venerdì 19 febbraio 2016

Teodoro Klitsche de la Grange, recensione a: Marcello VENEZIANI, Lettera agli italiani.

Marcello Veneziani, Lettera agli italiani, Marsilio Editori, Venezia 2015, pp. 157, € 16,00.

Come scrive l’autore nel quarto di copertina “Voglio bene all’Italia anche se è davvero malata, ma questo è un motivo per amarla di più. La vedo tutt’altro che eterna e possente, la vedo fragile e assente, molto invecchiata; la vedo stanca e spaventata, la maledico, ma è una ragione di più per darle il mio fiato”. In effetti per i tanti (ma non ancora abbastanza) che conoscono i libri, articoli e attività dell’autore, tale confessione appare superflua; ma dato che il “danno dura” né è in vista un cambiamento dell’andazzo e della situazione, è utile ricordarlo.

Nello stile inconfondibile e ironico che lo distingue, Veneziani fa il ritratto della decadenza italiana in un preambolo e sette capitoli: la situazione antropologica degli italiani divenuti italieni, la fine della politica, la morte e la resurrezione (ripetuta) dell’Italia, l’identità italiana, la visione del mondo (la Weltanschauung), la bellezza e la ricerca del Principe. Si torna, alla fine all’ultimo capitolo del capolavoro del Machiavelli, scritto, non a caso, in un periodo storico di decadenza (politica, mentre quella odierna è più estesa) e di perdita dell’indipendenza.

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La decadenza, da tanti anni iniziata sotto i profili politico e culturale, da oltre vent’anni è evidente anche in quello economico. Al punto che gli italiani sono diventati un popolo di espatrioti; scrive l’autore che “Gli italiani erano una popolazione subeuropea che si estinse per eccesso di furbizia e difetto di natalità. Mangiarono per anni pane e volpe e restarono intossicati dai loro stessi veleni, il malaffare per i regnanti e il malanimo per i sudditi. La malafede d’ambedue non bastò come collante del paese”; se proviamo a definirci, siamo un popolo di “scettici spompati, europeisti pentiti, patrioti espatriati, sfiduciati globali, ego-individualisti mononucleari, finiti nel pantano dopo il fallimento triplice di politici, tecnici e antipolitici. Un paese paralizzato al vertice dei veti incrociati e alla base del disprezzo reciproco e universale. Il motto del paese, vessillo dei grillini è «mandare tutti a casa», da intendere come auspicio per i potenti, come minaccia sul lavoro nelle imprese sull’orlo di chiudere e infine come rifugio nella vita privata”. Tuttavia l’Italia ha “uno Stato fragile ma un’italianità tenace”. Come tutte le patrie può deperire e morire “la patria in sé, che in quanto vivente è esposta alla morte, in quanto terrena può finire sotto terra. Amatela per quello, l’Italia, perché può finire… Valutate anzi l’ipotesi non peregrina, che mentre voi esitate se lasciare o meno l’Italia, l’Italia nel frattempo lascia voi, e passi a miglior vita. Alla fine prossima dell’Italia io non credo, anche perché troppe volte è stata annunciata…Più probabile che muoia e poi rinasca, come già successe”.

Gli italiani, dopo decenni di condizionamenti (e indottrinamenti) sono stati sostituiti dagli italieni. È gustoso come Veneziani li sintetizza, dopo averne descritta a lungo la mutazione antropologica “La parabola dell’italieno. In principio fu cogito ergo sum, la ragione regina. Poi, nel secolo delle rivoluzioni, la prassi vinse sul pensiero e il motto fu agito ergo sum. Ma vedendo sfilare i sessantottini, Eugène Ionesco si affacciò alla finestra e profetizzò il loro imborghesimento: «diventerete tutti notai». E così fu rogito ergo sum. Dopo il ’68, fallita la rivoluzione politica e sociale e rimasta quella sessuale, passò a coito ergo sum. Infine venne l’ultima rivoluzione, affidata a uno schermo, e così fu digito ergo sum. E l’uomo, secondo un’antica profezia, scambiò il dito per la luna e al dito immolò la testa e il corpo”.

Il tutto è frutto di una perdita dell’identità, che è soprattutto retaggio della tradizione. L’identità – scrive Veneziani – “è radice, la tradizione è la sua linfa”, e prosegue “Per affrontare il diverso, lo straniero e il nemico, tendiamo a cancellare la nostra identità, ritenendola un ostacolo e una chiusura…Invece l’identità ci vuole per affrontare chi è differente da noi, chi è straniero, chi è ostile, chi ci dichiara guerra e compie azioni terroristiche. Affrontare vuol dire essere aperti sia al confronto che al conflitto. Gli incontri sono possibili tra identità diverse, non tra «nientità»”. Alla fine tutto si riduce a un insieme d’individui senza nulla in comune che costituisca un’unità collettiva.

Due sono i punti, tra i diversi trattati dall’autore che maggiormente interessano. Il primo è il rapporto tra politica e cultura, o meglio quello (decisivo) della “visione del mondo” (Weltanschauung) comunitaria. Senza identità collettiva la visione del mondo si riduce ad un selfie. Se la cultura si riduce a tecnica, a digitazione, a basic english, e così via, la politica perde la capacità progettuale e così, insieme, d’essere protezione (e lotta) per l’interesse generale e i valori condivisi. Non c’è politica (l’ “antipolitica”) perché è deperita la cultura e la rappresentazione del mondo condivisa.

L’altro, di tutta evidenza - tranne che ai dulcamara del conformismo culturale e politico - è la decadenza dell’Italia.

Da circa un ventennio questo è divenuto palese, essendo il paese a crescita zero, sia economica che demografica; tuttavia, pur essendo l’economia sempre in cima ai pensieri del mondo contemporaneo, non se ne traggono le conseguenze. Due in particolare.

