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AVVERTENZA EDITORIALE
A tutti gli utenti di Google è noto il servizio Google Alerts. Basta inserire un nome in un apposito campo ed automaticamente vengono recapitati, a ritmi regolari, i risultati della ricerca Google su quel termine. Normalmente si tratta di links a siti o pagine comunque presenti sulla rete e con una propria url. Ho così messo i termini "Shlomo-Sand” volendo seguire in tempo reale tutto il dibattito sull'autore che si svolge sulla rete nella lingue a me accessibile. Ho testé ricevuto due risultati un poco atipici. Il primo doveva essere come una specie di intervento all'interno di un gruppo. Il suo autore scriveva in uno stile vagamente interlocutorio. Nel mio computer era però attivo il tasto “Rispondi”. E così ho fatto, entrando nel merito di una valutazione del libro di Shlomo Sand. Di fronte agli argomenti di questo autore la reazione dell'autore del testo a me pervenuto, ripeto: in automatico, il tono è del seguente tenore: Shlomo Sand è un cretino inattendibile come già lo fu Ariel Toaff, prontamente eliminato. Si esprime quindi sconcerto per i professori “cretini” che abbondano in Israele e simili. Insomma solo insulti, sconcerto e niente di serio. Mi sono divertito a mandare due righe di risposta che dal mio client risultano “inviate” e che a qualcuno dovrebbero esser giunte. Non pubblico nel mio blog questo testo, di carattere piuttosto privato.
Di tutt’altro tenore è un altro risultato (su due complessivi) che mi è pervenuto insieme al precedente. Si tratta di un documento pdf, ma copiabile e senza nessuna indicazione del sito di provenienza. Per cui non posso citare nessuna fonte. Si tratta però di un vero e proprio saggio di cinque pagine con nome dell’autore e titolo. Il saggio mi appare ben fatto e lo trovo molto interessante. Lo pubblico qui di seguito pensando di far cosa gradita al suo autore, che ha forse inteso dare la massima diffusione sulla rete al suo scritto. Non posso chiedere autorizzazione preventiva alla pubblicazione perché non conosco l’autore ed al momento non saprei dove e come rintracciarlo. resto comunque a sua disposizione anche per rimovuere il suo testo dal mio blog, ove ne sia espressamente richiesto.
Aveva incominciato a smuovere le acque , nel 2007, il libro di Ariel Toaff, figlio del rabbino della sinagoga di Roma Elio Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, sollevando timidamente il velo sulla possibilità (si badi, la semplice possibilità) che qualcosa di vero ci fosse, nei racconti sulle uccisioni rituali di bambini cristiani da parte di fanatici ebrei, e sia pure in un numero assai limitato di casi.
Chi non ha mai sentito parlare, ad esempio, della vicenda accaduta a Trento nel 1475, quando un bambino di nome Simonino scomparve la sera del 23 marzo, giovedì di Pasqua, per venire poi ritrovato, cadavere orrendamente mutilato, nelle acque di una roggia che traversava il ghetto ebraico, proprio la domenica di Pasqua? Il principe vescovo di Trento, Giovanni Hinderbach (che non era affatto un rozzo e ignorante fondamentalista religioso, ma un raffinato umanista che molto si adoperò per diffondere la cultura rinascimentale nel suo Stato), fece istituire un processo che si concluse con quindici condanne a morte a carco di ebrei e con l’espulsione dalla città dei loro correligionari; sentenza che è stata ribaltata solo dopo il Concilio Vaticano II, con lo scagionamento degli ebrei da quel delitto da parte della Chiesa cattolica.
Poco dopo le vicende del 1475, infatti, si era diffuso spontaneamente il culto di san Simone (o san Simonino; ma, in effetti, era solo “beato”), martire della Chiesa, al quale furono dedicate numerose opere d’arte - pittoriche, lignee, ecc. -, non solo entro i confini del principato di Trento, ma anche, ad esempio, in Valcamonica, allora sotto la giurisdizione della Serenissima Repubblica di Venezia; e al quale vennero attribuite alcune guarigioni miracolose. In effetti, il legato pontificio di Sisto IV, che aveva seguito in loco l’inchiesta del tribunale del principe-vescovo, aveva manifestato dissenso verso le conclusioni cui era giunta; e, in un primo tempo, il culto di san Simonino non aveva ricevuto alcun riconoscimento ‘ufficiale’, anzi, era stato ripetutamente proibito dal pontefice. In seguito, però, il culto dello sventurato fanciullo era stato inserito nel Martirologio Romano, nel quale rimase fino al 1965.
In quell’anno, infatti, il vescovo di Trento, Alessandro Maria Gottardi, ha portato a conclusione un graduale processo di revisione storica - per opera specialmente di mons. Iginio Rogger, professore presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento - e ha stabilito la soppressione del culto di Simonino, procedendo anche alla rimozione dei suoi resti dalla chiesa cittadina di San Pietro, in cui erano stati tumulati. Tale decisione non ha provocato reazioni particolarmente vivaci da parte dei fedeli, anche se ha dato luogo a una controversia storiografica (e, in minor misura, devozionale) che non si può dire del tutto conclusa nemmeno ai giorni nostri. Non tutti, infatti, erano e sono d’accordo con la cosiddetta “svolta del Simonino”.
Oltre alla commemorazione annuale del fanciullo martire, infatti, per moltissimo tempo si era svolta, ogni dieci anni, una processione dei fedeli che portavano per le vie cittadine sia la salma di Simonino, sia gli strumenti con i quali sarebbe stato torturato a morte dai Giudei per celebrare, col sangue di un bimbo cristiano, la Pasqua ebraica. Tale processione, dopo la sospensione del 1945 - imposta dalle circostanze della seconda guerra mondiale - ha avuto luogo ancora una volta, l'ultima, nel 1955; quando, fra l'altro, la diocesi di Trento ha proceduto alla riedizione di un vecchio libretto devozionale narrante il martirio del fanciullo, che sarebbe stato strangolato dai Giudei per poi estrarne il sangue, con cui impastare i pani azzimi per la Pasqua ebraica. Nel 1965 sarebbe caduto il decennale per la successiva processione: che non ebbe luogo, appunto, per la svolta decisa dal vescovo Gottardi, in linea con gli orientamenti del Concilio Vaticano II per il ristabilimento di un clima di dialogo e comprensione con la religione ebraica. (Va detto, in proposito, che anche la città di Trento aveva ricevuto la scomunica da parte degli Ebrei, a causa delle condanne al rogo eseguite nel 1475 e delle successive espulsioni).
