giovedì 3 luglio 2008

Israeliani: 61. Amos Oz e i turbamenti della coscienza ebraica.


Premetto che non ho nessun interesse all’opera letteraria di Amos Oz. Solo di rado leggo romanzi. Sono troppo impegnato ad attingere il “vero” che a stento si trova nei libri di storia, filosofia, scienza per dedicare eccessivo al “verosimile” dei romanzi e delle fictions, che molto spesso servono al pubblico deliberate menzogno, non sempre per fortuna. Amos Oz mi interessa qui soltanto in quanto uomo politico che si esprime o prende posizione su uno dei conflitti più cruciali della nostra epoca che tocca la vita fisica di quanti sono direttamente esposti ai pericoli della guerra, della resistenza civile, degli attentati suicidi, del terrorismo di stato, ma tocca anche la coscienza morale di quanto volgono il loro sguardo verso quelle martoriate regioni del mondo e si interrogano sul perché di tanta ferocia e disperazione. Di recente ho cambiato di posto ad Amos Oz in seguito al giudizio che di lui ne dà Omar Barghouti. L’analisi precedentemente svolta è tutta da rivedere.

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1. La non partecipazione alla Fiera del Libro. – L’elemento più solido per una difficile analisi di una posizione intermedia quale pare essere quella di Amos Oz mi sembra la sua mancata partecipazione alla Fiera del Libro. Si è tentato di mascherare l’evento come se esso riguardasse la cultura che è idialliaca comunicazione di belli spiriti avulsi dal mondo e dai suoi interessi materiali. In realtà i primi ad essere legati agli interessi materiali sono gli scrittori ed i poeti che non avrebbe di che cantare se qualcuno non desse loro l’agio per il canto. Mi dispiace di non aver trovato una vignetta che ritraeva una colomba trafitta da un missile. Credo che fosse una giusta satira di un romanzo dove si favoleggia di innamorati e di colombe. Se Amos Oz non è andato alla Fiera, e non si è trattato di una sua banale indisposizione fisica, credo che abbia avuto l’intelligenza politica per capire di cosa in realtà si trattava: della Nakba. Era questa il vero anniversario. L’unico evento che si potesse ragionevolmente ricordare. Diversamente, i romanzieri posson ben fare la parte degli scrittori che con fiumi di inchiostro hanno trasformato in epopea ciò che è stato un autentico massacro, un genocidio per il quale non vi è stato nessun Tribunale di Norimberga. Infatti, un simile tribunale non conveniva a nessuno, non era un ulteriore strumento di guerra, una sorta di Hiroshima del diritto e della morale.

Idealmente mi sono dichiarato Boicottare fin dagli inizi delle manifestazioni, ma non mi sono mosso di casa, non sono salito su un pulman per andare a manifestare a Torino. Ero però spritualmente con quelli che ci sono andato. Ma se fossi stato presente ed Amos Oz o chiunque altro avesse invece deciso di andare ad onorare i 6o anni della fondazione dello stato di Israele, certamente non gli avrei sbarrato fisicamente la strada o esercitato su di lui il benché minimo atto coercitivo sul libero dispiegamento della sua volontà consapevole. Mi sarebbe bastato se con lui avessi potuto incrociare per un istante lo sguardo ed attraverso lo sguardo comunicargli ciò che passava per la mia mente. Questo boicottaggio vi è stato ed in un certo senso ha avuto pieno successo nella misura in cui gli altri hanno saputo che qualcuno non ci stava ed era di diverso avviso. Quanto poi alla mostra in se, prorpio la sera stessa in cui era terminata, ne ho potuto avere il resoconto di prima mano da parte di un espositore. Il quadro che me ne ha fatto non aveva nulla di trionfalistico.

Giova però riportare per intero il brano di chi muova ad Amos Oz l’appunto di non esserci andato alla Fiera del Libro di Torino:
Mi chiedo come mai non sei venuto alla Fiera del Libro di Torino, eppure Israele era ospite d’onore e tu sei uno dei massimi esponenti della sua letteratura. Visto che l’anno scorso c’eri, e sono pronto a scommettere che ci sarai anche il prossimo anno, come mai proprio nel 2008 sei mancato? Come mai non sei riuscito a trovare neanche mezz’ora per fare visita ad una delle kermesse più importanti al mondo sia dal punto di vista editoriale sia letterario?

