venerdì 20 maggio 2011

Discorso di Obama al Mondo Arabo - Parte I: Qualcosa di nuovo o aria fritta?

Homepage Egeria - N° 19
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Parla Egeria

Giovedì sera è andato in onda in diretta mondiale l’atteso discorso del presidente americano Obama sul ‘Mondo Arabo’, che troverete tradotto in basso, alla fine di questa premessa. Il discorso arriva in un momento di importanza strategica sullo scacchiere politico internazionale. C’è molta carne al fuoco sia sul fronte mediorientale che su quello nazionale degli Stati Uniti. Facciamo quindi un breve riepilogo della situazione attuale, all’interno della quale si colloca il discorso.

Negli Stati Uniti è iniziata la campagna elettorale per le prossime elezioni presidenziali e per il rinnovo di metà del Parlamento centrale. Obama è appena rientrato nelle grazie dell’elettorato americano dopo il presunto assassinio di bin Laden, come confermano le agenzie di rating della popolarità politica.

Netanyahu in questi giorni sarà a Washington per conferire con Obama. Ma Netanyahu parlerà soprattutto di fronte alla Israel Lobby AIPAC e di fronte al Parlamento americano - ribatezzato ‘Parlamento Sionista’ nell’articolo di Alan Hart che introduce la visita del premier israeliano negli Usa. Sappiamo che negli Stati Uniti ogni leader politico israeliano in visita gode del beneficio di enorme attenzione mediatica, e Netanyahu ha l’obiettivo di dare nuovo lustro all’immagine pubblica seriamente compromessa di Israele. Ci proverà perlomeno sulla scena pubblica americana, vitale per la difesa degli interessi di Israele nel Parlamento americano. Ci riuscirà? Vedremo.

Dall’altra parte del mondo, nel Medio Oriente, la scena politica è in fermento - in particolare sul fronte per la liberazione della Palestina.

Gli israeliani sono allarmati per il forte supporto che ricevono i Palestinesi, mentre Israele rimane sempre più isolata, malgrado le ripetute manifestazioni di servilismo da parte dei nostri governi occidentali. Gli eventi del Nakba Day hanno fornito la prova che la Resistenza Palestinese è più viva che mai, come lo è la solidarietà con i Palestinesi, che aumenta e accelera di giorno in giorno. Ovunque nel mondo.

In occasione del Nakba Day di quest’anno, per la prima volta decine di migliaia di rifugiati palestinesi nel Libano si sono riversati sulle frontiere tra Libano e Israele per la ‘Marcia su Israele’. Si stima fossero circa 70.000 - ma sono stati ricacciati indietro dal fuoco israeliano: 12 morti, centinaia di feriti. I testimoni dicono di avere visto decine di carri armati israeliani in lontananza, ma sembra non siano arrivati nelle immediate vicinanze della frontiera. Un esperto commentava che facessero parte del contingente israeliano sempre in allerta nell’area delle Alture del Golan. Anche oggi, come spesso accade, gli aerei di ricognizione israeliani hanno invaso lo spazio aereo libanese nella parte sud del Libano. Il Libano continua a presentare formali proteste alla Nazioni Unite, che però sembrano sorde da quell’orecchio, come sempre.

Altrettanto è successo alle frontiere tra Siria e Israele - da anni poco pattugliate dalle guardie israeliane, perché niente accadeva. Anche qui tentativi in massa di ‘marciare su Israele’. E anche qui i militari israeliani hanno sparato, ferito, ucciso. Solo un gruppo isolato di Palestinesi siriani ha sfondato le barriere ed è passato in territorio israeliano per ricongiungersi ai compagni e parenti palestinesi che li aspettavano dall’altra parte della frontiera. Un’invasione pacifica in piena regola. Il giorno dopo abbiamo visto i soldati israeliani all’opera per riparare le recinzioni.

E tutto questo mentre nei confronti della Siria è in atto il tentativo da parte di mercenari infiltrati, al soldo dei soliti servizi segreti a noi noti, di provocare una guerra civile per giustificare un intervento della Nato sul modello delle Libia. La Siria rappresenta la principale spina nel fianco per gli israeliani, che ne ambiscono i territori. Non solo, la Siria fa parte di quel gruppo di paesi, insieme a Turchia, Iran e Libano, i cui governi sono apertamente ostili al regime sionista, mentre sappiamo che tutti gli altri regimi arabi hanno stretto un patto di interesse con Washington e Londra per salvaguardare l’egemonia di Israele nella regione. Nel caso della Siria, tuttavia, la Nato non avrà gioco facile. La Russia, alleata della Siria, fa sapere chiaramente che non starà a guardare in silenzio. Si profilerebbe dunque l’eventualità di un conflitto militare che vedrebbe Stati Uniti e Russia schierati pericolosamente su due fronti opposti. Molto pericolosamente, per noi tutti, in Occidente e Medio Oriente.

Per oggi, venerdì 20 maggio, era stata annunciata un’iniziativa dei Palestinesi del Libano: la ‘Marcia dei 100.000 su Israele’.

Sono partititi la mattina presto per la spedizione, ma è già pomeriggio e finora non ci sono ancora aggiornamenti. Israele è in allerta: sente il fiato sul collo degli ‘Arabi’, come i sionisti chiamano collettivamente le popolazioni confinanti, e in particolare i Palestinesi. Il termine ‘Palestinesi’ non viene mai pronunciato pubblicamente in Israele. Oggi abbiamo visto il massiccio dispiego di forze israeliane alle frontiere con Libano e Siria, e forse la ‘Marcia su Israele’ è stata revocata.