Il libro di Ariel Toaff, benché circostanziato e prudente, è stato accolto da un vero e proprio diluvio di critiche, non solo dalla comunità israelita - a cominciare dal padre dell’autore -, ma anche da parte degli storici, antropologi e studiosi delle religioni ‘politicamente corretti’ non ebrei, primo fra tutti Massimo Introvigne, il quale, all’argomento, aveva dedicato uno studio del 2004: Cattolici, antisemitismo e sangue.
Con la sola eccezione di Sergio Luzzatto, il quale, dalle colonne del Corriere della Sera dell’8 febbraio 2007, ne ha fatto una recensione tutto sommato equilibrata, il salotto buono della cultura italiana ha reagito molto male alla pubblicazione del libro. I titoli delle recensioni apparse sulla stampa nel febbraio scorso sono già di per se stessi eloquenti in proposito: si va da Rovesciamento senza prove di Anna Foa (su Avvenire del 9 febbraio 2007), a Replica di Introvigne a Toaff (su CENSUR del 10 febbraio), Nessun riscontro persuasivo di Adriano Prosperi (su La Repubblica del 10 febbraio), a Un libro di storia mal fatto di Giacomo Todeschini (dell’Università di Trieste, sempre il 10 febbraio), per finire in bellezza con Fede accordata a fonti di provata tendenziosità. Assenza di critica di Anna Esposito e Diego Guaglioni (sul Corriere della Sera dell’11 febbraio), il cui tono si può evincere in maniera estremamente eloquente già delle espressioni adoperate nel titolo (e va bene che, nel giornalismo italiano, vige la prassi che i titoli degli articoli siano mutati o inventati a piacere dal direttore o dal redattore-capo).
Insomma, si è assistito a una tempesta di esecrazioni contro il dilettantismo, la scarsa serietà, l’approssimazione e la tendenziosità del libro; al punto che l’Editrice Il Mulino, che lo aveva pubblicato, è stata costretta, per qualche tempo, a ritirarlo dalla circolazione, tale era il coro unanime di esecrazione da esso sollevato.
Ci chiediamo, sommessamente, che cosa sarebbe accaduto se a scrivere un libro del genere fosse stato uno storico non ebreo. Se vogliamo essere onesti, ci sono pochi dubbi in proposito: si sarebbe parlato di rigurgiti di antisemitismo e si sarebbero invocati provvedimenti 'alla Irving' (ossia, il codice penale e il carcere) per stroncare sul nascere gli antichi spettri di un odio razziale duro a morire, che manifesta la sgradevole tendenza a rinascere continuamente dalle proprie ceneri.
Ebbene, vediamo cosa avranno da dire adesso questi giornalisti, storici e opinionisti visceralmente “anti-antisemiti”, davanti a un evento culturale come la pubblicazione - non in Italia e direttamente in lingua italiana, come è accaduto per Pasque di sangue -, ma proprio nello Stato di Israele, di un libro come Una invenzione chiamata «Il popolo ebraico», dello storico ebreo Shlomo Sand (titolo originale: When and How Was the Jewish People invented, Casa editrice Resling, 2008), professore all’Università di Tel Aviv.
Come è ormai noto, le tesi dell’Autore si possono riassumere in questi termini. Dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, nel 70 d. C., gli Ebrei non furono affatto cacciati dai Romani fuori dalla Palestina. La proibizione di residenza valeva solo per la colonia di Elia Capitolina, ricostruita dai vincitori sulle rovine di Gerusalemme e dedicata a Giove Capitolino. L’esilio degli Ebrei, quindi, non è altro che un mito: la loro fu una partenza volontaria. Tra parentesi, Sand nega anche la storicità della schiavitù in Egitto e dell’insediamento in Palestina al tempo di Giosuè. Fuori della Palestina, gli ebrei - come popolo - lentamente furono assimilati dalle popolazioni presso le quali si erano stabiliti, così come si assimilarono con gli Arabi, dopo la conquista islamica, quelli rimasti in patria.
Secondo Shlomo Sand, non è vero che l'ebraismo sia stato una religione scarsamente interessata al proselitismo. Infatti, al giudaismo si convertirono interi regni, come quello dei khazari che, nel IX secolo, andava da Kiev al Caucaso e al Mar Caspio, o come quello di Himyar nella parte meridionale della Penisola Arabica; o, ancora, come quello dei berberi della regina Dahia al-Kahina; berberi che, dopo l’invasione araba del Nord Africa, si trasferirono in Spagna per non più ritornare indietro. Dai khazari, in particolare, sarebbe derivato il ramo ebraico askhenazita; e la lingua e la cultura Yiddish non sono affatto il prodotto dell'incontro di quelle ebraiche con quelle tedesche, bensì il risultato della mescolanza fra i discendenti dei khazari e le popolazioni tedesche che si spostavano verso l'Europa orientale. I sefarditi, invece - l'altro grande ramo della diaspora ebraica in Europa, quello sud-occidentale - deriverebbero dai berberi e dagli arabi che si convertirono al giudaismo dopo la conquista della Spagna da parte dei califfi successori di Maometto. Insomma, è stata la religione ebraica a diffondersi ai quattro angoli del mondo, non il popolo ebraico, che è semplicemente scomparso nel gorgo di mille razze e mille culture diverse. Nel 1948 non c'è stato alcun ritorno degli ebrei in Palestina; a tornare furono delle persone di religione ebraica, provenienti da comunità che si erano convertite al giudaismo lungo il corso dei secoli.
