ai profughi europei o pagare di tasca loro un qualche prezzo per la situazione in cui versavano i giudei d’Europa. Inoltre non riconoscevano il legame storico degli ebrei con la Palestina, negando a questi immigrati di lingua russa, vestiti in modo strano, un diritto innato o una qualunque rivendicazione» (p. 24). È incredibile ciò che si legge e sorge il dubbio che Benny Morris abbia il senso della cronologia storica, essenziale ferro del mestiere. Inoltre poco prima Morris stesso ci rivela come i coloni ebrei consideravano i nativi: «…I nuovi coloni, assediati da un clima nuovo e ostile, da malattie sconosciute e dal brigantaggio, nella migliore delle ipotesi consideravano i nativi come intrusi provenienti dall’Arabia e, nella peggiore, come rivali per il controllo della terra e come potenziali nemici» (p. 21). Per un verso, spostando cento anni addietro una costruzione ideologica del presente, si pretende che i palestinesi di fine Ottocento dovessero accogliere, avendone uno specifico obbligo morale, i coloni che venivano a privarli della loro terra: dovevano pagare un prezzo in riconoscimento della superiorità morale e storica dei colonizzatori. Per altro verso si riconoscevo che costoro non venivano in cerca di solidarietà e non chiedevano pietà e comprensione per guai loro causati da altri, ma venivano da legittimi proprietari a rivendicare un possesso presunto di oltre due mila anni addietro, a rivendicare il loro “legame storico” con il territorio. Se questo non è razzismo bello e buono, travestito da opera di narrazione storica, diventa difficile attribuirgli un genere letterario. Precedenti possono trovarsi nell’opera di Gobineau.
Sulla natura razzista del sionismo lo stesso Morris non lascia dubbi: «Come la maggior parte dei coloni europei del Terzo Mondo, anche gli ebrei consideravano gli abitanti del luogo come individui subdoli e indegni di fiducia e, al tempo stesso, come persone semplici, sporche e pigre. La maggior parte di loro non si preoccupava di imparare l’arabo e alcuni maltrattavano i loro lavoratori arabi, come raccontò il famoso saggista ebreo russo Ahad Ha‘am dopo una sua visita in Palestina nel febbraio-maggio 1891. Oltre cento anni dopo, nel settembre 2001, alla prima conferenza di Durban, questa natura intrinsecamente razzista del sionismo era emersa in tutta la sua chiarezza ai rappresentanti ONU riuniti per studiare il fenomeno e ciò che era nel frattempo divenuta la Palestina, dove non solo gli ebrei non si curavano di imparare l’arabo, ma agli arabi viene ora imposto di imparare l’ebraico, una lingua artificiale riesumata dagli arsenali della storia antica. «Ai nativi, dal canto loro» non può essere rimproverato altro che il fatto di vedere «questo afflusso di immigrati come qualcosa di inspiegabile e i coloni come persone strane, sciocche e infedeli, nonché come una vaga minaccia» (p. 21). In questo punto della lettura e dell’analisi di Morris non sono in grado di stabilire se il nostro Autore abbia sempre pensato le cose che scrive o vi sia stato un mutamento nel corso degli anni. Di lui ho sentito che sarebbe il padre dei “nuovi storici”. Avanzo qui l’ipotesi che questa “nuova storia” nelle intenzioni di Morris fosse fin dall’inizio volta a riconoscere senza infingimenti ed ipocrisie il fatto dell’occupazione e della conquista violenta del territorio palestinese. Ma al tempo stesso volta a farne apologia e a darvi legittimazione. Una vera e propria operazione razzistica: non un “negazionismo” ma uno sfacciato “affermazionismo” del divino diritto ad occupare le terre altrui su un quanto mai discutibile e fantasioso “legame storico” con il territorio da parte dei nuovi occupanti. Ben diversa cosa l’opera degli altri “nuovi storici”, come Ilan Pappe, che si avvalgono dell’apertura degli archivi e del riconoscimento degli stessi dati di fatto per interpretazioni affatto diverse da quelle cui spinge un Benny Morris novello Gobineau. Non sono stati al gioco e addirittura con Shlomo Sand divulgano al grande pubblico la bufala della Diaspora, alla quale Morris ha ancora bisogno di credere per mantenere l’impianto della sua narrazione razzista.
