giovedì 4 novembre 2021

Teodoro Klitsche de la Grange: "Anthony M. Esolen, Sex and the unreal city. La demolizione del pensiero occidentale, Il Timone, Milano 2021, pp. 233, € 22,00"

 

Come scrive l’autore “ora, in questa nostra epoca così apparentemente illuminata, abbiamo dichiarato che restare ancorati alla realtà sia una cosa da condannare. Perciò non abbiamo semplicemente finito col credere in alcune falsità”, ma alla falsità, compreso il non essere, inteso al minimo come ciò che non esiste, anzi ciò che ragionevolmente non può esistere. La diffusione di tale credenza è sorprendente, e contraddice la pretesa di essere, nel contempo, dei “fedeli della ragione”. Perché credere in una cosa che non è ma addirittura non può essere, serve solo ad illudersi o ingannare gli altri. Come scrive Dante “ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi scosso”. Così una volta creduto nell’irrealtà, si deve conseguentemente svincolarsi dalla logica e dall’esperienza. Scrive Esolen: “Uno dei sintomi dell’irrealtà è sicuramente l’incapacità di riconoscere la propria stupidità… Tutti, in qualche maniera, siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno, e gli sciocchi che, non sapendolo, sono ancora più sciocchi”, scrive l’autore descrivendo la parabola delle università americane popolate, del tipo umano homo academicus saecularis sinister.

Nell’illudersi un’importanza decisiva ha il linguaggio “Una delle strane caratteristiche della Città Irreale è l’ossessione simultanea per il linguaggio e un rifiuto generale di riconoscere a cosa serve il linguaggio”. Nomina sunt coinsequentia rerum dicevano i romani: invece oggi, precisa l’autore “Vogliamo creder che le nostre parole possono alterare la realtà”. Solo che questo significa creare il falso: un uomo che afferma di essere una donna, e pretende di essere considerato e chiamato tale, continua ad essere un uomo. D’altra parte secondo un noto detto il Parlamento inglese poteva fare qualsiasi cosa, tranne che cambiare l’uomo in donna; tale limite non c’è per i creatori e fedeli di certi idola, tendenzialmente creduli nell’onnipotenza (delle parole).

Il che somiglia assai più che a un ragionamento a un desiderio che si trasforma in obiettivo, in un quid da realizzare. Senza però chiedersi se sia realizzabile. Con ciò presupporrebbe una potenza (o onnipotenza) che non è nelle disponibilità umane. Basta all’uopo constatare – a livello macroscopico -  qual è stata la sorte del comunismo, il cui esito era la società comunista o senza classi. Già nel giovane Marx il comunismo era indicato come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia. Ossia la formula per cambiare la natura umana mutando i rapporti di produzione. L’instaurazione della società senza classi avrebbe comportato l’estinguersi dello Stato e del politico. Solo che non c’era un esempio nella storia che ciò si fosse verificato. I presupposti del politico, cioè l’insopprimibilità (la costanza) del comando/obbedienza, del pubblico/privato, dell’amico/nemico, risultavano dati in ogni comunità umana conosciuta (l’uomo è zoon politikon). Il resto della parabola dimostra che il comunismo realizzato (cioè il socialismo reale) ha retto solo perché (contrariamente alle intenzioni) ha potenziato le tre costanti. Ha creato dittature sovrane, società che hanno quasi completamente annichilito il “privato”, ha avuto nemici (la borghesia, ecc.) come qualsiasi altro regime politico.

Dopo poco più di settant’anni (al massimo, per l’URSS) il tutto è finito per implosione, dato che la stessa classe dirigente non credeva più nel sistema e della società senza classi non si sentiva il profumo, neanche alla lontana. Il tutto può ripetersi in utopie/illusioni che presentino caratteri analoghi: obliterare la realtà per andare appresso all’immaginazione di essa. Cosa che, come scriveva Machiavelli, porta alla “ruina sua”.

E causa di quella ruina è aver creduto all’impossibile. Cioè alla fuga dalla realtà e dalle costanti che la governano.


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