Quanto agli ebrei rimasti in Palestina, essi finirono per mescolarsi con gli arabi e per convertirsi all’islamismo; al punto che, se proprio si vogliono cercare gli antenati degli israeliani attuali, bisogna cercarli non fra gli ebrei immigrati dall’Europa tra la fine del XIX e quella del XX secolo, bensì proprio fra quegli arabi palestinesi che, oggi, sono visti dal governo d’Israele e dall’opinione pubblica ebrea come il nemico ereditario, coloro che hanno “usurpato” la patria giudea durante il lungo "esilio" la cui responsabilità è attribuita, a torto, ai Romani.
Dunque, i legittimi eredi del popolo ebreo - che però, in pratica, ha finito per scomparire nel corso di mescolanze bimillenarie - non sarebbero per nulla gli ebrei immigrati in Israele prima e dopo il 1948, ma gli arabi palestinesi; e il minimo che Israele dovrebbe fare, secondo giustizia, dovrebbe essere darsi una struttura corrispondente ad uno Stato misto ebreo-palestinese, capace di rappresentare tutte le sue componenti etniche, culturali e religiose.
La cosa più interessante del libro di Shlomo Sand è che queste tesi, che a noi appaiono come sconvolgenti, sono state presentate dall’autore come il classico segreto di Pulcinella. Egli, infatti, sostiene che non solo tutti gli storici ebrei, ma tutti gli israeliani, a cominciare da Ben Gurion e i padri fondatori dello Stato d’Israele, sono sempre stati perfettamente a conoscenza di questo ‘segreto’, ossia che non c’è nessun popolo ebreo e, quindi, che il sionismo si basa su un clamoroso falso storico; ma che lo hanno sempre taciuto per una forma di malinteso pudore confinante con l’ipocrisia, «come quando gli adulti vogliono parlare di sesso ma aspettano che, prima, i bambini siano andati a letto».
In Israele, ovviamente, si è acceso un forte dibattito intorno alle tesi del libro e i detrattori di Sand lo hanno accusato di incompetenza storica (per non essere risalito alle fonti antiche e medievali, lui specialista di storia moderna e, per di più, non ebraica, ma francese) e, ovviamente, di non aver dato alcun rilievo agli eventi della persecuzione nazista, culminati nella Shoa (anche se tali eventi non c’entrano per nulla con le tesi del libro).
Tutto sommato, però, il clamore non è stato quello che ci si sarebbe potuti aspettare. Certo, una parte degli scrittori e intellettuali ebrei, dentro e fuori Israele, hanno criticato più o meno aspramente il libro Una invenzione chiamata «il popolo ebraico»; però nessuno si è stracciato le vesti, nessuno ha chiesto il ritiro del libro o la cacciata del professor Sand dall’Università di Tel Aviv. Si parla delle sue tesi, se ne parla con calore e con vivacità; ma pur sempre nei limiti di un confronto civile. E tutto questo mentre il conflitto con i palestinesi ha raggiunto punte di una asprezza estrema ed il ‘mite’ premier Olmert accarezza l’idea di una invasione massiccia, manu militari, della Striscia di Gaza, per mettere fine una volta per tutte al terrorismo palestinese, a costo di sfidare le critiche dell’opinione pubblica mondiale.
Tanta compostezza, tanto fair play hanno semplicemente del prodigioso: al punto da far nascere il sospetto che sia vero quando ha detto Sand a difesa del suo libro: che egli non ha fatto altro se non dire quello che tutti gli ebrei sanno, ma che non hanno il coraggio di dire ad alta voce, quando i bambini sono ben svegli e potrebbero sentirli.
Ancora una volta, ci chiediamo che cosa sarebbe accaduto se le tesi di Shlomo Sand fossero state esposte, non diciamo da un Ahmadinejad o da un Gheddafi, ma da un serio e compassato professore universitario tedesco, francese o italiano, “reo” di non essere ebreo.
Anche qui, non occorre possedere la virtù della chiaroveggenza o della profezia per immaginare
benissimo quel che sarebbe successo: si sarebbe scatenato un putiferio all’indirizzo dell’ennesimo provocatore antisemita; si sarebbe preteso l’invio al macero del libro; si sarebbero invocati provvedimenti amministrativi, e fors’anche penali, nei confronti del suo ignobile autore razzista; infine, il Parlamento sarebbe stato sollecitato a legiferare in tutta fretta, per colmare un pericoloso ‘vuoto’ giuridico e sancire, con tutta la severità del caso, il principio che l’antisemitismo è un reato da punire a termini di legge.
È impossibile negarlo: di certi argomenti solo gli ebrei sono autorizzati a parlare. Solo loro possono muovere qualche obiezione al pensiero unico dominante, in base al quale il mondo è diviso nettamente, da duemila anni, in buoni e cattivi: buoni gli ebrei e i loro incondizionati amici e alleati, cattivi tutti gli altri.
Ai non ebrei, è proibito equiparare il sionismo a una forma di razzismo o di fondamentalismo; così come è proibito avanzare critiche o riserve nei confronti della politica dello Stato d’Israele, pena incorrere nell’accusa infamante di antisemitismo. Proibito anche, e soprattutto, avanzare l’accusa agli esponenti del sionismo, dopo la seconda guerra mondiale, di avere sfruttato la tragedia dell’Olocausto per ottenere carta bianca in Palestina, ai danni degli arabi-palestinesi lì stabiliti da un paio di millenni e per tenere indefinitamente l’opinione pubblica mondiale sotto ricatto: se si critica Israele, si è moralmente complici del genocidio hitleriano.
Lo stesso termine “antisemita” è una ingegnosa invenzione per mettere il bavaglio a ogni forma di dissenso nei confronti della politica israeliana. Tanto per cominciare, anche gli arabi sono “semiti” e, dunque, il termine è semplicemente privo di senso sul piano storico e antropologico. In secondo luogo, non si vede perché mai dissentire dalle azioni di un determinato governo dovrebbe implicare, automaticamente, sentimenti razzisti nei confronti del popolo che da quel governo è, al presente, rappresentato. La cosa dovrebbe essere talmente lampante da non abbisognare nemmeno di uno specifico chiarimento.
