Il profilo più
interessante di tale saggio, è che, contrariamente a quanto di solito
generalmente praticato (anche da studiosi), riconduce a concetti, categorie,
intuizioni che sono patrimonio da secoli del pensiero politico, le vicende
d’attualità.
Così è per la
pandemia. Il libro esordisce “Il potere politico si fonda sulla paura. E il
caso della pandemia non costituisce eccezione… La paura, scaturita dal rischio
posto dalla pandemia, è stato il carburante di legittimità politica per far
accettare scelte di governo, restrizioni e norme che altrimenti mai sarebbero
state considerate ricevibili dalle popolazioni delle democrazie occidentali” (e
naturalmente il riferimento è, in primis,
a Hobbes) “per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per
politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza”. Dato che
“secondo Luhmann, il sistema politico-giuridico opera come una struttura
normativa di selezione delle alternative. Diritto e potere politico tracciano
dei confini per i comportamenti individuali e sociali costringendo le
possibilità di scelta tra innumerevoli alternative”, onde “Il sistema di potere,
in definitiva, definisce quali rischi coprire e quali lasciar correre, quali
paure sopire e quali far circolare”.
L’inconveniente, noto, è che per farlo,
necessita di potere/i enormemente superiore, nello Stato moderno, a quello
necessario a forme politiche meno impegnative.
Anche se
esercitato attraverso un ordinamento amministrativo costituito da burocrazie
professionali specializzate, il potere politico non rinuncia alla dinamica
antichissima “dell’insondabilità e dell’inconoscibilità dei segreti su cui si
fonda la decisione: “A certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si
possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”, comunque
rimesse all’autorità di esperti, illuminati
dal sapere. Anche in ciò nulla di nuovo: l’incremento del potere attraverso il
mistero e l’inconoscibilità (ai più) è una costante da millenni. Kojéve la fa
risalire alla teoria dell’autorità di Aristotele fondata sulla superiorità e
sulla capacità di prevedere del
superiore, e così (anche) dei dotti sugli inesperti (e ignoranti).
Ciò sarebbe
anche conforme al pensiero istituzionale moderno, uno dei connotati del quale è
la razionalizzazione, anche e soprattutto del potere politico (e lo Stato ne è
il risultato). Solo che data la complessità dell’essere umano e delle società
“c’è sempre un’incrinatura” che si frappone nella saldatura tra tecnica e
potere, perché “Non c’è razionalismo capace di trasformare una società umana in
una macchina e la politica in ingegneria”.
Da questa e da
altre affermazioni del saggio deriva che, cambiando situazione e
giustificazioni, la sostanza rimane – in larga parte – la stessa: a seguire
Hauriou, le fond è il medesimo. Con
la conseguenza che, dato il carattere prevalente e decisivo in politica della
competizione e conservazione del potere, la pandemia è (e può esserlo ancora di
più) la giustificazione dell’incremento dei poteri pubblici. I quali,
nell’attualità possono avere due versioni; da una parte “c’è il tecno-autoritatismo
cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema
esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto
che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di
misura più che di sostanza”. Mentre in occidente è il verde, le politiche green: “proposte dalla classe politica
occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio
appare già in compresenza a quello pandemico”.
Con la
prospettiva di arrivare al Leviatano climatico: “lo stratagemma usato
dall’alleanza tra capitalismo clientelare, finanza e politica per rilanciare lo
sviluppo globale senza rinunciare a forme di centralismo economico, di
moralismo pedagogico e di azioni disciplinanti sui singoli individui”.
Castellani ne individua
i connotati già nella nota profezia
di Tocqueville sul dispotismo mite: un potere fondato su un controllo
generalizzato, un potere assoluto, pervasivo, previdente e dolce, che fiacca la
volontà e riduce la comunità a un gregge “di cui il governo è il pastore”. È il
dispotismo mite quello peculiare alla decadenza occidentale “securitario e
centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la
società civile, i beni comuni, le libertà negative e positive vengano
mortificati e sacrificati sull’altare di un nuovo dirigismo e della sua
pianificazione”. A questo l’autore contrappone il recupero di “forme di azione
riflessiva, decentrata e consensuale … ancora possibili invece di pensare a
forme di delegittimazione ed esclusione
dell’avversario. L’auctoritas
prevarrebbe sull’imperium, l’amicizia
sull’inimicizia, la rule of law sul
potere di polizia… ci sarebbe invece un rifiuto della sorveglianza come
idea-guida dell’organizzazione sociale”; perché “la politica sapiente è l’arte
di rinvigorire la società, e non di alimentare burocrazie, e la libertà di
tutti è un privilegio la cui difesa compete alla classe dirigente”. Ciò sarebbe
sicuramente aspirazione largamente maggioritaria. Speriamo che sia pure largamente
percepita; perché lo diventi, si consiglia la lettura di questo saggio.
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