Testo in editing.
CONFLITTO D’INTERESSE E PROPOSTA “CIVATI”
1. La proposta di legge “Norme in materia di prevenzione dei conflitti d’interessi dei parlamentari e dei titolari di cariche di Governo” sembra, secondo quanto si legge sulla stampa, in dirittura d’arrivo, o almeno in stato avanzato di elaborazione.
Tale proposta è in se, più che sbagliata, insufficiente e connotata dal consueto pseudo-democratismo moraleggiante, tanto solenne nei propositi quanto poco (e talvolta male) incisivo sui comportamenti e sulle istituzioni.
Ciò, a cominciare dall’art. 1 del testo della proposta di legge (c.d. “CIVATI”) conservato nelle linee fondamentali. Al II comma si legge “Ai fini della presente legge, si trova in una situazione di conflitto d’interessi il titolare di una delle cariche di cui all’articolo 2 che abbia altresì la titolarità, in qualunque forma, di un interesse economico privato tale da poter condizionare l’esercizio delle funzioni pubbliche inerenti alla carica ricoperta” e nei successivi si ripete “interesse economico privato” per tutte le situazioni omologhe (tanto per non lasciare adito a dubbi).
Ciò stante occorre chiedersi perché non sono parificati ai titolari “d’interesse economico privato” coloro che gestiscono interessi economici pubblici o interessi (e funzioni) pubbliche, anche a carattere non economico.
2. Premesso che lo “Stato sociale” come scrive Schmitt in particolare nel “Der Hüter der versassung” si caratterizza (e si differenzia come specie all’interno del genus dello Stato borghese) per essere l’auto-organizzazione della società, di guisa da un lato da includere nei propri organi la società civile (attraverso i meccanismi elettorali ed il suffragio universale); dall’altro (e maggiormente qualificante) da intervenire nella società e soprattutto nell’economia non solo con la normazione, ma ancor più con l’organizzazione (e gestione) d’interessi e attività anche economici (enti pubblici, società partecipate e così via). Di conseguenza la stessa situazione di conflitto si ripresenta quando negli organi costituzionali (Parlamento e Governo) di cui alla proposta di legge Civati, accedono persone portatrici d’interessi pubblici (o, come quelli privati di cui al testo in esame, li abbiano curati o li potrebbero curare in futuro). Per cui più che all’interesse generale gli stessi potrebbero, nella loro veste di rappresentanti della Nazione, curare gli interessi pubblici (specifici) e soprattutto quelli dei gruppi sociali (burocrazie, sindacati, fornitori di enti ed aziende e così via) strutturati intorno alle organizzazioni da cui provengono e/o cui sanno di essere destinati. Anche se, spesso, la normativa vigente prescrive loro l’incompatibilità (e comunque il non esercizio) delle funzioni relative durante il mandato parlamentare o la presenza al Governo.
A ciò si aggiunge che la pubblica amministrazione e le società a partecipazione statale sono il “vivaio” da cui tutti i partiti, ma alcuni molto più degli altri, traggono il personale politico. Nello Stato amministrativo dei partiti, connotato sia da una così invadente presenza pubblica, tramite l’amministrazione, in ogni spazio sociale, sia dal prelievo d’ingenti risorse per l’apparato pubblico, questa possibilità è esaltata e facilitata, ed a poco vale la modesta barriera costituite dal sistema dei concorsi (spesso manipolati), che, comunque, non costituiscono la sola – e forse neppure principale – via d’accesso alla funzione pubblica (nomine “fuori ruolo”, sanatorie, ope legis lo comprovano) ed alle aziende pubbliche.
Ne deriva che tra funzionari “burocratici” e classe politica viene a configurarsi un rapporto (strutturale), che spesso, è circolare: un giovane (brillante) viene inserito in qualche amministrazione, la quale gli corrisponde di che vivere (di politica, come scrivevano Weber e Miglio); all’occorrenza, viene richiamato a ricoprire cariche non burocratiche, e, sempre al momento opportuno, rispedito a svolgere il proprio lavoro donde proveniva, o in altro posto pubblico (o nel sindacato tanto, quel che più interessa è che operi per il partito).
E’ indubbio però che l’assegnazione di posizioni nell’apparato pubblico (in senso lato) costituisce la ragione principale della mancata – o irrilevante - imposizione di limiti seri all’osmosi tra classe politica (in senso stretto) e addetti alla “funzione pubblica”.
Da ciò consegue che viene attenuato – da questa commistione – il ruolo di direzione e controllo che la classe politica dovrebbe avere nei confronti del potere burocratico – di per se ineliminabile (come, del pari, il ruolo di freno e il carattere “imparziale” che, ex art. 97 Costituzione, dovrebbe avere la burocrazia). Invece di antagonismo e distinzione, abbiamo spesso complicità, solidarietà (ineguale) e confusione. Con ciò il potere antagonista alla burocratizzazione – cioè quello “politico” democratico ed elettivo – viene depotenziato.
Né è da credere che, come sotteso a certi idola, burocrazie (ed aziende pubbliche) siano (sempre) portatrici dell’interesse generale, al contrario dei privati (i quali non lo sono per professione).
Il giovane Marx ne tratteggiava con acume l’ethos. Scriveva che la burocrazia confonde gli scopi dello Stato con quelli burocratici “Poiché la burocrazia è, secondo la sua essenza, lo «Stato come formalismo», essa lo è anche secondo il suo scopo. Il reale scopo dello Stato appare dunque alla burocrazia come uno scopo contro lo Stato. Lo spirito della burocrazia è lo «spirito formale dello Stato» … Essa è dunque costretta a spacciare il formale per il contenuto e il contenuto per il formale. Gli scopi dello Stato si mutano in scopi burocratici e gli scopi burocratici in scopi statali” .