Guai, poi, ad avanzare il dubbio che, dopotutto, fra arabi e israeliani, i più razzisti sono i secondi. Shlomo Sand ha dichiarato che il dibattito israeliano sulle radici è (citiamo testualmente) «etnocentrico, biologico e genetico», e che uno Stato dovrebbe rappresentare tutti i suoi cittadini, dunque Israele dovrebbe rappresentare anche gli arabi palestinesi. Ma se tali parole fossero state scritte o pronunciate da un non ebreo, si sarebbe scatenato il finimondo.
Antisemitismo, così, è un termine che si è rivelato funzionale alla filosofia manichea della divisione del mondo in buoni e cattivi, di cui abbiamo detto poc’anzi. Ha creato, per così dire, il semitismo, ossia la sfera di ciò che non può essere criticato mai e poi mai, pena incorrere senza attenuanti nell’accusa di razzismo.
Eppure, i nostri nonni emigrati negli Stati Uniti all’inizio del Novecento erano chiamati dago, insultati, maltrattati e, qualche volta, anche uccisi (come nei tragici fatti di New Orleans del 1891); mai nessuno, però, in Italia, si è sognato di parlare di antitalianismo. Se lo avesse fatto, avrebbe creato, automaticamente, la categoria ‘sacra’ e intoccabile dell’italianismo, il regno dell’innocenza perseguitata dai biechi razzisti stranieri.
Nessuno ha mai pensato di sfruttare fatti come quelli di New Orleans per creare una situazione
morale e politica in cui gli Italiani, in qualunque circostanza internazionale, avessero sempre e comunque ragione, e i loro oppositori, sempre e comunque torto.
Ci si risponderà che una cosa è il linciaggio di una dozzina di emigranti, un'altra cosa è il genocidio di un popolo.
Questo è vero, almeno sul piano numerico.
Ma il sionismo nasce oltre mezzo secolo prima del nazismo, e il “ritorno” degli ebrei in Palestina, che culminerà nell’espulsione degli arabi dalla loro terra, è antecedente alla tragedia di Auschwitz, Buchenwald e Dachau. Theodor Herzl scrive il suo libro Der Judenstaat (Lo Stato degli ebrei), pietra miliare del pensiero sionista, nel 1896; e nel corso del primo Congresso mondiale sionistico, che si tiene a Basilea nel 1897, viene annunciato il "programma di Basilea", ovvero «la creazione per il popolo ebraico di una sede in Palestina garantita dal diritto pubblico». Eppure, all’epoca, in tutta la Palestina gli ebrei non erano che alcune migliaia: una piccola minoranza all’interno della nazione araba, con la quale viveva da secoli in termini di coesistenza pacifica, se non anche di buon vicinato.
Dietro l’arroganza del governo israeliano, e dietro il mito razzista del sionismo, non ci sono tanto i discendenti delle vittime della persecuzione nazista in Europa, ma i circoli finanziari ebrei-americani che, negli anni Trenta, facevano affari d’oro con il Terzo Reich, ma che oggi strepitano di vedere un novello Hitler in ogni capo di Stato o i governo - ieri Saddam Hussein, oggi Ahmadinejad - che, a loro giudizio, costituisce una minaccia anche solo potenziale allo Stato d’Israele. E, per convincere l’opinione pubblica delle loro buone ragioni, non esitano a inventarsi qualunque fandonia - come le supposte armi di distruzione di massa irachene -, al fine di distrarre l’attenzione dall’unica cosa che veramente conti, per riportare una speranza di pace in Medio Oriente: l’applicazione del piano di spartizione dell’ONU che, fin dal 1947, prospettò la divisione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno palestinese.
È vero che tale spartizione venne, all'’epoca, rifiutata dagli arabi; ma noi, al loro posto, che cosa
avremmo fatto? Quale tedesco, quale francese, quale italiano avrebbe accettato una spartizione della propria patria con uno Stato straniero, sorto quasi dal nulla, sulla base di una sorta di diritto di prelazione risalente a due millenni prima?
Links:
1. Domenico Savino: Omicidi rituali. Scontri e strategie (10/02/2007. EffediEffe). In evidenza dal link qui indicato: «…Ad esempio quando ha espresso le sue perplessità, che condivido, circa la legge sul carcere per i negazionisti, è stato poi indotto a ritrattare». A parlare è Ariel Toaff, lamentando delle pressione cui stato sottoposto suo padre, per metterlo contro di lui. Qualcosa in sé di disumano, che ben dimostra il livello di faziosità raggiunto. occasionalmente, apprendo di un caso simile per il carcere inflitto ai “negazionisti”. Elio Toaff sarebbe stato contrario, ma anche qui è stato coartata. La verità che apprendo, su un piano documentario, è che dunque una siffatta aberrante ed abominevole legge, per me di gran lunga peggiore del rito del sangue, nasce in ambiente ebraico-sionista. Se son capaci di tanto, di cosa altro stupirsi?
Di tutt’altro tenore è un altro risultato (su due complessivi) che mi è pervenuto insieme al precedente. Si tratta di un documento pdf, ma copiabile e senza nessuna indicazione del sito di provenienza. Per cui non posso citare nessuna fonte. Si tratta però di un vero e proprio saggio di cinque pagine con nome dell’autore e titolo. Il saggio mi appare ben fatto e lo trovo molto interessante. Lo pubblico qui di seguito pensando di far cosa gradita al suo autore, che ha forse inteso dare la massima diffusione sulla rete al suo scritto. Non posso chiedere autorizzazione preventiva alla pubblicazione perché non conosco l’autore ed al momento non saprei dove e come rintracciarlo. resto comunque a sua disposizione anche per rimovuere il suo testo dal mio blog, ove ne sia espressamente richiesto.
Antonio Caracciolo
1.
FRANCESCO LAMENDOLA
Alcune brevi considerazioni
sui concetti di sionismo e antisemitismo
Alcune brevi considerazioni
sui concetti di sionismo e antisemitismo
Aveva incominciato a smuovere le acque , nel 2007, il libro di Ariel Toaff, figlio del rabbino della sinagoga di Roma Elio Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, sollevando timidamente il velo sulla possibilità (si badi, la semplice possibilità) che qualcosa di vero ci fosse, nei racconti sulle uccisioni rituali di bambini cristiani da parte di fanatici ebrei, e sia pure in un numero assai limitato di casi.
