1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi
pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse
conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che
l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee –
cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,
Scriveva Hegel:
“Se paragoniamo poi l’America del nord con
l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana.
Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto,
per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La
protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono
fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche
la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al
guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge
all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono,
naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma
questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani
hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e
prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e
maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto
progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma
questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati
peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza
non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra
con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli
Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie
impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non
hanno nessuno stato confinante,
rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono
reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro
cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non
incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da
cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”[1].
Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale
dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico”
dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che
consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e
nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en
Amérique”.
Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte
le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella
guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri:
esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli,
che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro
malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a
farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in
questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e
la loro vittoria al dispotismo.
Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel
modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come
il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto
deboli.
Nel sistema federale, non solo non c’è affatto
accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento
politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa
di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”.
E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra
bel 1812[2].
Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a
quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed
inglesi in particolare[3].
Per cui la particolare conformazione della
Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla
situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville
per l’America.
D’altro canto il rapporto tra sovranità
all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinien[4].
2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere
politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico
e guerra), e lo distingueva da un mero
decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands
già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco.
Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato”
che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare,
mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono
separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.
Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di
pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte
suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco
è determinata nel modo più accurato”[5], per
questo ha il diritto di andare in rovina[6].
Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del
diritto[7] né
della religione[8]; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine
di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa
della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è
la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere
lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso
contro l’impeto universale dei singoli”[9].
Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni
ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:
Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici –
cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in
particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.
Che a costituire l’unità politica non è la
comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè
fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e
spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un
governo.
Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è
tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può
aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento - ma la
divisione del potere politico. Per definire il quale occorre
distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in
entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il
rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco
l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus
necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno
Stato.
Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di
interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di
crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di
difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato
al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del
Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).
3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto
pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di
“onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si
che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero
smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del
diritto pubblico.
Ciò è stato l’effetto di due idola theatri
diffusisi negli ultimi secoli.
In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o
(meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da
Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di
esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico
come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia
cristiana[10] non avrebbe mai pensato
di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto
e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i
condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi
casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di
Spinoza[11],
come quelle della storia.
Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo
“spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei
“rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”[12], e
capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e
reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha
“sviluppate” e non ad un altro.[13]
Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo
fino all’età post-rivoluzionaria.
Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni
giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato
sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo
l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che
all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche
misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la
materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi,
condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione:
la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali,
condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso
dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti
italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era
così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza
alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi
nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decenni[14].
Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a
tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica
di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di
tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni
scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di
ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari,
l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è
politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è
politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.
A leggere un manuale di diritto costituzionale o
internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX
secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale
sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è
il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto
organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice.
Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a
stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente
prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un
politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il
concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di
carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è,
secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze reali[15].
L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che
se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in
senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo
dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle
norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si
possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700
un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed
internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti
(del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.
Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale
il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma
della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a
principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera
“classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La
natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto
internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di
diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme
di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde;
le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di
diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice
cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente
nelle pagine che seguono”[16]. Per
ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’
“impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della
decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come
di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio,
recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado
in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni
potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte,
efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il
monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza,
anche se meno rilevante, del diritto applicato).
Ed è tale forma che garantisce non solo
l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale
(cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità
assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato
internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come
la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la
possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello
“interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano
sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al
giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.
Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme
è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed
esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed
esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è
del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano
invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione)
a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.
4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea)
le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.
In primo luogo che a costituire una federazione,
non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma
l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su
tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il
criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul
nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare
la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non
una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione
europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altra[17].
Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico,
è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.
Del pari l’entusiasmo politicamente corretto
che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale
(Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a
promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate
apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi
siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e
spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e
tantomeno impedirà la guerra.
Neppure l’unità del diritto serve a produrre
l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende
quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una
omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi
internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e
in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi
nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di
credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E.
(ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle
competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno
sulla competenza a dichiarare la guerra.
L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione
“internazionale” (oltre a quello
amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente –
perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non
quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione”
giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico
investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike),
contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)[18]: il
primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi
diremmo, oggigiorno, internazionale”[19],il
secondo interno a quelli.
Per cui la (comune) Dike non serve a
mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di
politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul
piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi
carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non
percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e
privato.