La tua presenza avrebbe avuto un rilievo enorme ed avrebbe dato importanza alla tua nazione in un particolare momento di cultura, musica e incontro con la gente che, curiosa ed amichevole, affollava lo stand dove era raccolto tutto quanto di buono Israele realizza per il suo popolo e per il mondo intero. Un momento per certi versi irripetibile, e tu lo hai perso. Non sarà forse che non volevi inimicarti la cara “Sinistra” che aveva deciso lo stolto boicottaggio? Non sarà che se avessi partecipato avresti perso la “carica” di israeliano “buono”?
È da qui che inizio il mio tentativo di analisi della posizione politica di Amos Oz. Il brano riportato è di Machael Sfaradi, che dall’«Opinione di Arturo Diaconale» conduce una propaganda tutta sionista senza se e senza ma, come ama esprimersi un altro “diacono” della testata. Per costoro una posizione moderata come quella dei due stati è una concessione troppo onerosa. Se non proprio lo sterminio fisico dei palestinesi, il loro obiettivo è una diversa forma di genocidio che comporta la riduzione di un popolo a mera moltitudine da trattare con mezzi amministrativi e polizieschi. Per una simile politica hanno un vitale bisogno del sostegno militare ed economico degli Usa insieme con la copertura ideologica dei paesi europei. Per questo la lotta ideologica è più virulenta che mai, fino a prevedere il carcere per chi ha soltanto un diverso di vedere e pensare e lo dice pure!

Letterariamente credo che l’immagine del vulcano corrisponda in Oz a ciò che Avraham Burg ha chiamato uno stato alla nitroglicerina. Due metafore esplosive che indicano forse una consonanza di vedute. Ma potrei sbagliarmi, disponendo al momento di troppi pochi elementi. Ma se veramente da ebreo israeliano Amos Oz vuole la pace almeno con il suo vicino palestinese israeliano, sarebbe stato un insulto imperdonabile cancellare la memoria della Nakba con i fasti sanguinolenti e putrescenti del mito fondativo dello Stato di Israele. Saggiamente, Amos Oz ha forse deciso per questo di non andare a Torino, dove non avrebbe certamente subito nessuna violenza o oltraggio da parte dei manifestanti, ma avrebbe dovuto idelamente reggerne lo sguardo.

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2. Amos Oz stipendiato del governo israeliano per una moderata dissociazione?. – Non mi stupisco di nulla e tutto è per me possibile. Preferisco le posizioni nette e lineari, ma queste possono apparire a volte grossolane di fronte alla complessità del reale. Mi sono prima occupato di Amos Oz, non per il suo talento letterario di cui non mi occupo, ma per la sua posizione alla Fiera del Libro in Torino, dove decise di non partecipare, e per questo criticato da un Michael Sfaradi, personaggio a me noto unicamente come propagandista del governo israeliano sui media italiani. Adesso apprendo che anche Amos Oz rientra in una lista di intellettuali pagati dal governo israeliano, non genericamente per un generico e indistinto finanziamento dell’arte e della cultura, ma con il preciso e regolamentato scopo di sostenere all’estero la politica e l’immagine del governo israeliano. Al link si trova l’articolo di Blondet su cui mi baso, ma che rinvia a sua volta ad un articolo apparso si Haaretz. Ne riporto per intero il testo essendo particolarmente rilevante ai fini del nostro monitoraggio.
Intellettuali ebrei: pagati dal governo
di Maurizio Blondet
effedieffe

I nomi sono famosi a livello internazionale: Amos Oz, David Grossman, tanto per farne due. Sono gli intellettuali ebrei di mente aperta, sempre invitati alle mostre del libro, sempre in viaggio da un festival della cultura all’altro. Gente di talento, senza dubbio. Autori di romanzi, saggi, musiche, pieces teatrali. Appena sbarcano - a Torino, a Milano, a Parigi, dovunque nella vecchia Europa - vengono intervistati devotamente, e gli intervistatori si beano del loro progressismo.