Chi non ha mai sentito parlare, ad esempio, della vicenda accaduta a Trento nel 1475, quando un bambino di nome Simonino scomparve la sera del 23 marzo, giovedì di Pasqua, per venire poi ritrovato, cadavere orrendamente mutilato, nelle acque di una roggia che traversava il ghetto ebraico, proprio la domenica di Pasqua? Il principe vescovo di Trento, Giovanni Hinderbach (che non era affatto un rozzo e ignorante fondamentalista religioso, ma un raffinato umanista che molto si adoperò per diffondere la cultura rinascimentale nel suo Stato), fece istituire un processo che si concluse con quindici condanne a morte a carco di ebrei e con l’espulsione dalla città dei loro correligionari; sentenza che è stata ribaltata solo dopo il Concilio Vaticano II, con lo scagionamento degli ebrei da quel delitto da parte della Chiesa cattolica.
Poco dopo le vicende del 1475, infatti, si era diffuso spontaneamente il culto di san Simone (o san Simonino; ma, in effetti, era solo “beato”), martire della Chiesa, al quale furono dedicate numerose opere d’arte - pittoriche, lignee, ecc. -, non solo entro i confini del principato di Trento, ma anche, ad esempio, in Valcamonica, allora sotto la giurisdizione della Serenissima Repubblica di Venezia; e al quale vennero attribuite alcune guarigioni miracolose. In effetti, il legato pontificio di Sisto IV, che aveva seguito in loco l’inchiesta del tribunale del principe-vescovo, aveva manifestato dissenso verso le conclusioni cui era giunta; e, in un primo tempo, il culto di san Simonino non aveva ricevuto alcun riconoscimento ‘ufficiale’, anzi, era stato ripetutamente proibito dal pontefice. In seguito, però, il culto dello sventurato fanciullo era stato inserito nel Martirologio Romano, nel quale rimase fino al 1965.
In quell’anno, infatti, il vescovo di Trento, Alessandro Maria Gottardi, ha portato a conclusione un graduale processo di revisione storica - per opera specialmente di mons. Iginio Rogger, professore presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento - e ha stabilito la soppressione del culto di Simonino, procedendo anche alla rimozione dei suoi resti dalla chiesa cittadina di San Pietro, in cui erano stati tumulati. Tale decisione non ha provocato reazioni particolarmente vivaci da parte dei fedeli, anche se ha dato luogo a una controversia storiografica (e, in minor misura, devozionale) che non si può dire del tutto conclusa nemmeno ai giorni nostri. Non tutti, infatti, erano e sono d’accordo con la cosiddetta “svolta del Simonino”.
Oltre alla commemorazione annuale del fanciullo martire, infatti, per moltissimo tempo si era svolta, ogni dieci anni, una processione dei fedeli che portavano per le vie cittadine sia la salma di Simonino, sia gli strumenti con i quali sarebbe stato torturato a morte dai Giudei per celebrare, col sangue di un bimbo cristiano, la Pasqua ebraica. Tale processione, dopo la sospensione del 1945 - imposta dalle circostanze della seconda guerra mondiale - ha avuto luogo ancora una volta, l'ultima, nel 1955; quando, fra l'altro, la diocesi di Trento ha proceduto alla riedizione di un vecchio libretto devozionale narrante il martirio del fanciullo, che sarebbe stato strangolato dai Giudei per poi estrarne il sangue, con cui impastare i pani azzimi per la Pasqua ebraica. Nel 1965 sarebbe caduto il decennale per la successiva processione: che non ebbe luogo, appunto, per la svolta decisa dal vescovo Gottardi, in linea con gli orientamenti del Concilio Vaticano II per il ristabilimento di un clima di dialogo e comprensione con la religione ebraica. (Va detto, in proposito, che anche la città di Trento aveva ricevuto la scomunica da parte degli Ebrei, a causa delle condanne al rogo eseguite nel 1475 e delle successive espulsioni).
Il libro di Ariel Toaff, benché circostanziato e prudente, è stato accolto da un vero e proprio diluvio di critiche, non solo dalla comunità israelita - a cominciare dal padre dell’autore -, ma anche da parte degli storici, antropologi e studiosi delle religioni ‘politicamente corretti’ non ebrei, primo fra tutti Massimo Introvigne, il quale, all’argomento, aveva dedicato uno studio del 2004: Cattolici, antisemitismo e sangue.
Con la sola eccezione di Sergio Luzzatto, il quale, dalle colonne del Corriere della Sera dell’8 febbraio 2007, ne ha fatto una recensione tutto sommato equilibrata, il salotto buono della cultura italiana ha reagito molto male alla pubblicazione del libro. I titoli delle recensioni apparse sulla stampa nel febbraio scorso sono già di per se stessi eloquenti in proposito: si va da Rovesciamento senza prove di Anna Foa (su Avvenire del 9 febbraio 2007), a Replica di Introvigne a Toaff (su CENSUR del 10 febbraio), Nessun riscontro persuasivo di Adriano Prosperi (su La Repubblica del 10 febbraio), a Un libro di storia mal fatto di Giacomo Todeschini (dell’Università di Trieste, sempre il 10 febbraio), per finire in bellezza con Fede accordata a fonti di provata tendenziosità. Assenza di critica di Anna Esposito e Diego Guaglioni (sul Corriere della Sera dell’11 febbraio), il cui tono si può evincere in maniera estremamente eloquente già delle espressioni adoperate nel titolo (e va bene che, nel giornalismo italiano, vige la prassi che i titoli degli articoli siano mutati o inventati a piacere dal direttore o dal redattore-capo).
Insomma, si è assistito a una tempesta di esecrazioni contro il dilettantismo, la scarsa serietà, l’approssimazione e la tendenziosità del libro; al punto che l’Editrice Il Mulino, che lo aveva pubblicato, è stata costretta, per qualche tempo, a ritirarlo dalla circolazione, tale era il coro unanime di esecrazione da esso sollevato.
