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1. Desuetudine di una garanzia essenziale. – L’opinione pubblica, compresa quella influenzata dai talebani della Costituzione (che la ritengono, come il mondo per Pangloss, la migliore delle possibili), non dedica punto attenzione all’art. 28 della Carta: il quale prescrive la responsabilità diretta dei funzionari pubblici nei confronti dei danneggiati da “atti compiuti in violazione dei diritti”, responsabilità che “si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Questo ad onta della convinzione, largamente prevalente, che l’Italia abbia un’amministrazione (e una burocrazia) da terzo mondo, che coniuga a una scarsa efficienza un elevato tasso di favoritismi e corruzione. A misurare sulla stampa, e sui mass-media in genere, la quantità di notizie, interventi, commenti generali generati da altri articoli, assai meno istituzionalmente sensibili, come l’art. 32 (diritto alla salute e trattamento sanitario) l’art. 15 (inviolabilità della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione), l’art. 21 (libertà di stampa) e così via, si resta impressionati dal divario. Anche perché è proprio l’art. 28 a costituire una delle garanzie (essenziali) perché non siano violati dai poteri pubblici i diritti degli “amministrati” e quindi in primis quelli garantiti dalla Costituzione, come, tra gli altri, i cennati.
Onde pare opportuno fare qualche considerazione sul tema.
2. Il pronunciamento della Consulta. – Com’è noto da decenni la Corte Costituzionale ha chiarito in molte sentenze il contenuto dell’art. 28. É stato giudicato che: “L’art. 28 Cost., enuncia il principio della responsabilità personale dei dipendenti pubblici verso i danneggiati, ma non esclude la possibilità che vengano introdotte regole particolari e diverse rispetto ai principi comuni in materia, sempre che la disciplina adottata non sia tale da comportare un’esclusione più o meno manifesta di ogni responsabilità” (C. Cost., 16 marzo 1976, n.. 49, Foro it., 1976, I, 897; Giur. Cost., 1976, i, 373; Giur. It., 1976, I, 1, 1054) e “L’art. 28 Cost., affermando che i pubblici dipendenti sono responsabili «degli atti compiuti in violazione dei diritti secondo le leggi penali, civili ed amministrative», non vieta alle leggi, cui rinvia, di disciplinare variamente questa triplice responsabilità, in funzione delle diverse situazioni oggettive e degli interessi che vi si riconnettono” (C. Cost., 14 aprile 1976, n. 82) e anche “La garanzia prestata dalla norma dell’art. 28 Cost., non si esaurisce nell’affermazione della responsabilità del funzionario o dipendente pubblico, giacché la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici, contro i quali pertanto potrà rivolgere la propria azione il soggetto leso nei propri diritti, mentre poi lo Stato o altro ente pubblico potrà rivalersi a sua volta sulle retribuzioni del dipendente responsabile” (C. Cost., 8 giugno 1963, n. 88, Giur. Cost., 1963, 725).
Già nell’Assemblea costituente l’on. Codacci Pisanelli sottolineava il carattere innovativo dell’art. 28:
Lo stesso Codacci Pisanelli faceva un riepilogo storico delle responsabilità delle pubbliche amministrazioni verso il cittadino (2), in cui riassumendo i vari modi in cui era stata disciplinata, ricordava quelli che ne sono rimasti i più frequenti, concorrenti e/o alternativi: l’azione diretta del danneggiato verso il funzionario e l’ente quale coobbligato; l’azione verso l’ente, con diritto/possibilità di rivalsa (ed altro, p.es. il profilo disciplinare) di questi verso il funzionario (quindi indiretta).
A parte considerazioni di carattere spesso prevalentemente tecnico, l’importanza della disposizione - uno dei capisaldi dello Stato di diritto – è data:
Prendendo le mosse da Antonio Salandra, questi scriveva, tratteggiando la situazione costituzionale dell’inizio del secolo passato: “quelle funzioni degli Stati moderni, che, proseguendo particolarmente il fine di benessere e di coltura, hanno più rigorosamente il nome di amministrative, vanno d’anno in anno crescendo di numero, di intensità e di diffusione... basterebbe in risposta richiamare alla mente i due loro inoppugnabili esponenti numerici: le cifre cioè che rappresentano la spesa annua degli Stati e delle minori associazioni forzose (Comuni, Provincie, Consorzii obbligatorii d’ogni maniera), e le cifre che attestano quanti individui sono addetti stabilmente all’esercizio di pubbliche funzioni. Esse dànno un’adeguata misura del bisogno sempre crescente di mezzi materiali e personali, che l’amministrazione risente per conseguimento dei suoi fini. La continua progressione dei bilanci e l’estensione di quello che fu detto funzionarismo non possono in alcun modo essere disconosciute”; e mette in guardia: “l’autorità, se anche preordinata a difesa e integrazione della libertà, non si esercita senza diminuzione della libertà stessa. E quanto più essa si divulga, quanto maggiore cioè è il numero e di conseguenza inferiore la qualità degli individui che la esercitano, tanto più grave e frequente è il pericolo ch’essa ecceda, e che non sia raffrenata la naturale tendenza di coloro che ne dispongono ad abusarne e a disviarla a fini personali” (3).
D’altra parte che nell’ethos dello Stato e del pensiero borghese vi sia una marcata avversione al potere burocratico è cosa nota. Già lo si avverte nella rivoluzione francese. Saint-Just sosteneva “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; chiunque abbia una carica non fa niente personalmente e prende dei collaboratori subordinati; il primo collaboratore ha a sua volta aiutanti, e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano... Il ministero è un mondo di carta” e in un altro rapporto alla Convenzione “C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari... Tutti vogliono governare, nessuno vuol essere cittadino. Dov’è dunque la comunità politica? Essa è quasi usurpata dai funzionari”.
Tocqueville scrive, proprio in relazione alla responsabilità dei funzionari e alla sottrazione dei medesimi alla giustizia ordinaria, che questa era la costante prassi dell’ancien régime, divenuta legge dopo la rivoluzione (4).
Idee – antiburocratiche - che ritornano nelle pagine del giovane Marx nella “Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico”.
Anche Gramsci avverte la contraddizione tra “ideologia liberale” e assetto dello Stato borghese proprio nella burocrazia (5).
A Giustino Fortunato dobbiamo alcuni dei giudizi più penetranti sul”funzionarismo”. In primo luogo sul “nesso indissolubile” tra proletariato intellettuale e funzionarismo (6) che è un male nazionale come quello della pletora degli impiegati pubblici (7).
Ma ancor più nella contrapposizione tra burocrati e sovranità popolare, evidente nella prassi e nei “pronunciamenti” delle loro organizzazioni sindacali (8). Il socialismo vi aveva attecchito facilmente perché “smarrito assai presto il contenuto etico, non indugiò a coltivare l’egoismo di categoria e a favorire i particolari sfruttamenti della piccola borghesia dominante, sempre più desiderosa di accrescere i pubblici uffici. sostituendo vaste imprese pubbliche, autoritarie e gerarchiche, alla libera concorrenza dei cittadini” (9) questa burocrazia parassitaria “non concepì i servizi amministrativi se non immaginandoli pari a quelli di una macchina, che dovesse agire per solo uso e consumo de’ suoi congegni, nel particolare esclusivo interesse di coloro che vi fossero addetti, - la macchina per la macchina” (10) .
Data la divisione del lavoro e l’organizzazione dello Stato, queste fratture fanno presagire un assetto policratico dove “all’antico feudalismo «a base locale» terrebbe dietro un feudalismo «a base funzionale», - tanto più prossimo e sicuro quanto più presto e meglio praticato dagli addetti a’ pubblici uffizi e dagli agenti delle imprese di Stato. che «la fatale evoluzione economica», avverte il Turati, “costringerà ad essere, piaccia o non, i primi cittadini della città futura” (11).
