sabato 12 aprile 2008

VII. La protesta tibetana, i monaci, la modernità. L’opinione di Sergio Romano.

Parte I Antefatti; II Manifestazione; III Rassegna stampa; IV Sviluppi reali; V Appello per la Cina aggredita dagli ipocriti; VI. Chi è il Dalai Lama; VII L’opinione di Sergio Romano.

Versione 1.0

Pubblico con distinta ed autonoma evidenza il testo che segue dopo aver già aperto diversi links da questo Blog. Non conosco personalmente né il lettore né Sergio Romano per chiedere il loro consenso ed il loro gradimento, ma i loro testi saranno immediatamente cancellati e sostituiti con il solo link a semplice richiesta. È quanto mai difficile ed improbabile che l’ambasciatore Sergio Romano possa venir fatto passare dai nostri improvvisati “tibetani” di comodo per un truculento e reazionario negatore dei più avanzati e progressivi diritti moderni, ossia la teorica dei “diritti umani”. Ho già osservato occasionalmente, ma senza averne potuto dare approfondita trattazione, come tutta la nostra concezione dei “diritti umani” sia appunto una “nostra” concezione, coniata con intenti polemici in un determinato contesto recente e meno recente, ma che invece può essere del tutto estraneo in altre culture giuridiche, ad esempio quella cinese, dove – mi dicono – non esiste una concezione dei “diritti umani” del tutto sganciata, e magari in opposizione, alla comunità di cui il singolo individuo è parte. Voler imporre con la forza o con pressioni e condizionamenti sostitutivi della forza in altri contesti è un diverso modo di fare politica, aggredendo uno Stato confinante la cui potenza ci appare temibile o la cui debolezza tanto attrattiva per poterlo sopraffare ed invadere. Hobbes, filososo quanto mai attuale, insegna che le relazioni fra gli Stati restano quelli propri dello stato di natura.

Quanto al buddismo ed alle religioni orientali io li considero più affascinanti ed ineteressanti del nostro cristianesimo, o delle nostre religioni monoteistiche mediterranee (cristianesimo, ebraismo, islamismo). La schematizzazione corrente con le quali ci vengono presentate è che sarebbero religioni della interiorità, del percorso libero della coscienza senza la dipendenza da dogmi o peggio ancora da gerarchie religiose, fatte di uomini che comandano e di fedeli che ubbidiscono ai comandi. Sembra bello in quanto si verrebbe a conciliare la filosofia con quella percezione del sacro che costituisce per me l’essenza della religiosità. Non mi arrischio ad andare oltre in queste considerazioni, ma mi servono per sollevare il dubbio che la realtà delle cose possa essere ben diversa dalla loro rappresentazione corrente. Per chi venendo da un altro contesto apprendesse dai racconti evangelici, non prive di incongruenze sotto il profilo filologico, la figura de Cristo e poi la venisse a confrontare con quella dei suoi successori, o rappresentanti, o vicari, o con quanti ritengono di parlare autoritativamente a suo nome, sarebbero non poche le cose incomprensibili e contraddittorie. Allo stesso modo diventa difficile per noi, ingenui ammiratori del buddismo, ammirare il tibetano per il suo diritto di bere le urine del Dalai Lama (vedi), e magari dover rispondere ad un appello come quello di Bordin e Politi in piazza Campo de Fiori allo slogan “Siamo tutti tibetani”. Se Massimo Bordin e Antonio Polito vogliono bere le urine del Dalai Lama, è affar loro. Mi pare, se non ricordo male, che il buon Marco Pannella in uno dei suoi innumerevoli scioperi ci sia cimentato. Probabilmente la sua fonte dottrinale e spirituale era quella del suo amico il Dalai Lama, anche se le urine erano rigorosamente pannelliane.

Il problema serio mi sembra vada colto nella discrasia fra ciò che può essere una dottrina e la sua concreta prassi. Fra teoria e prassi vi è spesso contraddizione e contrapposizione. Se rovescio lo slogan della manifestazione di Campo dei Fiori da “siamo tutti talebani” in “siete tutti ipocriti” non è perché sia contrario ad una piena soddisfazione dei diritti civili e politici dei Tibetani (sei milioni a fronte di oltre un miliardo di cinesi) – a parte il discutibile “diritto” di bere le sacre urine di chicchessia –, ma perché ritengo che si tratti di ben altro, cioè di un calcolato progetto di destabilizzazione della Cina, sul cui attuale governo non prendo qui posizione. Ritengo che un regime politico, qualunque esso sia, conosca un suo processo endogeno di trasformazione fino al raggiungimento della forma più adeguata e rispondente ai suoi bisogni. Tibet e Cina sono fra di loro più affini di quanto non possiamo esserlo noi con loro. La rappresentazione che il comune cittadino europeo può averne è necessariamente approssimativa ed indotta dai mass media e addirittura dall’industria cinematografica, canali privilegiati della propaganda ia cui si ha fondato motivo di sospettare. Stupisce come i binocoli di un Massimo Bordin, di un Antonio Polito – organizzatori della sceneggiata mediatica – siano puntati sul Tibet e contro la Cina, mentre proprio non ne vogliono sapere di guarda su Gaza e Israele. Il sen. Fernando Rossi, dopo lunga attesa, ha tentato di far notare ciò, ma sul palco il “liberale” e “radicale” Bordin si è sentito “in diritto” di chiosare subito dopo il suo intervento per dire che siamo (?) “liberali” da aver consentito a Rossi di pronunciare una diversa verità, ma che non “siamo” (?) d’accordo, essendo la nostra “verità” quella di una Fiamma Nirenstein, organizzatrice in Roma di convegni per l’ingerenza e la destabilizzazione di tutti i governi non graditi all’umanissimo, civilissimo, democraticissimo stato di Israele, che un Avrahm Burg paragona alla Germania nazista degli anni Trenta ed un Ilan Pappe accusa apertamente di “pulizia etnica della Palestina”. Se questa non è ipocrisia, non saprei come altrimenti chiamarla.

