No / Onu / BDS / Prec. ↔ Succ.
Continua il flusso di notizie sulla partenza della FF2. Vi è una fortissima pressione del governo di Israele per ostacolare in tutti i modi la partenza delle navi. La campagna di diffamazione produce un effetto ulteriore di pubblicità alla Flotilla stessa. La sostanza etica si rivela nella scelta di campo che ognuno si trova costretto a fare via via che i termini della questione diventano chiari. In pratica, è come se una città con una popolazione di un milione e mezzo di abitanti venisse ridotta in una condizione carceraria: nessuno può uscire e nessuno può entrare senza il permesso dei carcerieri, ossia il governo di Israele, che si definisce “sionista” ed “ebraico” e pretende perfino di essere “democratico” e di avere con il suo esercito il più alto standard morale del mondo, ma impedisce al mondo intero di potersi recare in Gaza, per incontrare un milione e mezzo di persone. Si va ormai affermando l’idea che non si tratta più di emergenza umanitaria o sanitaria, ma dell’inaccettabilità della pretesa israeliana al blocco terrestre e marittimo, alla sua pretesa di tenere in prigione un milione e mezzo di persone, alle quale ha già tolto ogni cosa. Non va dimenticato che i palestinesi sono la popolazione autoctona della Palestina. Sarebbe cose se gli immigrati che ogni giorni sbarcano a Lampedusa e da qui risalgono la Penisola, con l’andare del tempo, diventassero i padroni d’Italia, ne espellessero gli abitanti originari, riducessero i diritti di una popolazione ridotta in minoranza e per giunta tenessero sotto assedio e blocco intere città con popolazione superiore al milione di abitanti. È quel che è successo e succede in Palestina. Ogni persona che malgrado le distorsioni del sistema mediatico riesce ad avere una sufficiente idea della situazione, si trova costretto a dare un giudizio morale e ad assumere una posizione politica. Che parta o non parta, La FF2 significa tutto questo. La Mavi Marmara è stata la nave ammiraglia della FF1. L’articolo che segue ci offre informazioni interessanti, provenienti direttamente da Istanbul.
La Mavi Marmara non salperà, almeno per il momento. Non farà parte della Freedom Flotilla II con rotta su Gaza, rimarrà sul Corno d’oro in attesa di ulteriori riparazioni dopo l’abbordaggio israeliano dello scorso anno: “motivi tecnici, partenza solo rimandata” – queste le spiegazioni offerte, nel corso di una conferenza stampa venerdì scorso a Istanbul, dagli organizzatori anche della spedizione del 2010 finita in un bagno di sangue.
Ma le parole di Bülent Yıldırım, presidente dell’organizzazione umanitaria Ihh, non avevano convinto nessuno: troppo repentino il rovesciamento di posizione dopo la grande manifestazione – sempre a Istanbul – nella notte tra il 30 e 31 maggio, con l’annuncio di una partenza imminente e della richiesta di partecipazione da parte di cinquecentomila volontari; troppo brusco il passaggio da un simbolo tragicamente riconoscibile in tutto il mondo – la Mavi Marmara – ai pochi attivisti turchi che prenderanno posto sulle altre navi o su di un’altra piccola imbarcazione che verrà forse acquistata in extremis.
Soprattutto, il dietrofront è arrivato pochi giorni dopo l’invito rivolto dal ministro degli esteri turco Davutoğlu – che aveva più volte negato una qualsivoglia influenza del governo di Ankara sulla ong d’ispirazione islamica – a soprassedere: ad attendere lo sviluppo degli eventi, dopo l’apertura del valico di Rafah da parte dell’Egitto e il conseguente allentamento del blocco su Gaza. Meglio evitare, in sostanza, una nuova provocazione: in un contesto internazionale reso ancor più difficile – per la Turchia – dalla crisi siriana. La chiave di lettura della decisione dell’Ihh su esplicita – quantunque categoricamente smentita – imbeccata governativa è sembrata pertanto obbligata: un segnale forte a Israele nell’ambito di negoziati segreti mai del tutto interrotti, infruttuosi solo a causa dell’intransigenza degli estremisti che siedono nel governo di Tel Aviv – in primis, del ministro degli Esteri Lieberman (c’erano stati prima un incontro tra ministri a Bruxelles per trovare una formula di compromesso sulle scuse da rivolgere alla Turchia, poi l’invio di aerei antincendio turchi per fronteggiare l’emergenza del Carmelo lo scorso gennaio con incoraggiante risposta d’apertura di Netanyahu).
La conferma è arrivata ieri dal quotidiano israeliano Haaretz: fonti diplomatiche hanno rivelato il persistere di questi negoziati, fortemente sponsorizzati dagli Usa e dal segretario Clinton, condotti tra un emissario di Netanyahu e dal sottosegretario turco agli Esteri, Feridun Sinirlioğlu (uno dei più convinti sostenitori del rapprochement); negoziati facilitati anche dai rappresentanti – Yosef Ciechanover per Israele, Özden Sanberk per la Turchia – nel comitato d’inchiesta dell’Onu sull’abbordaggio della Mavi Marmara: che hanno lavorato anche come trait d’union tra i due governi e per trovare una soluzione mutualmente accettabile – in termini di diritto e di prestigio nazionale – all’accesa controversia. In più, lo stesso primo ministro israeliano ha speso parole costruttive nei confronti di Erdoğan dopo la sua rielezione: e ha inviato una lettera, riportata da alcuni quotidiani turchi, in cui si manifesta la volontà israeliana di risolvere il contenzioso “nella speranza di poter ristabilire la nostra cooperazione e rinnovare lo spirito di amicizia che ha caratterizzato le relazioni tra i nostri popoli per molte generazioni”. I primi passi sono stati fatti anche stavolta, anche in questa occasione gli equilibri interni israeliani saranno decisivi: Ankara continua a essere disponibile per riallacciare rapporti almeno normali e cordiali, a chiedere scuse formali e un giusto risarcimento per le vittime della Mavi Marmara.