Ahadinejad ha buon gioco nel rispondere a queste argomentazioni che se gli europei si sentono responsabili per il trattamento riservato agli ebrei, ne dovrebbero rispondere loro stessi e non scaricare le loro colpe presunte su terzi ignari e incolpevoli. In realtà gli europei dal 1789 in poi hanno concesso agli ebrei tutto il concedibile, ossia la pienezza della cittadinanza negli stati in cui risiedevano. Resta poi da vedere caso per caso, situazione storica per situazione, quanto il dono sia stato gradito. Per la peculiarità dell’essere ebraico l’assimilazione costituiva un pericolo mortale. Significava diventare a pieno titolo francesi, italiani, tedeschi e così via, riducendo l’ebraicità ad una evanescente caratteristica religiosa quale può essere per ognuno di noi, che si trova battezzato alla nascita per mera convenzione sociale, l’essere cattolico per presunzione, salvo poi nell’età adulta ad assumere più personali convinzioni in materia di religione, etica, morale ovvero a lasciarsi governare dal conformismo sociale. Il carattere di somiglianza o estraneità dell’essere ebraico costituisce buona parte di quell’antisemitismo, la cui natura assume contorni indefiniti e mutevoli nel tempo, ma che non può essere spogliato del suo carattere di “pregiudizio” più o meno storicamente fondato per essere trasformato in una categoria morale, utilizzabile per attribuire “colpe” a questo o ad altri e perfino come base di incriminazione penale. Morris trasferisce questa problematica che sorge in Europa dopo il 1945 alla situazione storica della seconda metà dell’Ottocento. Ogni mediocre studente di storia sa che si tratta di un anacronismo.
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5. Gli stratagemmi. – Morris ci dà l’impressione di un certo disordine morale quando in aggiunta a quanto sopra ci rende edotti come i primi coloni sionisti sentissero il bisogno di ricorrere a “stratagemmi”, non importa se più o meno innocenti. La teoria degli stratagemmi ci induce a prestare attenzione a quello che viene annoverato come un classico dell’antisemitismo e che è bollato come un “falso”. Ci riferiamo ai famigerati “Protocolli dei Savi di Sion” che analizzeremo in altra sezione. È da chiedersi cosa sia che susciti le note forte reazioni: la falsità in sé del documento, parrebbe acclarata, o gli “strategemmi” ivi descritti ed in particolare volti al controllo dei media e dell’opinione pubblica. Era a quest’ultimo elemento di verosimiglianza che aveva inteso riferirsi il filosofo Gianni Vattimo prima di essere travolto da una valanga di accuse di antisemitismo. La teoria degli “stratagemmi”, di cui qui parla Morris, è coeva alla redazione del “Protocolli”. La loro autenticità o falsità è per noi un elemento secondario rispetto alla verosimiglianza degli statagemmi. Posto che i veri autori del libello, fossero i servizi zaristi, doveva trattarsi per lo meno di persone informate ed esperte di ciò che si apprestava ad essere ed a fare il nascente sionismo. È noto che una falsità al cento per cento ha scarsa possibilità di essere creduta e di poter circolare, ma una parziale falsità mischiata ad elementi di verità e di verosimiglianza ha ben altro successo. La teoria sionista degli “stratagemmi” offre interessanti spunti di ricerca e riflessione. Di essa ci rende edotti Benny Morris e sui suoi dati ci basiamo.
Insieme con gli stratagemmi può mettersi la prassi della corruzione. Morris ci rende edotti della superiore moralità sionista attraverso l’impiego di “bustarelle” con le quali qualsiasi funzionario ottomano aveva un suo prezzo. Pertanto potevano essere eluse tutte le direttive del governo a protezione della Palestina. È da chiedersi chi sia moralmente più riprovevole fra il corrotto e il corruttore. Forse lo è di più il corruttore perché guasta moralmente chi riceve la “bustarelle” ma solo dopo aver guastato se stesso: il corrotto è colpevole una sola volta, mentre il corruttore è tre volte spregevole, per se stesso, per quegli che corrompe e per i danni e le sofferenze che produce ai terzi, spesso vittime ignare e innocenti.
