Come scrive
l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo
dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò
non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla
falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi
ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è
sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli
della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può
essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “ti
fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se
l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente
svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi
dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità…
Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo
sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive
l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano
homo academicus saecularis sinister.
Nell’illudersi
un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della
Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale
di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt coinsequentia rerum dicevano i romani: invece oggi,
precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la
realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere
una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere
un uomo. D’altra parte secondo un noto detto il Parlamento inglese poteva fare
qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i
creatori e fedeli di certi idola,
tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).
Il che somiglia
assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo,
in un quid da realizzare. Senza però
chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o
onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a
livello macroscopico - qual è stata la
sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già
nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma
irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i
rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe
comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un
esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico,
cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del
pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana
conosciuta (l’uomo è zoon politikon).
Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il
socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha
potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno
quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia,
ecc.) come qualsiasi altro regime politico.
Dopo poco più di
settant’anni (al massimo, per l’URSS) il tutto è finito per implosione, dato
che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società
senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può
ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la
realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli,
porta alla “ruina sua”.
E causa di
quella ruina è aver creduto
all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.
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