Tale tendenza si sta già realizzando, sosteneva Fortunato, perchè la burocrazia è riuscita a “ sottrarre alla privata concorrenza il maggior numero di intraprese, assumendone direttamente l’esercizio: ossia, la tendenza al dominio universale della burocrazia, - il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica” (12). E sotto diversi e più articolati profili sono ripetute e approfondite in Max Weber “dove domina il moderno funzionario specializzato con istruzione specifica, il suo potere è senz’altro indistruttibile, poiché l’intera organizzazione del più elementare approvvigionamento della vita riposa sulla sua prestazione”; ma il pericolo è evidente” (13); l’organizzazione burocratica è spirito rappreso (14) “In unione con la macchina inanimata, essa è all’opera per preparare la struttura di quella servitù futura alla quale un giorno forse gli uomini saranno costretti ad adattarsi impotenti, come i fellah dell’antico Egitto, qualora un’amministrazione e un approvvigionamento razionale mediante funzionari – pur ottimi dal punto di vista puramente tecnico – costituiscano per essi il valore ultimo ed esclusivo che deve decidere sul modo di dirigere i loro affari” (15).
E si poneva il problema di come contenere questo potere (16) tenuto conto che i diritti di libertà erano connaturati, che v’era un problema di garanzie, cioè d’individuare delle forze (in primo luogo) in grado di limitarlo, e che comunque la burocrazia non poteva avere il ruolo di direzione politica (la distinzione tra “capo” e “funzionario” alla quale Weber ritornava spesso).
Una soluzione era individuata (tra gli altri) da Silvio Spaventa. Questi si chiedeva “É evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere”. Ma data la tendenza ineluttabile all’aumento delle competenze e dei poteri dell’amministrazione, “tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressocché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo”. E prosegue “Dov’è dunque questo rimedio? Per saperlo, basta considerare le cause, da cui il male proviene. E queste cause, a mio parere, sono tre. La prima è il difetto o incertezza di norme giuridiche che limitino rigorosamente nell’amministrazione le facoltà e i poteri che essa deve esercitare. La seconda è il difetto e incertezza del giudice, che decida sulla controversia che nasce quando il cittadino si risente e si oppone all’abuso ed arbitrio, che contro di lui si commette o si tenta di commettere. La terza è il difetto di responsabilità immancabile e pronta degli ufficiali pubblici” e trattando di quest’ultima sosteneva “Ora vi ricordate, come dissi da principio, che questo rimedio doveva cercarsi non solo nelle leggi e nei giudici – leggi specificate e concrete, giudici imparziali e indipendenti, - ma nella rigorosa responsabilità degli amministratori”.
Ma dato l’aborto ripetuto di ogni tentativo di riforma in tal senso riteneva “la proposta di abolire la guarentigia amministrativa, ossia l’autorizzazione preventiva a procedere contro prefetti, sottoprefetti e sindaci per imputazioni di reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, era una riforma, secondo me, molto opportuna, e che non avrebbe dovuto essere più ritardata” (17).
4. Nell’immaginario collettivo dell’età moderna per aversi uno Stato “liberale” e in particolare una tutela efficace dei diritti fondamentali occorre deliberare una Costituzione in cui quelli siano garantiti.
Ma la storia ha dimostrato che non è così: almeno in un caso (la Gran Bretagna) non esiste una costituzione “deliberata” (in quello specifico senso), ma ciò non toglie che i diritti degli inglesi siano tutelati in modo sicuramente non meno efficace che nel resto del mondo libero. Mentre, all’inverso, le costituzioni dei defunti Stati comunisti erano piene di diritti “garantiti” (compresa quella stalinista, cioè dell’URSS nel 1936), assai più (o non meno) di quelle liberali. Solo che erano mere esternazioni verbali, perché a tutti quegli Stati mancavano le garanzie “ordinamentali”, derivanti cioè dall’articolazione della società e dall’organizzazione del potere, e soprattutto, il secondo dei principi dello Stato borghese: la distinzione dei poteri. In Stati in cui la società era organizzata dal partito unico, retto secondo il principio del centralismo democratico e che esercitava una dittatura commissaria, mancavano tutte le condizioni concrete perché quei diritti calassero dall’astratto al concreto, dalla carta alla realtà.
Tali semplici constatazioni non fanno parte del “senso comune” ricavabile da gran parte dei mezzi di comunicazione, e dalla rete in particolare. Prevale l’opinione che un diritto è tale quando è solennemente enunciato in un documento costituzionale; e che una costituzione è buona quanti più enunciati di tale genere mette in fila. Con tale criterio la Costituzione del 1977 dell’URSS, ad esempio, sarebbe la migliore di quelle possibili, perché l’art. 39 proclamava “I cittadini dell’URSS posseggono tutta la gamma dei diritti e delle libertà economico-sociali, politiche e personali, proclamate e garantite dalla Costituzione dell’URSS e dalle leggi sovietiche. Il regime socialista assicura l’ampliamento dei diritti e delle libertà e il miglioramento ininterrotto delle condizioni di vita dei cittadini di pari passo con l’attuazione dei programmi di sviluppo socio-economico e culturale.
L’uso dei diritti e delle libertà da parte dei cittadini non deve arrecare danno agli interessi della società e dello Stato, ai diritti degli altri cittadini”. Solo che, procedendo nella lettura, gli articoli 151-168, delineavano un’organizzazione giudiziaria di nomina politica o elettiva (art. 152, comma I – IV; art. 153) per tempi limitati (cinque – due anni) e la responsabilità dei giudici nei confronti dell’organo che li aveva scelti (art. 152, V comma) (18) ; anche il Procuratore Generale, nominato, è responsabile come i giudici. Ovviamente di giustizia costituzionale non v’è traccia; quella amministrativa, teoricamente possibile, non era disciplinata dalla costituzione. Quel che più conta, dato il ruolo politico (assolutamente) preminente del PCUS (art. 6) e il diritto a presentare candidature, limitato alle organizzazione “di regime”, le possibilità (di autonomia sociale e) di esercizio di una giustizia indipendente erano del tutto teoriche (e questo a tacere dell’impianto generale – che è quel che più conta). In queste condizioni si ha un bell’elencare diritti in costituzioni e leggi; manca l’elemento decisivo: che l’enunciato si traduca in applicato. Mentre è il momento applicativo, del rendere concretamente operante (esistente) quel che è astrattamente voluto, che connota l’effettività del diritto e l’ordine sociale e politico.
5. Come ben noto nella dottrina giuridica. Tra i molti che se ne sono occupati ricordiamo Georg Jellinek. Scriveva il giurista tedesco: “Tutto il diritto è diritto in vigore. Ma la validità di un diritto dev’essere in qualche maniera garantita: ossia, debbono esistere delle forze, la cui esistenza permetta che i giuridicamente consociati attendano come verisimile la trasformazione delle norme giuridiche da semplici pretese astratte sulle volontà umane in azioni concrete” e proseguiva “per il diritto pubblico, come per ogni altro diritto, esistono tre specie di garanzie: garanzie sociali, politiche, giuridiche. Che il diritto non esista solamente colà dove si hanno delle garanzie giuridicamente apprezzabili, già altrove fu esposto” (19). Quanto alle garanzie sociali: “l’insieme delle forze della civiltà e gli interessi e le organizzazioni, che sono da queste prodotte, agiscono ininterrottamente sulla creazione e sullo sviluppo del diritto ed assicurano la garanzia più salda della validità di esso: garanzia, che da altre forze è semplicemente perfezionata. Quelle forze costituiscono la più valida limitazione di fatto ad ogni arbitrio che possa vivere in concezioni astrattamente giuridiche e determinano con una potenza, che supera l’efficacia di una volontà cosciente, la vita reale delle istituzioni statali e la storia degli Stati”.
Mentre “le garanzie politiche si hanno nei reali rapporti di forza tra i fattori statali organizzati: e cioè, degli Stati stessi, nei rapporti di diritto internazionale; degli organi dello Stato, nei rapporti di diritto statale. La garanzia politica più importante dell’ordinamento statale sta nel modo della ripartizione di potere, che si manifesta nella organizzazione dello Stato”: quindi se il potere è ripartito e “diffuso” le garanzie politiche hanno la possibilità di incidere; tuttavia “le garanzie politiche hanno in comune con quelle sociali questa particolarità; che non può farsi assegnamento su di esse con piena sicurezza”. A differenza delle garanzie giuridiche che “si distinguono da quelle sociali e da quelle politiche per il fatto che sulla loro azione si può fare assegnamento sicuro. Può essere dubbio se esse siano riconosciute nel caso singolo; dubbio, se siano sufficienti nella loro conformazione concreta; dubbio, se vengano adoperate in tutte le circostanze: tali debolezze umane sono inerenti ad ogni azione umana. Ma corrisponde alla loro natura il servire alla garanzia del diritto”. E prosegue “Le istituzioni giuridiche, mediante le quali quelle garanzie vengono a realizzarsi, si distinguono in quattro classi: controlli, responsabilità individuale, giurisdizione, mezzi giuridici”; e questi istituti di garanzia sono i controlli, le responsabilità (verso lo Stato), la giurisdizione, e i mezzi giuridici a disposizione dei “soggetti al potere”. Ovvero “Anche di fronte ai sudditi il funzionario è responsabile civilmente, e può da loro essere perseguito penalmente; inoltre, rispetto ad essi è responsabile anche lo Stato, sia in via sussidiaria, sia in luogo de’ funzionari, sebbene a questo riguardo, però, esistano spesso delle disposizioni restrittive”.