6. La figura di Herzl. – Anticipiamo qui alcune ipotesi di lavoro per la nostra analisi ad di fuori degli schemi consueti con cui viene affrontato il problema. Di Herzl, nato nel 1860, morto di sifilide nel 1904, autore nel 1896 del famoso Der Judenstaat (“Lo Stato Ebraico”) si legge in Morris: «È possibile che le discriminazioni antisemite e i pogrom in atto nell’impero zarista avessero già insinuato un tarlo nella sua coscienza, ma fu lo scoppio dell’affare Dreyfus in Francia, nel 1894, a convertire Herz alla causa del sionismo» (p. 21). A noi non interessa quanto Herzl abbia fatto progredire il sionismo, ma se questo sia pure in forme embrionali era precedente lo stesso Herzl e l’affare Dreyfus che sarebbe stato un effetto scatenante. Parrebbe di sì. Nel 1897 si tenne a Basilea il 1° congresso sionista ed è difficile credere che fosse un convegno di studi sul libro di Herz, appena uscito l’anno prima. Non so se esistano gli atti e i verbali del congresso. Potrebbe essere interessante leggerli. L’ipotesi che qui intendo porre e quindi verificare nel prosieguo della ricerca è se sionismo e antisemitismo non possono spiegarsi risalendo ad una causa unica come due facce di una stessa medaglia. Con il riconoscimento della piena eguaglianza dei diritti agli ebrei, a partire dal 1789 con la rivoluzione francese, per gli ebrei diventava in pratica un obbligo l’assimilazione. Se l’ebraismo tende nella sua essenza alla costituzione politica di un popolo ebraico, con tutte le caratteristiche proprie di un popolo, diventa per lo meno ambigua e sospetta la presenza di un popolo “ospite” ma con diritti equiparati e perfino superiori nel territorio del popolo che gli ha concesso piena equiparazione di diritti. Si può chiamare “sionismo” il movimento politico volto alla ricerca di una terra, possibilmente spopolata o bonificabile con una operazione di pulizia etnica, su cui insediare un popolo con doppia cittadinanza, l’una per lucrarne i vantaggi, l’altra per creare discriminazioni non concedendo reciprocità ai concittadini degli stati di provenienza e togliendo progressivamente ogni diritto ai nativi. L’antisemitismo – in cui termine nasce proprio nel XIX secolo – presenta oggi due diversi approcci di studio. Più frequentemente viene considerato sotto una visione moralizzante e normativamente penalizzante. Manca o è carente un approccio volto alla definizione della sua natura ed alla sua comprensione storica.
L’equiparazione dei diritti posta dalla rivoluzione francese e dalle costituzioni liberale del XIX secolo pone all’interno dell’ebraismo la contrapposizione fra “distruzione” e assimilazione. Se per ebraismo deve intendersi non già una normale religione dedita al sacro quanto piuttosto una dottrina politica non possono non enuclearsi i problemi storici effettivamente manifestatisi nei più diversi contesti e in epoche diverse. Fenomeni deprecabili quanto si vuole ogni volta che diano luogo a violenze, ma non per questo incomprensibili. Il termine “distruzione” – che compare in Morris mentre tratta Herzl nel cui testo il termine non credo appaia (lo andrò a verificare) – è stato utilizzato da Hilberg per la sua tesi dello sterminio ebraico, ma è un evento implicitamente temuto dal clero ebraico che paventa l’assimilazione consentita dalle nuove leggi egualitarie. Un ebreo “assimilato” nella società in cui si trova (tedesca, francese, italiana, ecc.) è un ebreo “perso” per la dottrina politica dell’ebraismo ovvero per il mito del Regno e del Messia. Al massimo l’ebreo assimilato opterà per una forma di religiosità non dissimile dall’eresia cristiana che parla non di un Regno terreno ma di un Regno celeste. L’ebreo diventa a pieno titolo e senza riserve o convenienze temporali un cittadino dello stato al pari degli altri. Potrà rispondere come il Rosselli di essere e sentirsi innanzitutto un italiano e solo dopo anche un ebreo, allo stesso modo in cui un altro cittadino potrà dire di sentirsi italiano e poi cattolico, evangelico, mormone, etc.
Insomma, il problema storico della discriminazione e persecuzione degli ebrei va ricercato in primo luogo nella specificità dell’ebraismo. Se un singolo individuo ha occasionalmente una lite con un altro individuo, si potrà immginare che sia stato lui molestato e ingiustamente aggredito. Ma se in ogni tempo e in ogni luogo lo stesso individuo è continuamente coinvolto il liti e risse, si potrà ragionevolmente pensare che la causa di tanto litigio ovvero delle aggressioni da lui subite possa risiedere in lui stesso. È questa la tesi di Lazare, che scrisse il suo libro prima dello scoppio del caso Dreyfus, in epoca non sospetta. Più tardi, dopo il 1945, la questione ebraica si innesterà nelle “sanzioni morali” da infliggere ad un’Europa “distrutta”. Una nozione sempre più vaga di “antisemitismo” diventa criterio di condanna morale e penale. Lo studio storico e scientifico del fenomeno viene inibito. I “nuovi ebrei” diventano quegli storici che si impuntano a voler discutere, verificare, mettere in dubbio, contestare i dati ufficiali di una verità di stato. Addirittura si fissano giornate della Memoria, dove la memoria è fissata ad esempio da un Furio Colombo che riesce ad ottenere le complicità parlamentari necessarie per far passare a maggioranza una legge che impegnerà cittadini estranei a quella decisione quanto mai arbitaria e di natura tale da non poter costituire oggetto di giuridificazione allo stesso modo in cui non più essere fissate per legge le connessioni neurali di ogni singoli individuo della terra. Costoro parlano poi di “diritti umani”, pretendendo di dare l’imprinting ad ogni abitante della terra. Il razzismo etnocentrico che si era preteso di cacciare dalla porta rientra dalla finestra.