Ci chiediamo, sommessamente, che cosa sarebbe accaduto se a scrivere un libro del genere fosse stato uno storico non ebreo. Se vogliamo essere onesti, ci sono pochi dubbi in proposito: si sarebbe parlato di rigurgiti di antisemitismo e si sarebbero invocati provvedimenti 'alla Irving' (ossia, il codice penale e il carcere) per stroncare sul nascere gli antichi spettri di un odio razziale duro a morire, che manifesta la sgradevole tendenza a rinascere continuamente dalle proprie ceneri.
Ebbene, vediamo cosa avranno da dire adesso questi giornalisti, storici e opinionisti visceralmente “anti-antisemiti”, davanti a un evento culturale come la pubblicazione - non in Italia e direttamente in lingua italiana, come è accaduto per Pasque di sangue -, ma proprio nello Stato di Israele, di un libro come Una invenzione chiamata «Il popolo ebraico», dello storico ebreo Shlomo Sand (titolo originale: When and How Was the Jewish People invented, Casa editrice Resling, 2008), professore all’Università di Tel Aviv.
Come è ormai noto, le tesi dell’Autore si possono riassumere in questi termini. Dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, nel 70 d. C., gli Ebrei non furono affatto cacciati dai Romani fuori dalla Palestina. La proibizione di residenza valeva solo per la colonia di Elia Capitolina, ricostruita dai vincitori sulle rovine di Gerusalemme e dedicata a Giove Capitolino. L’esilio degli Ebrei, quindi, non è altro che un mito: la loro fu una partenza volontaria. Tra parentesi, Sand nega anche la storicità della schiavitù in Egitto e dell’insediamento in Palestina al tempo di Giosuè. Fuori della Palestina, gli ebrei - come popolo - lentamente furono assimilati dalle popolazioni presso le quali si erano stabiliti, così come si assimilarono con gli Arabi, dopo la conquista islamica, quelli rimasti in patria.
Restava la religione ebraica.
Secondo Shlomo Sand, non è vero che l'ebraismo sia stato una religione scarsamente interessata al proselitismo. Infatti, al giudaismo si convertirono interi regni, come quello dei khazari che, nel IX secolo, andava da Kiev al Caucaso e al Mar Caspio, o come quello di Himyar nella parte meridionale della Penisola Arabica; o, ancora, come quello dei berberi della regina Dahia al-Kahina; berberi che, dopo l’invasione araba del Nord Africa, si trasferirono in Spagna per non più ritornare indietro. Dai khazari, in particolare, sarebbe derivato il ramo ebraico askhenazita; e la lingua e la cultura Yiddish non sono affatto il prodotto dell'incontro di quelle ebraiche con quelle tedesche, bensì il risultato della mescolanza fra i discendenti dei khazari e le popolazioni tedesche che si spostavano verso l'Europa orientale. I sefarditi, invece - l'altro grande ramo della diaspora ebraica in Europa, quello sud-occidentale - deriverebbero dai berberi e dagli arabi che si convertirono al giudaismo dopo la conquista della Spagna da parte dei califfi successori di Maometto. Insomma, è stata la religione ebraica a diffondersi ai quattro angoli del mondo, non il popolo ebraico, che è semplicemente scomparso nel gorgo di mille razze e mille culture diverse. Nel 1948 non c'è stato alcun ritorno degli ebrei in Palestina; a tornare furono delle persone di religione ebraica, provenienti da comunità che si erano convertite al giudaismo lungo il corso dei secoli.
Quanto agli ebrei rimasti in Palestina, essi finirono per mescolarsi con gli arabi e per convertirsi all’islamismo; al punto che, se proprio si vogliono cercare gli antenati degli israeliani attuali, bisogna cercarli non fra gli ebrei immigrati dall’Europa tra la fine del XIX e quella del XX secolo, bensì proprio fra quegli arabi palestinesi che, oggi, sono visti dal governo d’Israele e dall’opinione pubblica ebrea come il nemico ereditario, coloro che hanno “usurpato” la patria giudea durante il lungo "esilio" la cui responsabilità è attribuita, a torto, ai Romani.
Dunque, i legittimi eredi del popolo ebreo - che però, in pratica, ha finito per scomparire nel corso di mescolanze bimillenarie - non sarebbero per nulla gli ebrei immigrati in Israele prima e dopo il 1948, ma gli arabi palestinesi; e il minimo che Israele dovrebbe fare, secondo giustizia, dovrebbe essere darsi una struttura corrispondente ad uno Stato misto ebreo-palestinese, capace di rappresentare tutte le sue componenti etniche, culturali e religiose.
La cosa più interessante del libro di Shlomo Sand è che queste tesi, che a noi appaiono come sconvolgenti, sono state presentate dall’autore come il classico segreto di Pulcinella. Egli, infatti, sostiene che non solo tutti gli storici ebrei, ma tutti gli israeliani, a cominciare da Ben Gurion e i padri fondatori dello Stato d’Israele, sono sempre stati perfettamente a conoscenza di questo ‘segreto’, ossia che non c’è nessun popolo ebreo e, quindi, che il sionismo si basa su un clamoroso falso storico; ma che lo hanno sempre taciuto per una forma di malinteso pudore confinante con l’ipocrisia, «come quando gli adulti vogliono parlare di sesso ma aspettano che, prima, i bambini siano andati a letto».
In Israele, ovviamente, si è acceso un forte dibattito intorno alle tesi del libro e i detrattori di Sand lo hanno accusato di incompetenza storica (per non essere risalito alle fonti antiche e medievali, lui specialista di storia moderna e, per di più, non ebraica, ma francese) e, ovviamente, di non aver dato alcun rilievo agli eventi della persecuzione nazista, culminati nella Shoa (anche se tali eventi non c’entrano per nulla con le tesi del libro).