• Un primo articolo, «Dalla Turchia alla Siria, ecco la Schengen del Medio Oriente», ci offre l’immagine di una politica mediorientale della moderna Turchia, alla quale l’Europa ha negato ripetutamente l’integrazione all’interno dell’Unione Europea, dal quale forse conviene più uscire che non entrare. È da chiedersi come possa entrarci in tutto questo l’Israele che conosciamo.
• In quest’altro articolo, «Erdoğan e il “fratello” Assad», si entra con maggiori dettagli sulle relazioni attuale con la Siria alla luce dei più recenti sviluppi.
La Mavi Marmara non salperà, almeno per il momento. Non farà parte della Freedom Flotilla II con rotta su Gaza, rimarrà sul Corno d’oro in attesa di ulteriori riparazioni dopo l’abbordaggio israeliano dello scorso anno: “motivi tecnici, partenza solo rimandata” – queste le spiegazioni offerte, nel corso di una conferenza stampa venerdì scorso a Istanbul, dagli organizzatori anche della spedizione del 2010 finita in un bagno di sangue.
Ma le parole di Bülent Yıldırım, presidente dell’organizzazione umanitaria Ihh, non avevano convinto nessuno: troppo repentino il rovesciamento di posizione dopo la grande manifestazione – sempre a Istanbul – nella notte tra il 30 e 31 maggio, con l’annuncio di una partenza imminente e della richiesta di partecipazione da parte di cinquecentomila volontari; troppo brusco il passaggio da un simbolo tragicamente riconoscibile in tutto il mondo – la Mavi Marmara – ai pochi attivisti turchi che prenderanno posto sulle altre navi o su di un’altra piccola imbarcazione che verrà forse acquistata in extremis.
Soprattutto, il dietrofront è arrivato pochi giorni dopo l’invito rivolto dal ministro degli esteri turco Davutoğlu – che aveva più volte negato una qualsivoglia influenza del governo di Ankara sulla ong d’ispirazione islamica – a soprassedere: ad attendere lo sviluppo degli eventi, dopo l’apertura del valico di Rafah da parte dell’Egitto e il conseguente allentamento del blocco su Gaza. Meglio evitare, in sostanza, una nuova provocazione: in un contesto internazionale reso ancor più difficile – per la Turchia – dalla crisi siriana. La chiave di lettura della decisione dell’Ihh su esplicita – quantunque categoricamente smentita – imbeccata governativa è sembrata pertanto obbligata: un segnale forte a Israele nell’ambito di negoziati segreti mai del tutto interrotti, infruttuosi solo a causa dell’intransigenza degli estremisti che siedono nel governo di Tel Aviv – in primis, del ministro degli Esteri Lieberman (c’erano stati prima un incontro tra ministri a Bruxelles per trovare una formula di compromesso sulle scuse da rivolgere alla Turchia, poi l’invio di aerei antincendio turchi per fronteggiare l’emergenza del Carmelo lo scorso gennaio con incoraggiante risposta d’apertura di Netanyahu).
La conferma è arrivata ieri dal quotidiano israeliano Haaretz: fonti diplomatiche hanno rivelato il persistere di questi negoziati, fortemente sponsorizzati dagli Usa e dal segretario Clinton, condotti tra un emissario di Netanyahu e dal sottosegretario turco agli Esteri, Feridun Sinirlioğlu (uno dei più convinti sostenitori del rapprochement); negoziati facilitati anche dai rappresentanti – Yosef Ciechanover per Israele, Özden Sanberk per la Turchia – nel comitato d’inchiesta dell’Onu sull’abbordaggio della Mavi Marmara: che hanno lavorato anche come trait d’union tra i due governi e per trovare una soluzione mutualmente accettabile – in termini di diritto e di prestigio nazionale – all’accesa controversia. In più, lo stesso primo ministro israeliano ha speso parole costruttive nei confronti di Erdoğan dopo la sua rielezione: e ha inviato una lettera, riportata da alcuni quotidiani turchi, in cui si manifesta la volontà israeliana di risolvere il contenzioso “nella speranza di poter ristabilire la nostra cooperazione e rinnovare lo spirito di amicizia che ha caratterizzato le relazioni tra i nostri popoli per molte generazioni”. I primi passi sono stati fatti anche stavolta, anche in questa occasione gli equilibri interni israeliani saranno decisivi: Ankara continua a essere disponibile per riallacciare rapporti almeno normali e cordiali, a chiedere scuse formali e un giusto risarcimento per le vittime della Mavi Marmara.
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Sempre dal blog Istanbul, Avrupa, ci giungono notizie sui rapporti fra Turchia e Siria alla luce dei più recenti sviluppi:• Un primo articolo, «Dalla Turchia alla Siria, ecco la Schengen del Medio Oriente», ci offre l’immagine di una politica mediorientale della moderna Turchia, alla quale l’Europa ha negato ripetutamente l’integrazione all’interno dell’Unione Europea, dal quale forse conviene più uscire che non entrare. È da chiedersi come possa entrarci in tutto questo l’Israele che conosciamo.
• In quest’altro articolo, «Erdoğan e il “fratello” Assad», si entra con maggiori dettagli sulle relazioni attuale con la Siria alla luce dei più recenti sviluppi.
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