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7. Nazionalismo arabo e sionismo. – Al momento appena iniziale della lettura del Libro di Morris ci sembra di aver individuato alcune delle sue linee di costruzione. Se ci sbagliamo, potremo sempre riscrivere o annullare queste righe. In più luoghi Morris sottolinea il fatto che il nazionalismo arabo si andava appena costituendo alla fine dell’Ottocento. Gli indigeni erano dei pochi ignoranti che poco sapevano delle ultime mode intellettuali dell’Europa, fra cui il nazionalismo. In ciò il sionismo, concepito in Europa, era molto più avanti. In pratica il nazionalismo arabo si costruisce in opposizione al sionismo. Poteva anche darsi che i palestinesi ovvero gli arabi della regioni non si accorgessero neppure dei disegni che con grande determinazione e sottili strategemmi il sionismo andava perseguendo. Se non se ne fossero per nulla accorti, non ne sarebbe venuto fuori il pandemonio dei decenni e del secolo successivo. Insomma, il sionismo come una invasione nascosta in mezzo a genti disperse, non aggregate in una unità politica, senza un governo in grado di proteggerli efficacemente, all’interno di un Impero Ottomano in disfacimento, di cui le potenze coloniali europee si andavano dividente le spoglie. In mezzo alle briciole di un corpo politico in putrefazione vi poteva ben essere una parte per il sionismo ed il suo stato. Le genti che in quel territorio abitavano erano “oggetto” di diritto, giammai “soggetto”.
È questo il modo di ragionare di Morris. Decisamente un pensiero razzista che però ignora la genesi del politico. I palestinesi, o in qualsiasi modo Morris voglia chiamare i “nativi”, potevano non avere una particolare consapevolezza politica finché all’interno dell’Impero ottomano – la cui dissoluzione violenta può essere oggi vista come un fenomeno regressivo e funesto – sentivano di avere quella protezione che è il corrispettivo dell’obbedienza da prestare all’autorità legittima. Il nazionalismo è soltanto una ideologia dell’Ottocento, i cui esiti più evidenti sono guerre civili che hanno condotto alla distruzione politica dell’Europa o almeno ne hanno ridotto il peso geopolitico che aveva sempre vuto. Morris crede di poter sottrarre legittimità alla causa palestinese, rilevando la mancanza di quello stesso nazionalismo esasperato che ha sempre caratterizzato il sionismo. È un ragionamento totalmente sbagliato. Nessuno ha diritto di defraudare il prossimo solo perché questo non è abbastanza accorto o forte per potersi difendere e cautelare.
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8. Vittime: chi?. – Ho appena comprato un altro grosso di Benny Morris: “Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001”. Ciò che mi ha subito sorpreso è il lungo elenco di sovvenzioni e finanziamenti che l’Autore ha avuto per la costruzione del libro. Sono certo che simili finanziamenti non vi sarebbero stati se le tesi e le posizioni dell’Autore non fossero stato ben noti fin dall’inizio. Parto dunque prevenuto verso il libro, ma ciò non toglie che la lettura possa essere utile. Basta essere provvisto di spirito critico e saper destrutturare e decostruire l’impianto complessivo di una narrazione di cui è ben detto che si tratta di un conflitto che ormai dura da più di Cento Anni. Il titolo è già ambiguo perché unito al sottotitolo fa pensare ad un comune fascio dove vengono inseriti i coloni occupanti e le vittime indigene. Ma vedremo nel prosieguo del grosso malloppo di 940 pagine indici inclusi. Potendo, compareremo la narrazioni di Morris con altre narrazioni sugli stessi temi. Il lavoro sarà lungo ma ne abbiamo il tempo e nessuno ci corre dietro. Questi sono appunti diaristici apertì alla curiosità di qualche eventuale internauta. Figuriamosi se avessimo noi i finanziamenti di cui Benny Morris ha potuto disporre.