Per cui l’intero “apparato” delle garanzie è articolato e distribuito in assetti, collegamenti, controlli, rapporti di coordinazione e subordinazione tra poteri, organi, uffici. Non sfugge cioè alla regola di Santi Romano per cui l’ordinamento giuridico “è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedina in una scacchiera, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”. E per aversi garanzie concretamente operanti è necessario non tanto avere delle norme apposite, ma che l’ordinamento complessivo sia conformato di guisa che quelle siano effettivamente applicate.
Cioè tutto il contrario di quanto avviene con la promulgazione di norme-manifesto (costituzionali e/o legislative ordinarie) volte ad acquisire un consenso fatto di speranze, e, molto spesso, di illusioni; che restano disapplicate o episodicamente applicate.
E’ preferibile seguire, anche per i testi costituzionali, il giudizio che ne dava Lassalle che vedeva nella costituzione giuridica (cioè quella correntemente chiamata formale) un “foglio di carta”, dove sono “ buttati giù” gli effettivi rapporti di forze; fare una costituzione scritta è il meno: la si può fare tre volte al giorno. Cambiare i rapporti di forza è enormemente più lento e difficile: ma ne consegue una prolungata stabilità (20). Al contrario se la costituzione formale non corrisponde a quella “effettiva” (cioè – a un di presso - a quella materiale) ossia se “Ciò che è scritto sul pezzo di carta, è del tutto indifferente al fatto se contraddica o meno alla reale situazione delle cose, agli effettivi rapporti di potere” la conseguenza è che “Con la medesima necessità che pone nella legge la forza di gravità, la costituzione reale è destinata ad imporsi passo dopo passo sulla costituzione scritta”. Così, applicando l’approccio realistico di Lassalle, se a quelle disposizioni non corrispondono delle forze sociali che le sostengano e una conseguente modellazione dell’organizzazione pubblica, sono destinate a rimanere dove stanno: sulla carta.
6. Quando s’insegna cos’è la norma giuridica, la si scompone in genere nel precetto (cioè quel che si deve fare) e nella sanzione (la conseguenza che deriva dall’osservanza o dalla non osservanza del precetto). Kant, seguendo Thomasius, ha ritenuto carattere indefettibile e peculiare del diritto la coazione, cioè la possibilità di costringere all’osservanza. A parte i casi in cui è la parte facultata a costringere (come in molti diritti non moderni), in epoche più evolute e in quelle moderne in particolare, coazione significa organizzazione (pubblica). Per aversi una coazione effettiva occorre che l’organizzazione sia conformata di guisa da renderla effettiva (e probabile).
L’art. 28, come altre norme finalizzate alla difesa contro il potere amministrativo e burocratico è una norma di “chiusura” e “strumentale”: sanzionante ogni violazione di diritti (non solo di quelli garantiti dalla Costituzione, ma anche da leggi ordinarie) ed è per natura, una norma-mezzo per la tutela di quelli e così della legalità nella condotta dell’apparato pubblico.
Perché tale scopo sia realizzato occorre non solo la prescrizione della sanzione (il risarcimento dei danni, che è statuito) ma anche che sia di applicazione non episodica e non eccessivamente difficile.
Se si va ad un esame, necessariamente superficiale, delle pronunce delle magistrature superiori che abbiano una qualche attinenza con l’art. 28, se ne ricava una rappresentazione della realtà, che contrasta con altri dati sull’efficienza e sulla correttezza degli apparati pubblici. Negli ultimi trent’anni si rinvengono settantaquattro (74) tra sentenze e ordinanze della Corte Costituzionale, quasi tutte d’inammissibilità o rigetto; centotrentanove (139) della Corte di Cassazione,; nove (9) del Consiglio di Stato; ventotto (28) della Corte dei Conti (anche se data la competenza giurisdizionale dei Giudici amministrativi, questi hanno occasione di occuparsi dell’art. 28 solo di riflesso).
Tale quadro, tutto sommato di per sè poco preoccupante, stride con la constatazione quotidiana di apparati pubblici inefficienti e spesso corrotti. Se solo per fare un esempio, relativo alla giustizia amministrativa, vi è stata una lievitazione esponenziale dei giudizi d’ottemperanza (cioè i processi per far eseguire alle pubbliche amministrazioni le sentenze) negli ultimi quarant’anni, il tutto contrasta con i dati su riportati, atteso che non eseguire la sentenza è un reato (art. 328 c.p.c.) e specificamente fonte di responsabilità civile (per danni) verso il privato (art. 26 T.U. 3/1957).
Se, continuando con gli esempi, lo Stato, date le pressioni del Consiglio d’Europa e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dovuto fare una legge apposita (la c.d. legge-Pinto) per i ritardi nei processi (e quindi nell’attuazione delle pretese giuridiche), lo si deve ad una legislazione spesso di difficile applicazione e ad un’amministrazione tardigrada, più che una giustizia lenta e poco organizzata (mentre a livello d’opinione pubblica è stato questo l’aspetto che ha attirato l’attenzione) (21).
O anche se, recentemente, è stato sviluppato il sistema del cosiddetto “silenzio-assenso” (anche se dovrebbe essere ulteriormente esteso, specie ove riguardante diritti fondamentali) ciò è dovuto ai tempi lunghissimi di concessioni di licenze, nulla-osta, permessi, autorizzazioni da parte delle PP.AA.. E si potrebbe continuare a lungo: : ma “incrociando” quanto deriva già solo dagli esempi fatti e la scarsità delle decisioni giudiziarie riconducibili alle violazioni dell’art. 28, rende manifesto come tale disposizione sia di applicazione rara e difficile. Un precetto giusto e una sanzione adatta ma applicata poco. C’è da chiedersi il perché.
7. A tal riguardo chiederselo è come fare una passeggiata in una notte nebbiosa: si deve procedere a tentoni e ragionando su considerazioni a priori piuttosto che su fatti accertati e documentati.
Si azzardano un paio di spiegazioni.
La prima: il precetto è poco applicato perché si preferisce l’altra via, cioè quella della responsabilità disciplinare non perché sia tanto frequentata anche quella, ma perché non s’incunea nell’organizzazione “gerarchica” e in quella forma di “giustizia disciplinare” (cioè interna all’apparato amministrativo) che lascia autonoma l’amministrazione nel decidere se sanzionare o meno il funzionario. Mentre la responsabilità dell’art. 28 introduce il giudizio di un “terzo estraneo” – il Giudice – all’interno dell’amministrazione, con l’aggravante di poter applicare una sanzione (patrimoniale) ad un funzionario; e con l’inconveniente così di alterare il rapporto di comando-obbedienza interno alle strutture. Dato che come riteneva Santi Romano l’ordinamento non è la collezione delle gazzette ufficiali, ma “in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese”, significa proteggere – anche in senso non proprio commendevole né di ampio respiro – l’organizzazione amministrativa.
É a quel fine, non commendevole, che serve il suo complementare, ovvero proclamare solennemente nelle costituzioni dei diritti, destinati, secondo la previsione di Lassalle, a rimanere sulla carta. A tanto fumo corrisponde poco arrosto: anzi fare tanto del primo vuol dire occultare quanto c’è poco del secondo.
L’altra deriva dall’illusione, tutta moderna, che la Costituzione sia norma (e norma scritta); suggestione che deriva da Thomas Paine (una costituzione è tale quando la si può mettere in tasca) combattuta già da de Maistre, e frutto di una aspirazione condivisibile; tuttavia destinata, se lasciata sola e non adeguatamente supportata, a generare prima illusioni, destinate a convertirsi col tempo in disillusioni e frustrazioni.