La prima che la storia non ha andamento unilineare che va dal più arretrato al più progredito (ossia in progresso). Ma ne ha uno ciclico, con periodi di crescita seguiti da quelli di deperimento. Consapevolezza che risale a Platone (almeno) per arrivare a Pareto ed Hauriou (e dopo); e che la cultura conformista, ideologicamente condizionata e politicamente interessata, malgrado la realtà e l’autorità di chi ha sostenuto il contrario, trascura e/od occulta.

La seconda è che, come sostenevano i teorici dei “cicli” delle classi dirigenti, delle élite e delle civiltà, la decadenza non preannuncia l’apocalisse o il ragnarok, la fine del mondo.

Semplicemente significa la fine della classe dirigente e delle istituzioni decadenti, del regime, della “formula politica”, e il nascere di dirigenze, regime, formula politica, rappresentazione del mondo nuovi. La decadenza non è da associare quindi (solo) alla fine ma anche al principio. Va da se che, se la fine è mal vista dalle classi dirigenti in decadenza, le quali svolgono un ruolo di freno – non al decadere (impossibile), ma al nascere del nuovo – di converso per lo più è un vantaggio per la comunità, che si rinnova e inizia un nuovo ciclo in crescita. In tale contesto è spiegabile il “patriottismo costituzionale” che va per la maggiore nella nostra cultura politica (di regime). Veneziani dedica alcune pagine a quella astuta (Pareto riteneva l’astuzia il mezzo di governo più praticato delle classi decadenti) trovata di far commentare a Benigni la Costituzione italiana, subito battezzata la “più bella del mondo”. Scrive l’autore, svelando tutta la comicità occulta (e occultata) della vicenda “Quante costituzioni avete letto per fare un’affermazione del genere? Avete mai visto nuda la Costituzione svedese per giudicare la nostra più avvenente? E di quella brasiliana ne conoscete le fattezze?... Se si eccita così, trova erotiche pure le norme transitorie? Se bella è la Costituzione, sublime in senso kantiano è il Codice penale? In tema di patriottismo costituzionale: un tempo si moriva per la patria, oggi pensate che i patrioti possano morire per l’articolo 8 comma 2 della Carta?...Perché adottare un criterio estetico, la bellezza, per giudicare una costituzione? Per il concorso di miss Italia adotteremo un criterio giuridico, scegliendo la ragazza più a norma di legge?....E come mai la più bella Costituzione del mondo ha partorito la prole più brutta del mondo in politica, fisco e giustizia? E se fosse un po’ meno bella e un po’ più intelligente, cioè in grado di cogliere la vita vera, il mondo e gli italiani?”. Ed ha ragione Veneziani a sostenere che “Per fronteggiare la decadenza occorre la lungimiranza dei princìpi e l’incisività dei prìncipi… Il dramma non è la decadenza impensabile, ma la convinzione che sia impensabile uscirne. È quella la spirale da spezzare: la bellezza è reale e non solo ideale, la salvezza è possibile e non solo pensabile”.

Ed a proposito di prìncipi e princìpi, che non devono essere come sono “tiranni di fuori e vigliacchi di dentro”, per giungere ad una rinascita “non si deve andare a ritroso nei vecchi incanti ma si deve partire dal presente disincanto. Cioè dal vuoto, dal deserto che si è prodotto in questi anni, e che non è stato indotto da chissà quale demiurgo malvagio, ma è cresciuto con la nostra libertà e i nostri desideri. All’intellettuale spetta il compito di ripensare l’anima, l’origine e il destino nel tempo del nichilismo, della tecnica e dei desideri senza fondo… Suo compito rispetto alla sua nazione non è armare rimpianti, rancori o utopie; ma suscitare le anime, sintesi di mente e passione, e ritrovare il «cuore intelligente» degli italiani”. E continua “È possibile in questo frangente sospendere per un momento le cifre e gli indici, e tirare fuori un’idea politica? La riassumo in una parola chiave: sovranità… Il male principale della nostra epoca è la riduzione dei processi storici e umani a puro automatismo: ovvero non si può fare che in questo modo, la tecnica o i bilanci hanno delle esigenze rigide, matematiche, da cui non si può prescindere e nemmeno derogare. Sovrano è colui che libera l’uomo dall’automa e lo restituisce alla responsabilità di decidere. La sovranità in questa fase si ribella al fatalismo della tecnica e della finanza, non sottostà al suo diktat”.

Già: dopo cinque secoli siamo tornati all’ultimo capitolo del Principe, laddove Machiavelli coniuga ragione e passione.  Veneziani ricorda che “So che la parola Stato suscita in molti di voi un misto di rigetto e di orticaria. E non so quanto lo Stato nazionale e sovrano che abbiamo conosciuto finora sia destinato a durare, forse non molto. Ma so che usciremo da questa crisi bestiale che ci sta ammazzando in tranci solo con un atto sovrano dello Stato… Lo Stato può salvarci. So quanto spiazzi chi proviene da esperienze liberiste, leghiste, antistataliste e chi crede che tutto si risolva in privato, a livello individuale o di mercato. Non sto sognando lo Stato imprenditore o lo statalismo debordante del passato. Dico lo Stato autorevole decisore, che poggia sul principio di sovranità nazionale e popolare e lo fa valere. Bisogna ripartire da lì. Ultima chiamata per lo Stato”.

E conclude scrivendo “Il principe o princeps è l’inizio, la volontà di dare inizio. La disperata speranza: quando tutto finisce non resta che ricominciare. Rovesciamo la clessidra”.

Teodoro Klitsche de la Grange

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