5. Un’altra considerazione occorre dedicare al
problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto
che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come
quello federale).
I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche
possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed
applicazione del diritto sono diversi.
In particolare, se, come scrive Schmitt[20] “la
federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di
autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre
considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una
federazione (o ad uno Stato federale).
Fatta questa premessa, occorre distinguere tra
limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.
Tra
le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a
oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non
riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio
il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina
della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una
menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di
Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la
seguente “Nel momento in cui, secondo
l'opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati
Europei liberati o di quelli satelliti dell'Asse Europeo imponessero di
intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra
loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così
agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.
Il senso e gli effetti di tale dichiarazione
sono chiari: i vincitori si
riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati,
diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e
quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione
costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in
molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non
alla federazione[21].
Diversamente
da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate
non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli
Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto
federale”[22].
Mentre
nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come
garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia”
o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà
dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente
occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli
Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di
intervenire di conseguenza.
Non
meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla
sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò
Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione
del trattato[23]. Ciò non esclude che con
un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della
federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la
conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato
federale[24], nel
caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e
sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).
Spesso
connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza
nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La
recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne
offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione
di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta,
sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e
occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e
amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”[25]
dello Stato-guida.
Il
che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un
gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e
distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.
6.
È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse
forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro
romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo
scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.
Trovare
forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo
tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati
tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè
l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.
In
primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e
della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno,
come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del
nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro
e le periferie dell’Impero.
L’Anabasi
offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide:
Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di
muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro
satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva
“affatto che si facessero guerra tra loro”[26]
(probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per
raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa
territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso
aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri
sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne
nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione
che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.
In
altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace
all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano
parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi,
segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le
guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore
costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche
negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha
una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre
pubbliche da quelle private[27].
La
seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra
interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea
due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra
ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.
Quello
interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed
internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a
tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai
poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace.
All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà
prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e
regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo,
la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e
considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di
principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è
così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio
pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La
distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono,
per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è
sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed
esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali
(dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano
i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo - ed aveva propri vassalli -
nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e
l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro
della stessa natura.
In
terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di
protezione (quest’ultimo costituente,
secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)[28]:
nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra
i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con
lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi
rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.
Nella
società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati
alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores,
la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di
protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.
Quanto
alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra,
negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di
dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza
(o irresistibilità)[29] e la
generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e
“giudice” di tutto, anche della propria competenza.
Il
primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che
distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro
potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili);
mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici
essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli
altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze
“quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).
Del
pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti
poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice
della propria competenza (come nella società feudale).
Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi
di pace[30], e,
correlativamente tre tipi di guerre[31],
anche in relazione alla esistenza di imperi.
7.
La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile
alla situazione contemporanea.
In
primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti”
dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se
il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato
(nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione
dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico)
dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone.
La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella
prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno
idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie
des Rechts il concetto viene ribadito[32].
Neppure
l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il
funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità
politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini
l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito
“internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali
non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto
le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra
citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento
amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”,
come va di moda).
È
l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente
organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è
un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politico[33] del
rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a
poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché
dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere
razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella,
necessaria, di “coazione”.
E
del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla
guerra (ed all’esistenza - ed alla
scelta - del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo
Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza
della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e
situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò
fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per
esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali
ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.
Ove
si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del
politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su
burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità
politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.
Quanto
all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare
sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere
anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e
periferia, e perciò non monopolizzato.
Le
conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non
esclusivo ma prevalente, oscillante tra
mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di
guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera
e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e
proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi
invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra
asimmetrica.
Il
tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus
publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum
privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi
feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno
come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione”
dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una
situazione neo-feudale.
Augusto
dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita
pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad
un atto analogo.
Teodoro Klitsche de la Grange
[1] V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi
sono nostri).
[2] “La costituzione dà al
Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi
Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere
un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli
Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.
All’epoca della guerra del 1812, il Presidente
ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il
Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla
guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.
La costituzione, essi dissero, autorizza il governo
federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o
di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né
invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il
diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il
diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra
nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto
il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato
da un altro.
Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non
solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle
Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque,
l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue
leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione
che non ha grandi guerre da temere.
Posta al centro di un continente immenso, in cui
l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo
quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.
Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la
sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano
l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.
Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico;
probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per
lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei
costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le
nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco
temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque,
quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere
grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover
temere grandi conflitti.
Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del
sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della
prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali
è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei
popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una
nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri)
– v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p.
200 ss.
[3] “…il più grosso problema
europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza
distruggerlo.
Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi
fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi
fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la
forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per
l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è
una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno
dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi
fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la
voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda
e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare
qualcosa del genere” Du pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A.
Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).
[4] “L’idealità che fa la
sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto
accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i
poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.
Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si
presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito
irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.
Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è
quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità
all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per
la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto
produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la
cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V.
Cicero, Milano 1996, p. 545.
[5] E proseguiva “da un lato
questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato,
dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno
nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e
degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze
straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.;
un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di
affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in
dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati
un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco
non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno
sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo
Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit.
pag. 19.
[6] E così prosegue “la
Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale
saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e
che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa
legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella
condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente,
moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena
ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più
grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e
contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa
della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il
diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più
grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le
comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di
essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco
forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia,
pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari
1961 pp. 21.
[7] Riguardo alle leggi
propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza
delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato
(tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta),
né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti
degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia
aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al
diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello
burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni
città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese
disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto
frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.
Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la
circostanza dello stabilire da quale
particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi
stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit.
pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).
[8] Quanto poco, prima e in
sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè
impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi
la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36
[9] Op. cit. p. 44 (i
corsivi sono nostri)
[10] Mi si consenta di rinviare
a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello
Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.
[11] v. Trattato politico,
trad. it. Torino 1958, p. 205.
[12] Montesquieu, Esprit des
lois I, 1, 1
[13] Montesquieu, Esprit des
lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour
lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation
peuvent convenir à une autre».
[14] Era cioè proprio il
contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere
in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol
costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo
mantengano, come fanno le leggi civili.
Queste leggi debbono essere in relazione col
carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la
qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere
di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o
pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la
costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro
disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi,
maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col
fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state
costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti,
ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste
relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito
delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i
condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che
erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di
intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.
[15] V. Über verfassungswesen,
trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una
critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche
formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in
ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché
tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come
una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non
l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di
riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e
sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere
che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che
determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società,
cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come
sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.
[16] H. Triepel Völkerrecht
und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)
[17] Montesquieu considerava con
favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli
Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così
lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e
grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma
raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili
associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della
paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in
altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa
correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non
soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di
tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter
contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica
estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.
[18] “Tutte le istituzioni
generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si
caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo
applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit
constitutionnel, Paris 1929, p. 98.
[19] Hauriou op.loc. cit.,
e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike
trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti
neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.
[20] Verfassungslehre
trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.
[21] v. sul punto C. Schmitt op.cit.p.
493: “Ma poiché le questioni
dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti,
specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione
su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni
dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la
decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della
sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro.
Questa non è una divisione della
sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri:
non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la
questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la
decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”
[22] v. op. cit., p. 480.
[23] V. in Palomar n. 18,
pp. 49 ss.
[24] Op. cit., p.
480-481.
[25] v. gli articoli di Jean
Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.
[26] Anabasi, I, 2.
[27] In effetti in tali guerre,
essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle
auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da
S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle
condizioni dello justum bellum.
[28] V. Leviathan
(conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul
governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del
tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e
senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua
relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della
natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza
inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol.
II, Bari 1974, p. 661.
[29] V. la definizione di G. D.
Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che
l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.
[30] “Distinguo tre tipi di
pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze
delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle
di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse
in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a
sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les
nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono
nostri).
[31] “La classificazione
ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più
formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla
nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano
unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità.
Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o
rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione
di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali
le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità
politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron
attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima.
Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale,
questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può
essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie
extraeuropee degli Stati europei).
[32] Op. cit., v. (tra
gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi
la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della
proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in
quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo,
il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio
individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello
Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli
individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore
appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e
risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V.
Cicero, Milano 1996, p. 417-419.
[33] V. Julien Freund L’essence
du politique, Paris 1965, p. 94 ss.
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