Tutto sommato, però, il clamore non è stato quello che ci si sarebbe potuti aspettare. Certo, una parte degli scrittori e intellettuali ebrei, dentro e fuori Israele, hanno criticato più o meno aspramente il libro Una invenzione chiamata «il popolo ebraico»; però nessuno si è stracciato le vesti, nessuno ha chiesto il ritiro del libro o la cacciata del professor Sand dall’Università di Tel Aviv. Si parla delle sue tesi, se ne parla con calore e con vivacità; ma pur sempre nei limiti di un confronto civile. E tutto questo mentre il conflitto con i palestinesi ha raggiunto punte di una asprezza estrema ed il ‘mite’ premier Olmert accarezza l’idea di una invasione massiccia, manu militari, della Striscia di Gaza, per mettere fine una volta per tutte al terrorismo palestinese, a costo di sfidare le critiche dell’opinione pubblica mondiale.
Tanta compostezza, tanto fair play hanno semplicemente del prodigioso: al punto da far nascere il sospetto che sia vero quando ha detto Sand a difesa del suo libro: che egli non ha fatto altro se non dire quello che tutti gli ebrei sanno, ma che non hanno il coraggio di dire ad alta voce, quando i bambini sono ben svegli e potrebbero sentirli.
Ancora una volta, ci chiediamo che cosa sarebbe accaduto se le tesi di Shlomo Sand fossero state esposte, non diciamo da un Ahmadinejad o da un Gheddafi, ma da un serio e compassato professore universitario tedesco, francese o italiano, “reo” di non essere ebreo.
Anche qui, non occorre possedere la virtù della chiaroveggenza o della profezia per immaginare
benissimo quel che sarebbe successo: si sarebbe scatenato un putiferio all’indirizzo dell’ennesimo provocatore antisemita; si sarebbe preteso l’invio al macero del libro; si sarebbero invocati provvedimenti amministrativi, e fors’anche penali, nei confronti del suo ignobile autore razzista; infine, il Parlamento sarebbe stato sollecitato a legiferare in tutta fretta, per colmare un pericoloso ‘vuoto’ giuridico e sancire, con tutta la severità del caso, il principio che l’antisemitismo è un reato da punire a termini di legge.
È impossibile negarlo: di certi argomenti solo gli ebrei sono autorizzati a parlare. Solo loro possono muovere qualche obiezione al pensiero unico dominante, in base al quale il mondo è diviso nettamente, da duemila anni, in buoni e cattivi: buoni gli ebrei e i loro incondizionati amici e alleati, cattivi tutti gli altri.
Ai non ebrei, è proibito equiparare il sionismo a una forma di razzismo o di fondamentalismo; così come è proibito avanzare critiche o riserve nei confronti della politica dello Stato d’Israele, pena incorrere nell’accusa infamante di antisemitismo. Proibito anche, e soprattutto, avanzare l’accusa agli esponenti del sionismo, dopo la seconda guerra mondiale, di avere sfruttato la tragedia dell’Olocausto per ottenere carta bianca in Palestina, ai danni degli arabi-palestinesi lì stabiliti da un paio di millenni e per tenere indefinitamente l’opinione pubblica mondiale sotto ricatto: se si critica Israele, si è moralmente complici del genocidio hitleriano.
Lo stesso termine “antisemita” è una ingegnosa invenzione per mettere il bavaglio a ogni forma di dissenso nei confronti della politica israeliana. Tanto per cominciare, anche gli arabi sono “semiti” e, dunque, il termine è semplicemente privo di senso sul piano storico e antropologico. In secondo luogo, non si vede perché mai dissentire dalle azioni di un determinato governo dovrebbe implicare, automaticamente, sentimenti razzisti nei confronti del popolo che da quel governo è, al presente, rappresentato. La cosa dovrebbe essere talmente lampante da non abbisognare nemmeno di uno specifico chiarimento.
Guai, poi, ad avanzare il dubbio che, dopotutto, fra arabi e israeliani, i più razzisti sono i secondi. Shlomo Sand ha dichiarato che il dibattito israeliano sulle radici è (citiamo testualmente) «etnocentrico, biologico e genetico», e che uno Stato dovrebbe rappresentare tutti i suoi cittadini, dunque Israele dovrebbe rappresentare anche gli arabi palestinesi. Ma se tali parole fossero state scritte o pronunciate da un non ebreo, si sarebbe scatenato il finimondo.
Antisemitismo, così, è un termine che si è rivelato funzionale alla filosofia manichea della divisione del mondo in buoni e cattivi, di cui abbiamo detto poc’anzi. Ha creato, per così dire, il semitismo, ossia la sfera di ciò che non può essere criticato mai e poi mai, pena incorrere senza attenuanti nell’accusa di razzismo.
Eppure, i nostri nonni emigrati negli Stati Uniti all’inizio del Novecento erano chiamati dago, insultati, maltrattati e, qualche volta, anche uccisi (come nei tragici fatti di New Orleans del 1891); mai nessuno, però, in Italia, si è sognato di parlare di antitalianismo. Se lo avesse fatto, avrebbe creato, automaticamente, la categoria ‘sacra’ e intoccabile dell’italianismo, il regno dell’innocenza perseguitata dai biechi razzisti stranieri.
Ma non è così.
Nessuno ha mai pensato di sfruttare fatti come quelli di New Orleans per creare una situazione
morale e politica in cui gli Italiani, in qualunque circostanza internazionale, avessero sempre e comunque ragione, e i loro oppositori, sempre e comunque torto.
Ci si risponderà che una cosa è il linciaggio di una dozzina di emigranti, un'altra cosa è il genocidio di un popolo.
Questo è vero, almeno sul piano numerico.
Ma il sionismo nasce oltre mezzo secolo prima del nazismo, e il “ritorno” degli ebrei in Palestina, che culminerà nell’espulsione degli arabi dalla loro terra, è antecedente alla tragedia di Auschwitz, Buchenwald e Dachau. Theodor Herzl scrive il suo libro Der Judenstaat (Lo Stato degli ebrei), pietra miliare del pensiero sionista, nel 1896; e nel corso del primo Congresso mondiale sionistico, che si tiene a Basilea nel 1897, viene annunciato il "programma di Basilea", ovvero «la creazione per il popolo ebraico di una sede in Palestina garantita dal diritto pubblico». Eppure, all’epoca, in tutta la Palestina gli ebrei non erano che alcune migliaia: una piccola minoranza all’interno della nazione araba, con la quale viveva da secoli in termini di coesistenza pacifica, se non anche di buon vicinato.