Essi parlano infatti della pace, e della necessità della comprensione fra i popoli. Si permettono di criticare persino l’occupazione. Si dichiarano contrari alla penultima guerra di Israele (all’ultima no: questa è diversa, è in gioco l’esistenza stessa, mio figlio è caduto in mimetica...). E lì, alle mostre e ai festival della poesia, dei libri e della bellezza, vendono la loro mercanzia: firmano le copie del loro ultimo romanzo, esibiscono i loro film che vengono immancabilmente premiati (come ci spiega il critico di turno di Repubblica o del Corriere) per il «messaggio di pace» che contengono, smerciano i loro CD e firmano contratti per rappresentare le loro opere teatrali.

Nessuno sa che essi stanno lavorando per lo Stato di Israele. Obbligati sotto contratto a «contribuire a diffondere una buona immagine» di Sion. Lo ha scoperto un poeta israeliano, Ytzhak Laor, che ne ha scritto su Haaretz (1).
(1) Ytzhak Laor, «Putting out a contract on art», Haaretz, 25 luglio 2008. In occasione della Fiera del Libro di Torino, e delle polemiche che ne sono nate, Laor ha scritto la seguente lettera aperta: « (...) Il nostro problema qui, in quanto israeliani contro l’occupazione, è un problema concreto con i nostri vicini concreti, quelli che tornano a casa dopo avere prestato servizio ai blocchi stradali e avere trattato esseri umani come animali: diventano fascisti attraverso la pratica - ossia attraverso il servizio militare - e solo poi fascisti ideologicamente. Questo non preoccupa la sinistra filo-israeliana in Italia. Tu sostieni che la sinistra italiana non avrebbe trattato un boicottaggio del Sudafrica nel modo in cui sta trattando qualunque proposta di boicottaggio di Israele. Ma la cosa è più semplice: pensa alla sinistra italiana durante la prima guerra del Libano e paragonala alla sua posizione attuale. Non è l’occupazione ad aver cambiato natura. È l’Europa occidentale che è cambiata, che è tornata al suo vecchio modo di guardare i non-europei con odio e disprezzo. Nell’immaginario della sinistra italiana, i palestinesi hanno perso lo ‘status’ simbolico di cui godevano un tempo (la kefia al collo di decine di migliaia di giovani italiani, ad esempio) e sono passati nell’hinterland dell’Europa: dove gli americani possono fare quello che vogliono, e l’avida Europa, come sempre, si schiera dalla parte dei più forti. I palestinesi sono ancora una volta solo degli arabi che sanguinano, e il sangue arabo - proprio come in passato il sangue ebraico - vale poco. Si potrebbe riassumere il cinismo dell’attuale scena italiana citando Giorgio Napolitano, quando ha fatto riferimento a una vecchia discussione che ebbe nel 1982 a Torino con l’allora comunista Giuliano Ferrara. Riflettendo sulla posizione del PCI sul massacro di Sabra e Shatila, Napolitano, che sarebbe poi diventato Presidente, ha detto: ‘Per quanto riguarda una determinata persona (Giuliano Ferrara), ricordo solo che egli si faceva promotore di una causa (la causa palestinese nel 1982) che nel Partito godeva di una qualche popolarità, ma che non ci avvicinava per nulla alla presa del potere’. Machiavelli avrebbe dovuto incontrare sia Ferrara che il presidente italiano per un drink sui fiumi di sangue palestinese. Ma il cambiamento di posizione della sinistra italiana ha molto poco a che vedere con la propaganda israeliana, anche se la Fiera del libro di Torino rientra anch’essa nella propaganda israeliana. Concentriamoci per un momento su questa fiera, a titolo di esempio. Abbiamo a che fare con la Cultura, che è sempre la ‘coesistenza’ di affari (delle case editrici, ad esempio) con il razzismo implicito degli ‘amanti della Cultura’, cultura che è sempre puramente occidentale (cristiana o ‘secolare’). Gli israeliani in questo contesto sono gli ‘eredi della buona vecchia Europa’, mentre gli arabi, naturalmente, non sono ammessi in questa cultura. In breve, la xenofobia italiana ha anche un volto umano: la Fiera del libro di Torino. Il nostro Stato, che da 41 anni sta privando un’intera nazione di qualunque diritto se non quello di emigrare, viene celebrato dalla Cultura. Bene, questa è l’Europa - dopo tutto, la stessa Europa che noi e i nostri genitori abbiamo conosciuto: la Cultura è sempre stata la cultura dei Padroni. Il dibattito sulla Fiera del libro può dimostrare come la sinistra, un tempo la più sensibile d’Europa verso la causa palestinese, sia diventata la più cinica sinistra filo-israeliana». Laor ha pubblicato un saggio dal titolo: «Il nuovo filosemitismo europeo».
A Laor accade questo: invitato al festival della poesia di Barcellona, il suo invito viene poi misteriosamente cancellato «per ragioni di budget». Può partecipare, ma il viaggio bisogna che se lo paghi di tasca sua. Sicchè, quando gli giunge l’invito al festival della poesia di Sidney, Laor chiede prudentemente ai suoi ospiti australiani: cosa fate per le spese di viaggio? Niente paura, gli rispondono quelli: l’anno scorso abbiamo invitato l’altro vostro celebre poeta, Ronny Somech, e il volo glielo ha pagato il ministero degli Esteri israeliano. E sì che Somech ha parlato un sacco di pace e di coesistenza. Quindi chiederemo noi al vostro ministero... A farla breve, anche l’invito di Sidney viene poi cancellato.