(1) “Anche per altri impiegati esiste già qualcosa di simile. Non dobbiamo dimenticare che per i dipendenti dello Stato, i quali esplicano la funzione giurisdizionale, cioè per i magistrati, per i cancellieri e per gli stessi ufficiali giudiziari, è stabilita anche oggi la responsabilità personale. Lo stesso principio vale per taluni organi dell’Amministrazione finanziaria, come i conservatori dei registri immobiliari” riportato in V. Carullo La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 78. - Torna al testo.
(2) “la responsabilità dello Stato non si ammetteva in passato per varie ragioni e soprattutto perché si diceva che lo Stato, essenzialmente ispirato al diritto, non poteva commettere atti tali da far sorgere una responsabilità. Si è arrivati a fare la distinzione tra la personalità giuridica pubblica dello Stato, tra il fisco e lo Stato propriamente detto, e si ammetteva la responsabilità dello Stato in quanto fisco, mentre la si escludeva in quanto esso agisse quale persona giuridica pubblica... Si arrivò in tal modo ad ammettere questa responsabilità della pubblica Amministrazione e vi si arrivò ritenendo che gli organi dello Stato esplichino attività pubblica e che questa attività è pubblica e resta attività dello Stato, anche se viziata. Si pensò quindi che gli atti, rimanendo sempre atti statali e in particolare rimanendo atti amministrativi, dovevano far sorgere quell’obbligo di risarcire i danni derivanti dal proprio operato in cui consiste in fondo la responsabilità.
Fatto questo passo, che portò a riconoscere, in linea generale, la responsabilità della pubblica Amministrazione, si giunse a concludere che, anche nei confronti dei pubblici impiegati, doveva ammettersi il principio della responsabilità e l’obbligo di risarcire i danni derivanti dalla loro attività. Senonché, questo obbligo incombeva non sopra un singolo dipendente dallo Stato, almeno per quanto riguarda i terzi, ma sulla stessa Amministrazione. Gli impiegati poi, a loro volta, erano responsabili nei confronti della pubblica Amministrazione per i danni derivanti dalla loro attività” v. Carullo op. cit., pp. 77-78. - Torna al testo.
(3) V. La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino 1904, pp. 8 ss. - Torna al testo.
(4) “Tra le nove o dieci costituzioni che sono state emanate in perpetuo in Francia da sessant’anni in poi, se ne trova una nella quale è detto espressamente che nessun agente amministrativo può essere citato davanti ai tribunali ordinari senza autorizzazione. L’articolo parve tanto bene immaginato che, pur abbattendo la costituzione di cui faceva parte, si ebbe cura di tirarlo fuori dalle rovine, e da allora è sempre stato tenuto con cura al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori usano ancora chiamare il privilegio loro accordato da questo articolo una delle grandi conquiste dell’89; ma in ciò sbagliano, perché, sotto l’antica monarchia, il Governo non aveva meno cura che ai nostri giorni di evitare ai funzionari il fastidio di doversi confessare alla giustizia come semplici cittadini. La sola differenza fondamentale fra le due epoche è questa: prima della Rivoluzione, il governo poteva coprire i propri agenti solo ricorrendo a mezzi illegali e arbitrari, in L’ancien régime et la revolution, trad. di G. Caldeloro, Milano 1981, p. 94. - Torna al testo.
(5) “Tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri, e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente, che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso della sua dissoluzione”. Note sul Macchiavelli Roma 1971 p. 119 v. anche p. 408. - Torna al testo.
(6) “Proporzionalmente così alla popolazione come ai pubblici servizi, lo Stato italiano annovera il maggior numero d’impiegati, specialmente di quelli che hanno mansioni esecutive, triste espressione del nesso indissolubile che è in Italia fra il proletariato intellettuale e il funzionarismo, due escrescenze parassitarie di un organismo debole e lalato”. I servizi pubblici e la XXII legislatura ne Il mezzogiorno e lo Stato italiano Bari 1911 p. 417. - Torna al testo.
(7) “L’Austria ha 160, noi 300 impiegati per ogni cento mila abitanti. – “c’è un professore”, esclamava ironicamente il Carducci, per ogni due italiani”...op. cit. p. 419. - Torna al testo.
(8) Op. cit. p. 422. - Torna al testo.
(9) Op. cit. p. 423. - Torna al testo.
(10) Op. cit p. 424. - Torna al testo.
(11) Op. cit. p. 424 e prosegue “Vassalli un tempo de’ baroni, cui il re aveva delegato i suoi poteri, domani saremmo sudditi di tutte le organizzazioni, le quali esercitino attribuzioni di Stato, e come una volta il re trattava con i baroni, così è facile il Parlamento scenda a patti con i rappresentanti di quelle, nominati, se occorre, con mandato imperativo. Si avvererebbe, in conclusione, l’arguto detto del Tocqueville, che la storia umana rassomigli ad una grande pinacoteca, in cui pochi sono i quadri originali e molte le copie”. - Torna al testo.
(12) Op. cit. p. 429. - Torna al testo.
(13) “Le forme di vita degli impiegati e dei lavoratori dell’amministrazione statale delle miniere e delle ferrovie prussiane non sono in alcun modo sensibilmente diverse da quelle delle grandi imprese capitalistiche private. Esse sono tuttavia meno libere, perché ogni lotta di potere contro una burocrazia statale è senza speranze, e poiché non può essere invocata alcuna istanza che abbia in linea di principio interessi contrari ad essa e alla sua potenza – come invece è possibile fare nei confronti dell’economia privata. Tutta la differenza si ridurrebbe a questo: se il capitalismo privato venisse eliminato, la burocrazia statale dominerebbe da sola. La burocrazia privata e la burocrazia pubblica, che attualmente operano l’una accanto all’altra e, per quanto è possibile, l’una di fronte all’altra – tenendosi quindi pur sempre in certa misura sotto un controllo reciproco – si troverebbero fuse in un’unica gerarchia, ma in forma senza confronto più razionale e perciò più ineluttabile” v. Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Vol. V, Milano 1980, p. 501. - Torna al testo.
(14) Op. cit., p. 501. - Torna al testo.
(15) Op. loc. cit. - Torna al testo.
(16) “Di fronte al fatto fondamentale dell’avanzata inarrestabile della burocratizzazione, il problema delle future forme di organizzazione politica non può essere posto che nei termini seguenti” op. cit., p. 502. - Torna al testo.
(17) V. Silvio Spaventa La giustizia nell’amministrazione, rist. Torino 1949, pp. 66 ss. - Torna al testo.
(18) E’ interessante notare come alcuni di tali caratteri siano comuni all’ordinamento giudiziario degli USA, più che a quelli europei. Il fatto che lì ci sia una magistratura indipendente e nella fu URSS non altrettanto è evidentemente dovuto sia ai condizionamenti sociali e culturali che all’ordinamento complessivo. - Torna al testo.
(19) La traduzione italiana è errata: il senso della frase chiarisce che il “non” è un refuso. V. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto dello Stato, Milano 1949, pp. 303 ss. - Torna al testo.
(20) “Capovolgere nel paese i rapporti di potere effettivi e reali, intervenire nell’esecutivo, intervenire e forgiarlo effettivamente a tal punto che esso non si potesse mai di nuovo contrapporsi alla volontà della nazione – questo era ciò che era importante e ciò che doveva essere realizzato perchè una costituzione scritta potesse avere durata” v. F. Lassalle Überverfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20 p. 13. - Torna al testo.
(21) Non si hanno dati statistici sulle “distribuzione” tra i diversi poteri pubblici di fatti od omissioni generanti la condanna al pagamento degli indennizzi ex legge-Pinto. Ma chi scrive ha la netta impressione che, al riguardo, ciò che potrebbe rientrare nella responsabilità di uffici o singoli magistrati sia una piccola percentuale. - Torna al testo.
L’articolo 28 della Costituzione italiana:
un precetto oscurato.
un precetto oscurato.
