È pubblicato in
nuova edizione, con postfazione di A. Cecchinato, il saggio di Francesco
Calasso del 1954, già all’epoca oggetto di attenzioni diffuse.
La postfazione
nota come l’attività scientifica dell’autore con la sua aura di antiformalismo
“ha infuso l’esperienza scientifica di Calasso d’una piena fiducia nel valore
autoritativo della tradizione, che è stata la vera cifra – come ha insegnato
Manlio Bellomo – di una vita condotta per il diritto”.
A distanza di
oltre cinquant’anni e malgrado la materia – la storia del diritto – il saggio
di Calasso suscita interessi d’attualità.
In primo luogo
per la “rinascita” del diritto
romano, avvenuta nei primi secoli del passato millennio, in Italia ad opera, in
particolare, d’Irnerio e della scuola di Bologna. Lentamente i giuristi del
diritto comune, interpretando il corpus
juris in una con consuetudini, statuti e (anche) contaminazioni, contribuiscono all’unità giuridica. Ovviamente nei
e con i limiti di un sistema non codificato, e le cui fonti non avevano il
carattere formale di un’organizzazione che le ponesse in essere e ne garantisse
l’applicazione. Caratteri ambedue, ancorché non esclusivi, del (successivo)
Stato moderno. Come scrive Calasso, il sistema giuridico è un tutto, un’unità.
E il quid che gli da vita è
“un’organizzazione cioè nella quale distinguiamo un meccanismo che produce le
norme e degli organi che le applicano e ne garantiscono l’osservanza”. Come successe
che, malgrado la debolezza dell’organizzazione politica medioevale, avvenisse
quella “unificazione”? Fu, scrive l’autore per “un ideale supernazionale:
quella monarchia universale che perpetua il nome di Roma”.
Tale tesi
ricorda quella di Vittorio Emanuele Orlando che sia fonte di equivoci ed errori
“la pretesa di assumere come caratteri assoluti dello Stato e del Diritto, non
che dei rapporti intercedenti fra loro, le forme moderne, in cui quelle nozioni
han trovato il loro attuale assetto”. E che l’affermarsi di un ordinamento
superiore e generale avviene per gradi, onde in relazione alla realizzazione
coattiva delle pretese perdura “l’esistenza e continui l’efficacia, anche se
ridotta, della forza spettante alle forme anteriori: il diritto pubblico romano
dimostra tangibilmente il valore politico e istituzionale che, per lungo tempo
dopo la loro trasfusione nello Stato, serbarono la familia, la gens, la curia, la tribus”, scriveva Orlando.
Secondariamente,
molti hanno notato, come, a partire dal secolo scorso, ma in particolare dagli
ultimi decenni del medesimo, sia in atto il percorso inverso: da un monopolio
statale della decisione politica e della forza legittima (la coazione) ci
stiamo avviando verso una pluralizzazione normativa (e anche istituzionale): il
conferimento di funzioni a organismi internazionali, la progressiva crescente
diffusione di Tribunali internazionali (e l’efficacia delle di essi decisioni
sul diritto interno), e la stessa legittimazione di guerre e di occupazioni
militari attraverso l’appello ai diritti dell’uomo (et alia) e le conseguenti espressioni lessicali che le designano
(“operazioni di polizia internazionale”), mostrano il processo in atto. Al
quale corrisponde una nuova antitesi politica, prevalente in gran parte del
mondo sviluppato: quella tra globalizzatori, cioè sostenitori – per ora – di un
diritto (ed un’economia) universale, e sovranisti, cioè partigiani di diritto e
scelte economiche particolari (cioè
statali).
Come andrà a
finire questa contrapposizione è in mente
jovis. Anche qua tuttavia la tesi di Calasso che il diritto comune si fondò (e si diffuse) in forza di un’idea
universale, di “un fatto spirituale” può indicarci come dal diritto, anzi
dall’aspirazione a un diritto, possa nascere l’istituzione.
Teodoro Klitsche
de la Grange
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