Laor, punto sul vivo, si chiede: come mai il ministero, che paga i viaggi a Somech, non li paga per me? Fa una discreta inchiesta, e alla fine gli arriva a casa - da una fonte che preferisce non nominare - il contratto segreto che lo Stato fa firmare agli artisti, come condizione per coprire le spese. Contratto che a lui non è stato mai nemmeno sottoposto, evidentemente perchè non parla di pace e coesistenza in modo soddisfacente. E’ un lungo e barboso contratto in burocratese, per la cui lettura integrale si rimanda ad Haaretz.

Le clausole che contano sono quelle in cui l’artista (definito «service provider», fornitore del servizio) si promette non solo il pagamento di biglietti aerei, ristoranti e alberghi, ma anche gli «emolumenti artistici» del caso, però a precise condizioni, come risultano al paragrafo 5: «Il fornitore del servizio si impegna ad agire fedelmente, sotto la propria responsabilità e infaticabilmente (sic) per fornire al Ministero i più alti servizi professionali. Il fornitore del servizio prende atto che lo scopo della richiesta dei suoi servigi è promuovere gli interessi politici dello Stato di Israele attraverso la cultura e l’arte, in ciò essendo compreso il contribuire a creare una immagine positiva per Israele». «Il fornitore del servizio non dovrà presentarsi come agente, emissario, e/o rappresentante del Ministero». «Il fornitore del servizio deve anche fornire al Ministero un dettagliato rapporto sui servizi da lui forniti, includendovi campioni e prove» (immagino, ritagli di giornale sugli interventi dell’artista all’estero, come prove della favorevole immagine che ha diffuso).

Infine, al paragrafo 15, la chiara minaccia: «Il Ministero ha il diritto di annullare il contratto, o parte di esso, in via immediata e a totale discrezione del Ministero, se il fornitore del servizio non fornisce al Ministero i servizi e/o non adempie agli obblighi in cui è impegnato in base a questo contratto, e/o li fornisce in modo inadeguato e/o con piena soddisfazione del Ministero, e/o esce dalla tabella di marcia (timetable), e/o se il Ministero non abbisogna del servizio (...) e il fornitore del servizio non avanzerà alcuna pretesa, richiesta o azione legale basata sull’annullamento del contratto da parte del Ministero».