1. Desuetudine di una garanzia essenziale. – L’opinione pubblica, compresa quella influenzata dai talebani della Costituzione (che la ritengono, come il mondo per Pangloss, la migliore delle possibili), non dedica punto attenzione all’art. 28 della Carta: il quale prescrive la responsabilità diretta dei funzionari pubblici nei confronti dei danneggiati da “atti compiuti in violazione dei diritti”, responsabilità che “si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Questo ad onta della convinzione, largamente prevalente, che l’Italia abbia un’amministrazione (e una burocrazia) da terzo mondo, che coniuga a una scarsa efficienza un elevato tasso di favoritismi e corruzione. A misurare sulla stampa, e sui mass-media in genere, la quantità di notizie, interventi, commenti generali generati da altri articoli, assai meno istituzionalmente sensibili, come l’art. 32 (diritto alla salute e trattamento sanitario) l’art. 15 (inviolabilità della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione), l’art. 21 (libertà di stampa) e così via, si resta impressionati dal divario. Anche perché è proprio l’art. 28 a costituire una delle garanzie (essenziali) perché non siano violati dai poteri pubblici i diritti degli “amministrati” e quindi in primis quelli garantiti dalla Costituzione, come, tra gli altri, i cennati.
Onde pare opportuno fare qualche considerazione sul tema.
2. Il pronunciamento della Consulta. – Com’è noto da decenni la Corte Costituzionale ha chiarito in molte sentenze il contenuto dell’art. 28. É stato giudicato che: “L’art. 28 Cost., enuncia il principio della responsabilità personale dei dipendenti pubblici verso i danneggiati, ma non esclude la possibilità che vengano introdotte regole particolari e diverse rispetto ai principi comuni in materia, sempre che la disciplina adottata non sia tale da comportare un’esclusione più o meno manifesta di ogni responsabilità” (C. Cost., 16 marzo 1976, n.. 49, Foro it., 1976, I, 897; Giur. Cost., 1976, i, 373; Giur. It., 1976, I, 1, 1054) e “L’art. 28 Cost., affermando che i pubblici dipendenti sono responsabili «degli atti compiuti in violazione dei diritti secondo le leggi penali, civili ed amministrative», non vieta alle leggi, cui rinvia, di disciplinare variamente questa triplice responsabilità, in funzione delle diverse situazioni oggettive e degli interessi che vi si riconnettono” (C. Cost., 14 aprile 1976, n. 82) e anche “La garanzia prestata dalla norma dell’art. 28 Cost., non si esaurisce nell’affermazione della responsabilità del funzionario o dipendente pubblico, giacché la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici, contro i quali pertanto potrà rivolgere la propria azione il soggetto leso nei propri diritti, mentre poi lo Stato o altro ente pubblico potrà rivalersi a sua volta sulle retribuzioni del dipendente responsabile” (C. Cost., 8 giugno 1963, n. 88, Giur. Cost., 1963, 725).
Già nell’Assemblea costituente l’on. Codacci Pisanelli sottolineava il carattere innovativo dell’art. 28:
“si ha al riguardo una notevole innovazione, perché gli impiegati non sono soltanto responsabili nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico, da cui dipendono, ma sono responsabili nei confronti dei terzi, ai quali siano derivati danni dalla loro attività”,che generalizzava quanto prima previsto solo per categorie di funzionari (1).
Lo stesso Codacci Pisanelli faceva un riepilogo storico delle responsabilità delle pubbliche amministrazioni verso il cittadino (2), in cui riassumendo i vari modi in cui era stata disciplinata, ricordava quelli che ne sono rimasti i più frequenti, concorrenti e/o alternativi: l’azione diretta del danneggiato verso il funzionario e l’ente quale coobbligato; l’azione verso l’ente, con diritto/possibilità di rivalsa (ed altro, p.es. il profilo disciplinare) di questi verso il funzionario (quindi indiretta).
A parte considerazioni di carattere spesso prevalentemente tecnico, l’importanza della disposizione - uno dei capisaldi dello Stato di diritto – è data:
- a) dal fatto di costituire un’applicazione del principio del Rechtstaat di subordinazione dell’amministrazione al diritto, che comporta le relative responsabilità;
- b) da quello, connesso al precedente che, così si subordina la P.A. alla legge, e quindi al parlamento (è uno dei costitutivi della forma di governo legislativo-parlamentare);
- c) dall’essere un limite – assai forte, se adeguatamente disciplinato – al potere amministrativo-burocratico, cioè a quello particolarmente sviluppato dallo Stato moderno, come insegna (tra gli altri) Max Weber, e sottolineato col termine – di poco successo – “funzionarismo” da Antonio Salandra e Giustino Fortunato (e, in altro contesto, da Antonio Gramsci);
- d) e così da configurarsi anche come un fattore d’equilibrio del sistema costituzionale.
Prendendo le mosse da Antonio Salandra, questi scriveva, tratteggiando la situazione costituzionale dell’inizio del secolo passato: “quelle funzioni degli Stati moderni, che, proseguendo particolarmente il fine di benessere e di coltura, hanno più rigorosamente il nome di amministrative, vanno d’anno in anno crescendo di numero, di intensità e di diffusione... basterebbe in risposta richiamare alla mente i due loro inoppugnabili esponenti numerici: le cifre cioè che rappresentano la spesa annua degli Stati e delle minori associazioni forzose (Comuni, Provincie, Consorzii obbligatorii d’ogni maniera), e le cifre che attestano quanti individui sono addetti stabilmente all’esercizio di pubbliche funzioni. Esse dànno un’adeguata misura del bisogno sempre crescente di mezzi materiali e personali, che l’amministrazione risente per conseguimento dei suoi fini. La continua progressione dei bilanci e l’estensione di quello che fu detto funzionarismo non possono in alcun modo essere disconosciute”; e mette in guardia: “l’autorità, se anche preordinata a difesa e integrazione della libertà, non si esercita senza diminuzione della libertà stessa. E quanto più essa si divulga, quanto maggiore cioè è il numero e di conseguenza inferiore la qualità degli individui che la esercitano, tanto più grave e frequente è il pericolo ch’essa ecceda, e che non sia raffrenata la naturale tendenza di coloro che ne dispongono ad abusarne e a disviarla a fini personali” (3).
D’altra parte che nell’ethos dello Stato e del pensiero borghese vi sia una marcata avversione al potere burocratico è cosa nota. Già lo si avverte nella rivoluzione francese. Saint-Just sosteneva “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; chiunque abbia una carica non fa niente personalmente e prende dei collaboratori subordinati; il primo collaboratore ha a sua volta aiutanti, e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano... Il ministero è un mondo di carta” e in un altro rapporto alla Convenzione “C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari... Tutti vogliono governare, nessuno vuol essere cittadino. Dov’è dunque la comunità politica? Essa è quasi usurpata dai funzionari”.
Tocqueville scrive, proprio in relazione alla responsabilità dei funzionari e alla sottrazione dei medesimi alla giustizia ordinaria, che questa era la costante prassi dell’ancien régime, divenuta legge dopo la rivoluzione (4).
Idee – antiburocratiche - che ritornano nelle pagine del giovane Marx nella “Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico”.
Anche Gramsci avverte la contraddizione tra “ideologia liberale” e assetto dello Stato borghese proprio nella burocrazia (5).
A Giustino Fortunato dobbiamo alcuni dei giudizi più penetranti sul”funzionarismo”. In primo luogo sul “nesso indissolubile” tra proletariato intellettuale e funzionarismo (6) che è un male nazionale come quello della pletora degli impiegati pubblici (7).
Ma ancor più nella contrapposizione tra burocrati e sovranità popolare, evidente nella prassi e nei “pronunciamenti” delle loro organizzazioni sindacali (8). Il socialismo vi aveva attecchito facilmente perché “smarrito assai presto il contenuto etico, non indugiò a coltivare l’egoismo di categoria e a favorire i particolari sfruttamenti della piccola borghesia dominante, sempre più desiderosa di accrescere i pubblici uffici. sostituendo vaste imprese pubbliche, autoritarie e gerarchiche, alla libera concorrenza dei cittadini” (9) questa burocrazia parassitaria “non concepì i servizi amministrativi se non immaginandoli pari a quelli di una macchina, che dovesse agire per solo uso e consumo de’ suoi congegni, nel particolare esclusivo interesse di coloro che vi fossero addetti, - la macchina per la macchina” (10) .
Data la divisione del lavoro e l’organizzazione dello Stato, queste fratture fanno presagire un assetto policratico dove “all’antico feudalismo «a base locale» terrebbe dietro un feudalismo «a base funzionale», - tanto più prossimo e sicuro quanto più presto e meglio praticato dagli addetti a’ pubblici uffizi e dagli agenti delle imprese di Stato. che «la fatale evoluzione economica», avverte il Turati, “costringerà ad essere, piaccia o non, i primi cittadini della città futura” (11).