Antonio Caracciolo




LA PROTESTA TIBETANA I MONACI E LA MODERNITÀ.
L’opinione di Sergio Romano in risposta ad Lettore


È giusto invitare le autorità cinesi alla moderazione di fronte alla rivolta dei monaci tibetani, ma non si può pretendere che la Repubblica popolare tolleri che una sua regione sia governata da una teocrazia. La Cina, con l' introduzione del mercato, sta sviluppando a tappe forzate la sua economia (e di conseguenza la società) e la modernizzazione del Tibet è parte integrante del progetto. Il boicottaggio delle Olimpiadi inasprirebbe i rapporti con quella che fra pochi decenni sarà la maggiore potenza economica mondiale. D’altronde non sono affatto convinto che il mancato boicottaggio rappresenterebbe, come molti sostengono, un tradimento dei nostri valori; trovo anzi singolare pretendere, in nome della cultura occidentale, che società e civiltà arcaiche vengano trattate come reperti archeologici da conservare a ogni costo per la delizia di turisti e antropologi. Del resto, è proprio il rifiuto da parte di Stati e culture di uscire dal medioevo per entrare nella modernità che spesso costituisce l' ostacolo maggiore al dialogo e alla coesistenza.

Giorgio Vergili

Caro Vergili,

La sua lettera coglie un punto a cui l' opinione pubblica occidentale non ha prestato molta attenzione. È possibile che gli esuli tibetani, cresciuti lontano dalla madrepatria, stiano facendo una battaglia democratica per i diritti umani e civili del loro Paese. Ed è evidente che il Dalai Lama si accontenterebbe di un Tibet autonomo, soggetto all' autorità politica di Pechino e tuttavia libero, al tempo stesso, di coltivare le proprie tradizioni culturali e religiose. Ma la violenta rivolta dei monaci a Lhasa e in altre province cinesi dove abitano importanti comunità tibetane, è stata una insurrezione conservatrice. Sappiamo che la Cina ha sempre considerato il Tibet una insopportabile anomalia e ha fatto del suo meglio per alterare la composizione demografica della regione favorendo l' insediamento nel territorio di una nuova popolazione han (così hanno fatto, incidentalmente, molti Paesi europei, fra cui l' Italia, quando si sono impadroniti di terre di confine abitate da minoranze che appartenevano a un diverso ceppo nazionale). Ma fu subito evidente che la Repubblica popolare non avrebbe mai tollerato, all' interno dei propri confini, una Santa Sede del buddismo himalayano, un regime feudale e religioso come quello sorto molti secoli fa sull' altopiano tibetano. La situazione si è ulteriormente complicata quando la grande modernizzazione cinese ha finalmente investito il Paese. Quando visitai il Tibet nel 1981, il rapporto fra i tibetani e l' amministrazione cinese era congelato dallo stato di arretratezza economica della provincia. Gli occupanti e i sudditi sembravano avere concluso una tregua che nessuno, in quel momento, aveva interesse a rompere. Ma lo sviluppo economico, da allora, ha creato turismo, commercio, iniziative industriali. Durante una visita organizzata dal governo di Pechino dopo le agitazioni dello scorso marzo, i corrispondenti stranieri hanno fatto due constatazioni interessanti. In primo luogo si sono accorti che i monaci tibetani, contrariamente alla loro reputazione occidentale, non sono cultori della «non violenza» e ne hanno dato la prova con una furia devastatrice che ha colto di sorpresa le forze di polizia. In secondo luogo hanno compreso che la loro rivolta non era diretta soltanto contro i cinesi, ma anche contro una classe emergente di tibetani che stanno sfruttando i vantaggi della modernizzazione. Quello a cui abbiamo assistito, in altre parole, non è, se non in parte, uno scontro fra democrazia e dittatura. È anche il segno di una frattura sociale che si è aperta all' interno della società tibetana. Non è necessario essere marxisti o anticlericali per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità e che i monaci, come si sarebbe detto una volta, quella della reazione.

Sergio Romano

(10 aprile 2008)
Corriere della Sera

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Prevedo che l’opinione di Sergio Romano, sopra riportata, susciterà per la sua autorevolezza non poche reazioni. Lo spazio che qui segue è già predisposto per seguirne il dibattito.

(segue)

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