Anzi il perseguimento da parte dei burocrati del proprio interesse e comunque di un interesse particolare fa si che “Nella burocrazia l’identità dell’interesse statale e del privato scopo particolare è posta in modo che l’interesse statale diventa un particolare scopo privato di fronte agli altri scopi privati”, mentre “il superamento della burocrazia è possibile solo a patto che l’interesse generale diventi realmente, e non come in Hegel meramente nel pensiero, nell’astrazione, interesse particolare, il che è possibile soltanto se il particolare interesse diventa realmente l’interesse generale.. La burocrazia non è pertanto idonea a far superare l’opposizione tra Stato e società civile ; ciò perché “La «polizia» e i «tribunali» e l’«amministrazione» non sono deputati della stessa società civile, che in essi e per essi amministra il suo proprio generale interesse, bensì delegati dello Stato per amministrare lo Stato contro la società civile” . Non risolve pertanto l’opposizione, ma serve a gestirla: senza quella non avrebbe scopo (né senso).
Nella realtà, e in particolare dello “Stato sociale” del XX secolo, quanto scritto dal filosofo di Treviri si può, mutatis mutandis, adattare a gran parte di quello che Miglio chiama l’ “aiutantato” cioè l’apparato subordinato al vertice politico per l’esercizio del potere.
L’assetto del potere è tale da tendere per sua natura, a costituire una linea non interrotta di comando/obbedienza dal vertice della base; di guisa che l’ “aiutantato” è una regolarità della politica e la sua dipendenza/connessione col vertice ne è un corollario: l’esercizio efficace del potere richiede disciplina (necessariamente) e onore (sarebbe meglio) del (nell’) apparato. Per cui il fatto che vi sia una larga promiscuità, nel senso di una permeabilità orizzontale e verticale tra i vari segmenti nell’organizzazione (burocrazia amministrativa, funzione giudiziaria, staff politico, aziende pubbliche) e il vertice ne conferma il carattere unitario e verticistico.
Tuttavia in uno Stato liberaldemocratico, caratterizzato dai due principi dello Stato borghese, cioè la garanzia dei diritti fondamentali e la distinzione dei poteri, non è conforme a questi, ed in particolare al secondo, che vi siano possibilità di esercizio promiscuo e “trasversalità” tra i vari comparti dello Stato e soprattutto di chi vi è addetto. Che i poteri siano distinti secondo la ripartizione classica non basta a realizzarlo: occorre che il transito tra l’uno e l’altro sia vietato o difficile, ossia limitato da accorgimenti volti ad attenuarne, se non ad eliminarne, gli aspetti più incidenti (in modo negativo) sulla libertà politica.
Montesquieu, esaminando la costituzione di Venezia, che realizzava la distinzione di funzioni, attribuite a organi diversi, ne individuava il difetto nel fatto che “questi differenti tribunali sono formati da magistrati dello stesso corpo, dal che risulta sempre un potere unico” .
Pertanto già con la prima costituzione europea (scritta) “moderna” (cioè la Costituzione francese del 1791) s’iniziarono a disporre divieti all’esercizio promiscuo di funzioni distinte , stabilendo incompatibilità. Successivamente (per lo più) perfezionate in varie costituzioni europee successive (e, soprattutto nella loro legislazione attuativa) . Peraltro l’esercizio “promiscuo” di funzioni distinte è in opposizione ad un altro corollario (e ragione) del principio di Montesquieu: ossia la distinzione tra l’organo che pone le norme e quello che le applica . Il che vale soprattutto per le incompatibilità con i poteri legiferanti (v. artt. 76-77 ss. Cost. italiana).
Fino allo Stato borghese del XIX secolo, la necessità di evitare situazioni di promiscuità era conseguenza (prevalente) del principio di distinzione; in quello interventista del XX secolo, accanto a quello c’è l’esigenza di evitare o, almeno, attenuare che gli organi costituzionali divengano il comitato d’affari degli interessi organizzati, pubblici e privati.
Non è solo un problema di etica pubblica, ma ancor più di controllo e direzione dell’apparato “servente” rispetto a quello “dirigente”. E, parimenti di equilibrio tra Stato e potere pubblico da un lato, e società e interessi privati dall’altro.
4. Scrive Miglio, scrivendo sulla definizione di aiutantato, che questo “copre la funzione che svolge questo strato, il quale è molto vicino alla classe politica e sta fra quest’ultima, intesa in senso stretto, e il seguito” . Come sopra cennato è proprio per tale ragione, che la limitazione della trasversalità, finalizzata all’indipendenza (almeno relativa, se non assoluta) di determinate funzioni (ed organi) dello Stato, è disposta e disciplinata.
Se l’ “indipendenza” degli organi costituzionali è tutelata nei confronti di cittadini portatori d’ “interesse economico privato”, mentre il senso storico della rappresentanza (come nacque, già nel Medioevo, prima delle rivoluzioni borghesi) è di inserire nello Stato gli interessi “corporativi” , onde tenerne conto nelle decisioni, che senso ha penalizzarli? Quando nel concerto d’interessi (o altro) che è il Parlamento, quelli maggiormente in opposizione con il principio costituzionale suddetto sono quelli (economici e non) pubblici?
C’è da sospettare da un lato, come già ripetuto da molti, che si tratti di una norma ad hoc, fatta per il solito cavaliere. Dall’altro, che sia una norma la quale evidenzi la pagliuzza negli occhi del vicino, per occultare la trave nel proprio. E soprattutto il costo di quella trave a chi lo sopporta.
Teodoro Klitsche de la Grange