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È disponibile un video You Tube, dove Ghada Karmi che è stata in Italia almeno un paio di volte, in cui ho avuto occasione di poterla ascoltare durante la presentazione del suo libro, uscito in traduzione italiana, nel mese di settembre dello scorso anno. È un libro decisamente illuminante per chi vuole seriamente comprendere ciò che succede in quella terra di sofferenza secolare che si chiama Palestina. La realtà dei fatti è ricondotta nella loro elementare semplicità, depurata da quei distinguo, da quelle equidistanze che nel migliore dei casi ostentano imparzialità fra il lupo e l’agnello, fra la vittima e il carnefici. Un libro che è necessario necessario leggere per sottrarsi agli inganni sistematici e scientifici che i media propagano, magari proprio quando pensano di aver favorito la causa palestinese dandole una qualche copertura giornalistica in contrapposizione al silenzio assordante con cui viene consumato un genocidio con la complicità dei governi e perfino di istituzioni come l’ONU, il cui attuale presidente Banki Moon avrebbe dovuto essere lui una sorta di Ammiraglio delle navi della Freedom Flotilla II, il cui viaggio per rompere l’assedio di Gaza è ostacolato in tutti i modi, non escluso il taglio malavitoso delle eliche. Abbiamo già letto una volta il libro di Ghada Karmi ed abbiamo faticato più volte a rintracciare la citazione che segue ed un’altra che si trova in apertura del volume. Per comodità nostra e dei Lettori riprendiamo la serie di post dedicata a “Citazioni” particolarmente significative, che è utile avere comodamente a portata di mano.
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La campagna israeliana contro i palestinesi è stata un assalto sistematico alla memoria collettiva, all’identità e alla coesione di un’intera società, con l’obiettivo di estirpare l’idea che ci fosse qualcosa di non ebraico precedente allo Stato di Israele. Il danno che questo ha recato ai palestinesi in termini fisici, sociali e psicologici è incalcolabile e deve essere ancora analizzato. Nei primi anni dello Stato di Israele, ad esempio, fu messa in atto una politica che mirava deliberatamente a distruggere la coesione della società palestinese. Agenti israeliani organizzarono in segreto conflitti tra i palestinesi, armarono e favorirono alcuni gruppi e non altri ed escogitarono vari modi per impedire l’emergere di una classe di palestinesi ben istruita e la formazione di una leadership palestinese.
A quel tempo esistevano progetti di storia orale per documentare le vicende del 1948 e le loro conseguenze ed erano disponibili solo pochi documenti scritti su quella tragica vicenda. Anche se questi progetti stanno diventando sempre più importanti, il lavoro vero e proprio è solo agli inizi. Il fatto che i tentativi di salvare gli eventi narrati dalla generazione che li ha vissuti abbia richiesto tanto tempo è indicativo del trauma causato dalla Nakba.
Per illustrare la situazione basta un esempio. Una caratteristica della Nakba, della quale si è parlato poco, furono i campi di lavoro forzato istituiti dal nuovo Stato israeliano durante la guerra del ’48-49. Secondo la Croce Rossa Internazionale furono istituiti cinque campi per la popolazione maschile tra i 10 e i 60 anni che ospitarono oltre 5000 palestinesi catturati nel corso della guerra.
Gli uomini lavoravano per costruire gli insediamenti israeliani e per trasferire le pietre delle case arabe distrutte, necessarie per la costruzione di nuove abitazioni per gli ebrei. I prigionieri rimasero nei campi dai due ai cinque anni, la maggior parte fu rilasciata nel 1955. Molte delle guardie dei campi erano ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania nazista, a volte anche ex prigionieri dei campi tedeschi. Nessuno dei prigionieri palestinesi parlò di questa esperienza e questa storia è emersa solo successivamente. Fu come se nessuno riuscisse a esprimere in parole l’enormità delle sofferenze causate dall’esperienza della perdita, dell’insicurezza e dello sradicamento. La gente che doveva far fronte alla sopravvivenza quotidiana non poteva guardare al passato.
Ghada Karmi, Sposata a un altro uomo.
Per uno Stato laico e democratico
nella Palestina storica, Roma, 2010, pp. 32-33
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