Insomma, il libero artista israeliano - se vuole partecipare ai festival culturali all’estero - non solo si impegna a propagandare la linea politica israeliana; non solo a dissimulare la sua condizione di «agente ed emissario»; ma è anche tenuto, al ritorno, a fare un rapporto al Ministero per comprovare la sua «utilità». E se fa il furbo e dice qualcosa di sgradito, il Ministero degli Esteri gli annulla il contratto di «fornitore» di propaganda, e il volo Tel Aviv-Sidney-Tel Aviv se lo deve sborsare di tasca sua.

Non sembra proprio un contratto da «unica democrazia del Medio Oriente». Al contrario, somiglia in modo agghiacciante agli impegni che dovevano firmare al KGB i letterati sovietici di regime per ottenere il sospirato viaggio all’estero, la boccata d’aria fuori dal paradiso dei lavoratori; compreso l’obbligo, al ritorno, di «riferire».

«E’ importante capire», scrive inoltre Laor, «che l’ambasciata e l’addetto culturale (israeliano) determinano il valore di ciascun artista e di quanto larga e favorevole audience ciascuno è in grado di attrarre. Questo a sua volta determina il valore dell’hotel (in cui sarà ospitato), dei voli, e naturalmente dell’onorario artistico spettantegli».

Sono sicuro che Amos Oz e David Grossman scendono invariabilmente in alberghi a cinque stelle. Ytzak Laor non può nemmeno andare a Barcellona in pensione-famiglia: quanto guadagna infatti un poeta? Dipende.

Dipende se l’Istituto (statale) per la Traduzione della Letteratura Ebraica sceglie di tradurre le sue poesie o no, in modo da farle conoscere in inglese ed altre lingue ad ampia diffusione. Ma anche la traduzione non basta: per promuovere le vendite e le critiche e gli articoli sui giornali stranieri, bisogna fare la tournée a Parigi, a Londra e a Roma, firmare copie, farsi fotografare e rilasciare interviste (su pace e convivenza) per le pagine culturali del Corriere o di Le Monde. E per i viaggi, anche l’Istituto di Traduzione non può che rimandare al Ministero degli Esteri; e precisamente alla sua Division for Cultural and Scientific Affairs (DCSA).

Gli organizzatori dei festival culturali, conclude Laor, «sono convinti, nella loro innocenza, che questa Divisione sia qualcosa di equivalente al Goethe Institute tedesco, alla Società Dante Alighieri italiana o alla Alliance Française parigina (istituti che promuovono le rispettive culture nazionali). Non è questo il caso». Si tratta della Stasi israeliana, o della branca «culturale» del Mossad.

Così, oltre ai suoi kidon (le squadre di assassinio all’estero), ai suoi sayanim (ebrei residenti all’estero che collaborano volontariamente alle operazioni, siano spionaggio, assassinio o disinformazione e propaganda), ha anche i suoi «artisti» in missione segreta a contratto. I soli che vengono promossi e di cui possiamo sentire la «calda voce umanitaria».

Forse si ricorderà che qualche mese fa alla Fiera del Libro di Torino con ospite d’onore Israele, alcuni intellettuali arabi (ed anche italiani) ne proposero il boicottaggio, data l’oppressione che Sion continua ad esercitare sui palestinesi. Altissime voci si levarono a biasimare «l’intolleranza», a proclamare che la «cultura» non può obbedire a «censure» e a «intimidazioni», eccetera, eccetera.

Alla luce di quel che ha rivelato Laor, ci si dovrebbe chiedere se il boicottaggio della «cultura israeliana» e dei suoi famosi «agenti culturali» non sia invece il solo modo di liberare gli artisti, scrittori e poeti dal guinzaglio del loro regime.
La notizia non mi è nuova, ma ne avevo letto mesi addietro una ferma smentita da parte degli interessati. Non ricordo dove lessi notizia e smentita. Non avevo voluto però prestare eccessiva attenzione in quanto lo scandalismo non è il mio genere. Adesso però questa sembra una clamorosa conferma che non lascia adito a smentite. Essa si presta altresì a molteplici considerazione. Resta tuttavia il fatto che Amos Oz a Torino non ci sia andato. È un fatto che richiede ulteriore approfondimento, che però solo nuovi fatti o dichiarazioni degli interessati possono fornire.

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