Non solo.
Dietro l’arroganza del governo israeliano, e dietro il mito razzista del sionismo, non ci sono tanto i discendenti delle vittime della persecuzione nazista in Europa, ma i circoli finanziari ebrei-americani che, negli anni Trenta, facevano affari d’oro con il Terzo Reich, ma che oggi strepitano di vedere un novello Hitler in ogni capo di Stato o i governo - ieri Saddam Hussein, oggi Ahmadinejad - che, a loro giudizio, costituisce una minaccia anche solo potenziale allo Stato d’Israele. E, per convincere l’opinione pubblica delle loro buone ragioni, non esitano a inventarsi qualunque fandonia - come le supposte armi di distruzione di massa irachene -, al fine di distrarre l’attenzione dall’unica cosa che veramente conti, per riportare una speranza di pace in Medio Oriente: l’applicazione del piano di spartizione dell’ONU che, fin dal 1947, prospettò la divisione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno palestinese.
È vero che tale spartizione venne, all'’epoca, rifiutata dagli arabi; ma noi, al loro posto, che cosa
avremmo fatto? Quale tedesco, quale francese, quale italiano avrebbe accettato una spartizione della propria patria con uno Stato straniero, sorto quasi dal nulla, sulla base di una sorta di diritto di prelazione risalente a due millenni prima?
Links:
1. Domenico Savino: Omicidi rituali. Scontri e strategie (10/02/2007. EffediEffe). In evidenza dal link qui indicato: «…Ad esempio quando ha espresso le sue perplessità, che condivido, circa la legge sul carcere per i negazionisti, è stato poi indotto a ritrattare». A parlare è Ariel Toaff, lamentando delle pressione cui stato sottoposto suo padre, per metterlo contro di lui. Qualcosa in sé di disumano, che ben dimostra il livello di faziosità raggiunto. occasionalmente, apprendo di un caso simile per il carcere inflitto ai “negazionisti”. Elio Toaff sarebbe stato contrario, ma anche qui è stato coartata. La verità che apprendo, su un piano documentario, è che dunque una siffatta aberrante ed abominevole legge, per me di gran lunga peggiore del rito del sangue, nasce in ambiente ebraico-sionista. Se son capaci di tanto, di cosa altro stupirsi?
2 commenti:
Elena Loewenthal commenta su La Stampa:
[...] La critica spinta, scabrosa al punto da rimettere tutto in gioco - il passato e il presente, la storia biblica e i fondamenti dello Stato d'Israele -, diventa una specie di negazionismo «autoreferenziale», che è il paradosso di una società dove la libertà di espressione diventa anarchia pura. [...]
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Niente da fare, l'autocritica, se c'è, è sempre sbagliata: è anarchia, è abuso della libertà di espressione (vi piacerebbe, la censura, eh?). Questi sono i filosionisti e filoisraeliani.
Arrampicatori di specchi
professionisti, incapaci della benché minima autocritica.
Di Elena Loewenthal mi sono già occupato ed ho aperto un'apposita scheda, dove andrò ad esaminare e criticare tutti i suoi articoli elogiativamente ripresi da «Informazione Corretta»: nel loro archivio ve ne sono parecchi. Ma soprattutto starò attento ai nuovi suoi articoli ed ogni volta non le risparmierò la mia critica, che rimanderò alla Stampa. Avevo infatti mandato il mio post a “La Stampa” che poi lo ha rimandato alla stessa Loewenthal, ch a sua volta mi ha scritto. Non posso rendere pubblica la corrispondenza privata, che non è stata e non poteva essere di tono cordiale. Costei iniziava con sperticate professioni di riconoscimento della libertà di pensiero e di espressione, clamorosamente sconfessate nella vicenda del prof. Pallavidini sottoposto a visita psichiatrica per aver osato criticare Israele e le programmazioni scolastiche sul Giorno della Memoria. L'obiettivo era quello di togliergli la cattedra. La manovra è stata sventata dai consulenti di parte alla visita medica. Il tutto era partito da un'azione combinata dei genitori degli allievi, fra cui una figlia della Loewenthal. L’articolo apparso, qui citato, su “La Stampa” documenta la pretesa liberalità della Loewenthal. Con tutti costoro è però difficile trattare perché ad ogni minima cosa ti gettano addosso l'’antisemitismo ed i morti di Auschwitz, quasi che della loro morte e del loro imprigionamenteo fosse stato responsabile l'interlocutore critico, neppure nato all'epoca dei tragici fatti. Per smascherare la loro malafede mi offro ogni volta per una censura preventiva a loro affidata di ciò che scrivo nei loro confronti. Dico loro: se è questione di singoli termini che vi offendono e che secondo voi denoterebbero un illegale antisemitismo (Giorgino, dal cognome sul quale non si può ironizzare o simili), ebbene, non è questa la sostanza del mio pensiero e della mia critica: censurateli pure e lasciate intatto il resto. Se viene data questa facoltà, reagiscono con sdegno perché loro non censurano nessuno, salvo a mandare in galera con carcere duro tutti i cosiddetti negazionisti. Rivelatrice in due picciolette righe (ripostate verso la vine nel mio post) la pressione a cui è stato sottoposto il rabbino emerito Elio Toaff, padre di Ariel, proprio perché questo “giusto” ebreo si era dichiarato contrario al carcere per i negazionisti.... Insomma, tutti costoro sono dei grandi ipocriti in malafede dai quali occorre stare in guardia. Bisognerebbe però imitarli nella loro capacità aggregativa ed offensiva. I cittadini amanti delle loro libertà – in Civium Libertas – dovrebbero darsi un'eguale capacità aggregativa a fini meramente difensivi. Infine, è da disilludersi sulla possibilità di un dialogo con costoro. Troppo grande è la loro malafede e soprattutto la loro identità ebraico-olocaustica, di cui parla un Avraham Burg, volgarmente e ferocemente attaccato da una Deborah Fait.
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