Tale tendenza si sta già realizzando, sosteneva Fortunato, perchè la burocrazia è riuscita a “ sottrarre alla privata concorrenza il maggior numero di intraprese, assumendone direttamente l’esercizio: ossia, la tendenza al dominio universale della burocrazia, - il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica” (12). E sotto diversi e più articolati profili sono ripetute e approfondite in Max Weber “dove domina il moderno funzionario specializzato con istruzione specifica, il suo potere è senz’altro indistruttibile, poiché l’intera organizzazione del più elementare approvvigionamento della vita riposa sulla sua prestazione”; ma il pericolo è evidente” (13); l’organizzazione burocratica è spirito rappreso (14) “In unione con la macchina inanimata, essa è all’opera per preparare la struttura di quella servitù futura alla quale un giorno forse gli uomini saranno costretti ad adattarsi impotenti, come i fellah dell’antico Egitto, qualora un’amministrazione e un approvvigionamento razionale mediante funzionari – pur ottimi dal punto di vista puramente tecnico – costituiscano per essi il valore ultimo ed esclusivo che deve decidere sul modo di dirigere i loro affari” (15).
E si poneva il problema di come contenere questo potere (16) tenuto conto che i diritti di libertà erano connaturati, che v’era un problema di garanzie, cioè d’individuare delle forze (in primo luogo) in grado di limitarlo, e che comunque la burocrazia non poteva avere il ruolo di direzione politica (la distinzione tra “capo” e “funzionario” alla quale Weber ritornava spesso).
Una soluzione era individuata (tra gli altri) da Silvio Spaventa. Questi si chiedeva “É evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere”. Ma data la tendenza ineluttabile all’aumento delle competenze e dei poteri dell’amministrazione, “tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressocché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo”. E prosegue “Dov’è dunque questo rimedio? Per saperlo, basta considerare le cause, da cui il male proviene. E queste cause, a mio parere, sono tre. La prima è il difetto o incertezza di norme giuridiche che limitino rigorosamente nell’amministrazione le facoltà e i poteri che essa deve esercitare. La seconda è il difetto e incertezza del giudice, che decida sulla controversia che nasce quando il cittadino si risente e si oppone all’abuso ed arbitrio, che contro di lui si commette o si tenta di commettere. La terza è il difetto di responsabilità immancabile e pronta degli ufficiali pubblici” e trattando di quest’ultima sosteneva “Ora vi ricordate, come dissi da principio, che questo rimedio doveva cercarsi non solo nelle leggi e nei giudici – leggi specificate e concrete, giudici imparziali e indipendenti, - ma nella rigorosa responsabilità degli amministratori”.
Ma dato l’aborto ripetuto di ogni tentativo di riforma in tal senso riteneva “la proposta di abolire la guarentigia amministrativa, ossia l’autorizzazione preventiva a procedere contro prefetti, sottoprefetti e sindaci per imputazioni di reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, era una riforma, secondo me, molto opportuna, e che non avrebbe dovuto essere più ritardata” (17).
4. Nell’immaginario collettivo dell’età moderna per aversi uno Stato “liberale” e in particolare una tutela efficace dei diritti fondamentali occorre deliberare una Costituzione in cui quelli siano garantiti.
Ma la storia ha dimostrato che non è così: almeno in un caso (la Gran Bretagna) non esiste una costituzione “deliberata” (in quello specifico senso), ma ciò non toglie che i diritti degli inglesi siano tutelati in modo sicuramente non meno efficace che nel resto del mondo libero. Mentre, all’inverso, le costituzioni dei defunti Stati comunisti erano piene di diritti “garantiti” (compresa quella stalinista, cioè dell’URSS nel 1936), assai più (o non meno) di quelle liberali. Solo che erano mere esternazioni verbali, perché a tutti quegli Stati mancavano le garanzie “ordinamentali”, derivanti cioè dall’articolazione della società e dall’organizzazione del potere, e soprattutto, il secondo dei principi dello Stato borghese: la distinzione dei poteri. In Stati in cui la società era organizzata dal partito unico, retto secondo il principio del centralismo democratico e che esercitava una dittatura commissaria, mancavano tutte le condizioni concrete perché quei diritti calassero dall’astratto al concreto, dalla carta alla realtà.
Tali semplici constatazioni non fanno parte del “senso comune” ricavabile da gran parte dei mezzi di comunicazione, e dalla rete in particolare. Prevale l’opinione che un diritto è tale quando è solennemente enunciato in un documento costituzionale; e che una costituzione è buona quanti più enunciati di tale genere mette in fila. Con tale criterio la Costituzione del 1977 dell’URSS, ad esempio, sarebbe la migliore di quelle possibili, perché l’art. 39 proclamava “I cittadini dell’URSS posseggono tutta la gamma dei diritti e delle libertà economico-sociali, politiche e personali, proclamate e garantite dalla Costituzione dell’URSS e dalle leggi sovietiche. Il regime socialista assicura l’ampliamento dei diritti e delle libertà e il miglioramento ininterrotto delle condizioni di vita dei cittadini di pari passo con l’attuazione dei programmi di sviluppo socio-economico e culturale.
L’uso dei diritti e delle libertà da parte dei cittadini non deve arrecare danno agli interessi della società e dello Stato, ai diritti degli altri cittadini”. Solo che, procedendo nella lettura, gli articoli 151-168, delineavano un’organizzazione giudiziaria di nomina politica o elettiva (art. 152, comma I – IV; art. 153) per tempi limitati (cinque – due anni) e la responsabilità dei giudici nei confronti dell’organo che li aveva scelti (art. 152, V comma) (18) ; anche il Procuratore Generale, nominato, è responsabile come i giudici. Ovviamente di giustizia costituzionale non v’è traccia; quella amministrativa, teoricamente possibile, non era disciplinata dalla costituzione. Quel che più conta, dato il ruolo politico (assolutamente) preminente del PCUS (art. 6) e il diritto a presentare candidature, limitato alle organizzazione “di regime”, le possibilità (di autonomia sociale e) di esercizio di una giustizia indipendente erano del tutto teoriche (e questo a tacere dell’impianto generale – che è quel che più conta). In queste condizioni si ha un bell’elencare diritti in costituzioni e leggi; manca l’elemento decisivo: che l’enunciato si traduca in applicato. Mentre è il momento applicativo, del rendere concretamente operante (esistente) quel che è astrattamente voluto, che connota l’effettività del diritto e l’ordine sociale e politico.
5. Come ben noto nella dottrina giuridica. Tra i molti che se ne sono occupati ricordiamo Georg Jellinek. Scriveva il giurista tedesco: “Tutto il diritto è diritto in vigore. Ma la validità di un diritto dev’essere in qualche maniera garantita: ossia, debbono esistere delle forze, la cui esistenza permetta che i giuridicamente consociati attendano come verisimile la trasformazione delle norme giuridiche da semplici pretese astratte sulle volontà umane in azioni concrete” e proseguiva “per il diritto pubblico, come per ogni altro diritto, esistono tre specie di garanzie: garanzie sociali, politiche, giuridiche. Che il diritto non esista solamente colà dove si hanno delle garanzie giuridicamente apprezzabili, già altrove fu esposto” (19). Quanto alle garanzie sociali: “l’insieme delle forze della civiltà e gli interessi e le organizzazioni, che sono da queste prodotte, agiscono ininterrottamente sulla creazione e sullo sviluppo del diritto ed assicurano la garanzia più salda della validità di esso: garanzia, che da altre forze è semplicemente perfezionata. Quelle forze costituiscono la più valida limitazione di fatto ad ogni arbitrio che possa vivere in concezioni astrattamente giuridiche e determinano con una potenza, che supera l’efficacia di una volontà cosciente, la vita reale delle istituzioni statali e la storia degli Stati”.
Mentre “le garanzie politiche si hanno nei reali rapporti di forza tra i fattori statali organizzati: e cioè, degli Stati stessi, nei rapporti di diritto internazionale; degli organi dello Stato, nei rapporti di diritto statale. La garanzia politica più importante dell’ordinamento statale sta nel modo della ripartizione di potere, che si manifesta nella organizzazione dello Stato”: quindi se il potere è ripartito e “diffuso” le garanzie politiche hanno la possibilità di incidere; tuttavia “le garanzie politiche hanno in comune con quelle sociali questa particolarità; che non può farsi assegnamento su di esse con piena sicurezza”. A differenza delle garanzie giuridiche che “si distinguono da quelle sociali e da quelle politiche per il fatto che sulla loro azione si può fare assegnamento sicuro. Può essere dubbio se esse siano riconosciute nel caso singolo; dubbio, se siano sufficienti nella loro conformazione concreta; dubbio, se vengano adoperate in tutte le circostanze: tali debolezze umane sono inerenti ad ogni azione umana. Ma corrisponde alla loro natura il servire alla garanzia del diritto”. E prosegue “Le istituzioni giuridiche, mediante le quali quelle garanzie vengono a realizzarsi, si distinguono in quattro classi: controlli, responsabilità individuale, giurisdizione, mezzi giuridici”; e questi istituti di garanzia sono i controlli, le responsabilità (verso lo Stato), la giurisdizione, e i mezzi giuridici a disposizione dei “soggetti al potere”. Ovvero “Anche di fronte ai sudditi il funzionario è responsabile civilmente, e può da loro essere perseguito penalmente; inoltre, rispetto ad essi è responsabile anche lo Stato, sia in via sussidiaria, sia in luogo de’ funzionari, sebbene a questo riguardo, però, esistano spesso delle disposizioni restrittive”.
Per cui l’intero “apparato” delle garanzie è articolato e distribuito in assetti, collegamenti, controlli, rapporti di coordinazione e subordinazione tra poteri, organi, uffici. Non sfugge cioè alla regola di Santi Romano per cui l’ordinamento giuridico “è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedina in una scacchiera, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”. E per aversi garanzie concretamente operanti è necessario non tanto avere delle norme apposite, ma che l’ordinamento complessivo sia conformato di guisa che quelle siano effettivamente applicate.
Cioè tutto il contrario di quanto avviene con la promulgazione di norme-manifesto (costituzionali e/o legislative ordinarie) volte ad acquisire un consenso fatto di speranze, e, molto spesso, di illusioni; che restano disapplicate o episodicamente applicate.
E’ preferibile seguire, anche per i testi costituzionali, il giudizio che ne dava Lassalle che vedeva nella costituzione giuridica (cioè quella correntemente chiamata formale) un “foglio di carta”, dove sono “ buttati giù” gli effettivi rapporti di forze; fare una costituzione scritta è il meno: la si può fare tre volte al giorno. Cambiare i rapporti di forza è enormemente più lento e difficile: ma ne consegue una prolungata stabilità (20). Al contrario se la costituzione formale non corrisponde a quella “effettiva” (cioè – a un di presso - a quella materiale) ossia se “Ciò che è scritto sul pezzo di carta, è del tutto indifferente al fatto se contraddica o meno alla reale situazione delle cose, agli effettivi rapporti di potere” la conseguenza è che “Con la medesima necessità che pone nella legge la forza di gravità, la costituzione reale è destinata ad imporsi passo dopo passo sulla costituzione scritta”. Così, applicando l’approccio realistico di Lassalle, se a quelle disposizioni non corrispondono delle forze sociali che le sostengano e una conseguente modellazione dell’organizzazione pubblica, sono destinate a rimanere dove stanno: sulla carta.
6. Quando s’insegna cos’è la norma giuridica, la si scompone in genere nel precetto (cioè quel che si deve fare) e nella sanzione (la conseguenza che deriva dall’osservanza o dalla non osservanza del precetto). Kant, seguendo Thomasius, ha ritenuto carattere indefettibile e peculiare del diritto la coazione, cioè la possibilità di costringere all’osservanza. A parte i casi in cui è la parte facultata a costringere (come in molti diritti non moderni), in epoche più evolute e in quelle moderne in particolare, coazione significa organizzazione (pubblica). Per aversi una coazione effettiva occorre che l’organizzazione sia conformata di guisa da renderla effettiva (e probabile).
L’art. 28, come altre norme finalizzate alla difesa contro il potere amministrativo e burocratico è una norma di “chiusura” e “strumentale”: sanzionante ogni violazione di diritti (non solo di quelli garantiti dalla Costituzione, ma anche da leggi ordinarie) ed è per natura, una norma-mezzo per la tutela di quelli e così della legalità nella condotta dell’apparato pubblico.
Perché tale scopo sia realizzato occorre non solo la prescrizione della sanzione (il risarcimento dei danni, che è statuito) ma anche che sia di applicazione non episodica e non eccessivamente difficile.
Se si va ad un esame, necessariamente superficiale, delle pronunce delle magistrature superiori che abbiano una qualche attinenza con l’art. 28, se ne ricava una rappresentazione della realtà, che contrasta con altri dati sull’efficienza e sulla correttezza degli apparati pubblici. Negli ultimi trent’anni si rinvengono settantaquattro (74) tra sentenze e ordinanze della Corte Costituzionale, quasi tutte d’inammissibilità o rigetto; centotrentanove (139) della Corte di Cassazione,; nove (9) del Consiglio di Stato; ventotto (28) della Corte dei Conti (anche se data la competenza giurisdizionale dei Giudici amministrativi, questi hanno occasione di occuparsi dell’art. 28 solo di riflesso).
Tale quadro, tutto sommato di per sè poco preoccupante, stride con la constatazione quotidiana di apparati pubblici inefficienti e spesso corrotti. Se solo per fare un esempio, relativo alla giustizia amministrativa, vi è stata una lievitazione esponenziale dei giudizi d’ottemperanza (cioè i processi per far eseguire alle pubbliche amministrazioni le sentenze) negli ultimi quarant’anni, il tutto contrasta con i dati su riportati, atteso che non eseguire la sentenza è un reato (art. 328 c.p.c.) e specificamente fonte di responsabilità civile (per danni) verso il privato (art. 26 T.U. 3/1957).
Se, continuando con gli esempi, lo Stato, date le pressioni del Consiglio d’Europa e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dovuto fare una legge apposita (la c.d. legge-Pinto) per i ritardi nei processi (e quindi nell’attuazione delle pretese giuridiche), lo si deve ad una legislazione spesso di difficile applicazione e ad un’amministrazione tardigrada, più che una giustizia lenta e poco organizzata (mentre a livello d’opinione pubblica è stato questo l’aspetto che ha attirato l’attenzione) (21).
O anche se, recentemente, è stato sviluppato il sistema del cosiddetto “silenzio-assenso” (anche se dovrebbe essere ulteriormente esteso, specie ove riguardante diritti fondamentali) ciò è dovuto ai tempi lunghissimi di concessioni di licenze, nulla-osta, permessi, autorizzazioni da parte delle PP.AA.. E si potrebbe continuare a lungo: : ma “incrociando” quanto deriva già solo dagli esempi fatti e la scarsità delle decisioni giudiziarie riconducibili alle violazioni dell’art. 28, rende manifesto come tale disposizione sia di applicazione rara e difficile. Un precetto giusto e una sanzione adatta ma applicata poco. C’è da chiedersi il perché.
7. A tal riguardo chiederselo è come fare una passeggiata in una notte nebbiosa: si deve procedere a tentoni e ragionando su considerazioni a priori piuttosto che su fatti accertati e documentati.
Si azzardano un paio di spiegazioni.
La prima: il precetto è poco applicato perché si preferisce l’altra via, cioè quella della responsabilità disciplinare non perché sia tanto frequentata anche quella, ma perché non s’incunea nell’organizzazione “gerarchica” e in quella forma di “giustizia disciplinare” (cioè interna all’apparato amministrativo) che lascia autonoma l’amministrazione nel decidere se sanzionare o meno il funzionario. Mentre la responsabilità dell’art. 28 introduce il giudizio di un “terzo estraneo” – il Giudice – all’interno dell’amministrazione, con l’aggravante di poter applicare una sanzione (patrimoniale) ad un funzionario; e con l’inconveniente così di alterare il rapporto di comando-obbedienza interno alle strutture. Dato che come riteneva Santi Romano l’ordinamento non è la collezione delle gazzette ufficiali, ma “in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese”, significa proteggere – anche in senso non proprio commendevole né di ampio respiro – l’organizzazione amministrativa.
É a quel fine, non commendevole, che serve il suo complementare, ovvero proclamare solennemente nelle costituzioni dei diritti, destinati, secondo la previsione di Lassalle, a rimanere sulla carta. A tanto fumo corrisponde poco arrosto: anzi fare tanto del primo vuol dire occultare quanto c’è poco del secondo.
L’altra deriva dall’illusione, tutta moderna, che la Costituzione sia norma (e norma scritta); suggestione che deriva da Thomas Paine (una costituzione è tale quando la si può mettere in tasca) combattuta già da de Maistre, e frutto di una aspirazione condivisibile; tuttavia destinata, se lasciata sola e non adeguatamente supportata, a generare prima illusioni, destinate a convertirsi col tempo in disillusioni e frustrazioni.
Teodoro Klitsche de la Grange
NOTE
(1) “Anche per altri impiegati esiste già qualcosa di simile. Non dobbiamo dimenticare che per i dipendenti dello Stato, i quali esplicano la funzione giurisdizionale, cioè per i magistrati, per i cancellieri e per gli stessi ufficiali giudiziari, è stabilita anche oggi la responsabilità personale. Lo stesso principio vale per taluni organi dell’Amministrazione finanziaria, come i conservatori dei registri immobiliari” riportato in V. Carullo La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 78. - Torna al testo.
(2) “la responsabilità dello Stato non si ammetteva in passato per varie ragioni e soprattutto perché si diceva che lo Stato, essenzialmente ispirato al diritto, non poteva commettere atti tali da far sorgere una responsabilità. Si è arrivati a fare la distinzione tra la personalità giuridica pubblica dello Stato, tra il fisco e lo Stato propriamente detto, e si ammetteva la responsabilità dello Stato in quanto fisco, mentre la si escludeva in quanto esso agisse quale persona giuridica pubblica... Si arrivò in tal modo ad ammettere questa responsabilità della pubblica Amministrazione e vi si arrivò ritenendo che gli organi dello Stato esplichino attività pubblica e che questa attività è pubblica e resta attività dello Stato, anche se viziata. Si pensò quindi che gli atti, rimanendo sempre atti statali e in particolare rimanendo atti amministrativi, dovevano far sorgere quell’obbligo di risarcire i danni derivanti dal proprio operato in cui consiste in fondo la responsabilità.
Fatto questo passo, che portò a riconoscere, in linea generale, la responsabilità della pubblica Amministrazione, si giunse a concludere che, anche nei confronti dei pubblici impiegati, doveva ammettersi il principio della responsabilità e l’obbligo di risarcire i danni derivanti dalla loro attività. Senonché, questo obbligo incombeva non sopra un singolo dipendente dallo Stato, almeno per quanto riguarda i terzi, ma sulla stessa Amministrazione. Gli impiegati poi, a loro volta, erano responsabili nei confronti della pubblica Amministrazione per i danni derivanti dalla loro attività” v. Carullo op. cit., pp. 77-78. - Torna al testo.
(3) V. La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino 1904, pp. 8 ss. - Torna al testo.
(4) “Tra le nove o dieci costituzioni che sono state emanate in perpetuo in Francia da sessant’anni in poi, se ne trova una nella quale è detto espressamente che nessun agente amministrativo può essere citato davanti ai tribunali ordinari senza autorizzazione. L’articolo parve tanto bene immaginato che, pur abbattendo la costituzione di cui faceva parte, si ebbe cura di tirarlo fuori dalle rovine, e da allora è sempre stato tenuto con cura al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori usano ancora chiamare il privilegio loro accordato da questo articolo una delle grandi conquiste dell’89; ma in ciò sbagliano, perché, sotto l’antica monarchia, il Governo non aveva meno cura che ai nostri giorni di evitare ai funzionari il fastidio di doversi confessare alla giustizia come semplici cittadini. La sola differenza fondamentale fra le due epoche è questa: prima della Rivoluzione, il governo poteva coprire i propri agenti solo ricorrendo a mezzi illegali e arbitrari, in L’ancien régime et la revolution, trad. di G. Caldeloro, Milano 1981, p. 94. - Torna al testo.
(5) “Tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri, e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente, che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso della sua dissoluzione”. Note sul Macchiavelli Roma 1971 p. 119 v. anche p. 408. - Torna al testo.
(6) “Proporzionalmente così alla popolazione come ai pubblici servizi, lo Stato italiano annovera il maggior numero d’impiegati, specialmente di quelli che hanno mansioni esecutive, triste espressione del nesso indissolubile che è in Italia fra il proletariato intellettuale e il funzionarismo, due escrescenze parassitarie di un organismo debole e lalato”. I servizi pubblici e la XXII legislatura ne Il mezzogiorno e lo Stato italiano Bari 1911 p. 417. - Torna al testo.
(7) “L’Austria ha 160, noi 300 impiegati per ogni cento mila abitanti. – “c’è un professore”, esclamava ironicamente il Carducci, per ogni due italiani”...op. cit. p. 419. - Torna al testo.
(8) Op. cit. p. 422. - Torna al testo.
(9) Op. cit. p. 423. - Torna al testo.
(10) Op. cit p. 424. - Torna al testo.
(11) Op. cit. p. 424 e prosegue “Vassalli un tempo de’ baroni, cui il re aveva delegato i suoi poteri, domani saremmo sudditi di tutte le organizzazioni, le quali esercitino attribuzioni di Stato, e come una volta il re trattava con i baroni, così è facile il Parlamento scenda a patti con i rappresentanti di quelle, nominati, se occorre, con mandato imperativo. Si avvererebbe, in conclusione, l’arguto detto del Tocqueville, che la storia umana rassomigli ad una grande pinacoteca, in cui pochi sono i quadri originali e molte le copie”. - Torna al testo.
(12) Op. cit. p. 429. - Torna al testo.
(13) “Le forme di vita degli impiegati e dei lavoratori dell’amministrazione statale delle miniere e delle ferrovie prussiane non sono in alcun modo sensibilmente diverse da quelle delle grandi imprese capitalistiche private. Esse sono tuttavia meno libere, perché ogni lotta di potere contro una burocrazia statale è senza speranze, e poiché non può essere invocata alcuna istanza che abbia in linea di principio interessi contrari ad essa e alla sua potenza – come invece è possibile fare nei confronti dell’economia privata. Tutta la differenza si ridurrebbe a questo: se il capitalismo privato venisse eliminato, la burocrazia statale dominerebbe da sola. La burocrazia privata e la burocrazia pubblica, che attualmente operano l’una accanto all’altra e, per quanto è possibile, l’una di fronte all’altra – tenendosi quindi pur sempre in certa misura sotto un controllo reciproco – si troverebbero fuse in un’unica gerarchia, ma in forma senza confronto più razionale e perciò più ineluttabile” v. Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Vol. V, Milano 1980, p. 501. - Torna al testo.
(14) Op. cit., p. 501. - Torna al testo.
(15) Op. loc. cit. - Torna al testo.
(16) “Di fronte al fatto fondamentale dell’avanzata inarrestabile della burocratizzazione, il problema delle future forme di organizzazione politica non può essere posto che nei termini seguenti” op. cit., p. 502. - Torna al testo.
(17) V. Silvio Spaventa La giustizia nell’amministrazione, rist. Torino 1949, pp. 66 ss. - Torna al testo.
(18) E’ interessante notare come alcuni di tali caratteri siano comuni all’ordinamento giudiziario degli USA, più che a quelli europei. Il fatto che lì ci sia una magistratura indipendente e nella fu URSS non altrettanto è evidentemente dovuto sia ai condizionamenti sociali e culturali che all’ordinamento complessivo. - Torna al testo.
(19) La traduzione italiana è errata: il senso della frase chiarisce che il “non” è un refuso. V. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto dello Stato, Milano 1949, pp. 303 ss. - Torna al testo.
(20) “Capovolgere nel paese i rapporti di potere effettivi e reali, intervenire nell’esecutivo, intervenire e forgiarlo effettivamente a tal punto che esso non si potesse mai di nuovo contrapporsi alla volontà della nazione – questo era ciò che era importante e ciò che doveva essere realizzato perchè una costituzione scritta potesse avere durata” v. F. Lassalle Überverfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20 p. 13. - Torna al testo.
(21) Non si hanno dati statistici sulle “distribuzione” tra i diversi poteri pubblici di fatti od omissioni generanti la condanna al pagamento degli indennizzi ex legge-Pinto. Ma chi scrive ha la netta impressione che, al riguardo, ciò che potrebbe rientrare nella responsabilità di uffici o singoli magistrati sia una piccola percentuale. - Torna al testo.
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