In Egitto per il Nakba Day era programmata la ‘Marcia su Gaza’ di decine di migliaia di egiziani, con partenza programmata da Piazza Tahrir, in Cairo - tentativo abortito dalla Giunta Militare al potere, che ha scoraggiato le compagnie di trasporto dal presentarsi all’appuntamento previsto per la partenza verso il Sinai e la località di frontiera Rafah. Per tutta risposta la sera stessa si è scatenata la rivolta di fronte all’ambasciata israeliana nel Cairo.

La folla ha bruciato le bandiere israeliane e ha chiesto ad alta voce l’interruzione dei rapporti diplomatici con Israele. La furia era anche indirizzata ai Colonnelli egiziani, che due settimane prima avevano espresso l’intenzione di ‘riaprire la frontiera con Gaza entro dieci giorni’, ma si erano poi rimangiati la parola. Le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco: 350 feriti, 185 arresti. Anche oggi, venerdì 20, tutti di nuovo in piazza, in Egitto: la rivoluzione continua. Si urla contro Israele, si chiede il rilascio dei prigionieri detenuti illegalmente in custodia militare.

Anche in Giordania un tentativo di ‘Marcia su Israele’ si è concluso nella violenza. Ricordiamo che i cittadini ‘giordani’ sono in realtà Palestinesi di origine: ancora oggi circa il 70% della popolazione è direttamente imparentata con i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. Come sappiamo, la Giordania è territorio sottratto alla Palestina e consegnato alla dinastia degli Hashemiti per fondare uno stato che avrebbe completato l’accerchiamento della popolazione Palestinese in Cisgiordania. Proprio mentre scrivo, vedo sullo schermo le strade della Giordania invase da manifestanti che protestano contro Israele e chiedono - come hanno fatto da mesi ormai - la riunificazione con i Palestinesi della Cisgiordania.
Sulla carta potrà sembrare una ‘missione impossibile’, ma lo sembrava anche la riunificazione delle Germanie nel periodo del Muro di Berlino e della Guerra Fredda.


Ovunque in Palestina, Gaza, Gerusalemme Al Quds, i soldati israeliani hanno sparato sui manifestanti del Nakba Day, sotto gli occhi inorriditi del mondo. Come è successo in altri scontri, anche questa volta i soldati israeliani hanno sparato intenzionalmente perfino sui giornalisti, ferendo alcuni, uccidendo un foto-reporter. Il giorno dopo, i soldati israeliani hanno aperto il fuoco sul corteo funebre che accompagnava uno dei caduti nel suo ultimo viaggio. E anche oggi assistiamo a nuove rappresaglie israeliane nei confronti della popolazione di Gaza, con tanti feriti, sempre solo tra i palestinesi.

In Marocco, Tunisia e Algeria le proteste continuano anche in questi giorni. Niente di ciò che chiedono i cittadini è stato implementato. Al contrario, la repressione da parte dei regimi si è intensificata. Ma il popolo non desiste. Continua a chiedere a gran voce il rispetto dei propri diritti fondamentali e a protestare contro Israele.

E poi c’è il pasticcio della Libia. Era chiaro fin dai primi giorni - fin dall’inganno del black-out mediatico nella Libia e le menzogne propagandate dalla BBC e da Al Jazeera, poi smascherate - cosa sarebbe successo, e perché. E sappiamo che ognuno dei paesi Nato coinvolti nel massacro della Libia ha i propri sporchi fini da perseguire. Quelli di Washington sono gli stessi che persegue ovunque nelle zone con forte presenza di basi militari americane: proiettare il proprio potere imperiale, avere il controllo geo-politico sulla regione, proteggere l’egemonia di Israele nel mondo arabo, e infine indebolire la Cina escludendola dall’accesso diretto al petrolio e ad altre risorse, con gravi conseguenze sull’economia di questa nuova superpotenza, nel tentativo di impedire il sorpasso della Cina sull’America. Prima dell’attacco militare della Nato, erano attivi 30.000 cinesi in Libia, molto operosi, molto rispettosi della popolazione locale, molto apprezzati come partner commerciali. In un articolo di Paul Craig Roberts di alcune settimane fa leggevo che ora il numero di cinesi in Libia si è ridotto a forse un migliaio. E la campagna per escludere la Cina dall’estrazione del petrolio è in atto ovunque in Africa, specie in Sudan.

Nella regione del Golfo Persico le rivolte vengono al momento soffocate - ma non sono affatto sedate.

Fa eccezione il Yemen. Da molti mesi le strade e piazze sono perennemente invase da fiumi di manifestanti. Ogni giorno ci sono tanti morti, perché il dittatore Saleh, stretto alleato del tiranno saudita e di Washington non ha alcuna intenzione di dimettersi, nonostante perfino l’esercito si sia schierato ufficialmente dalla parte dei cittadini. A sparare sui manifestanti sono i mercenari, briganti e teppisti pagati dal multimiliardario Saleh per scoraggiare il popolo - che invece non demorde. In un paese dove più del 50% della popolazione vive nella povertà quasi totale, la determinazione dei cittadini che resistono è quella di chi non ha più niente da perdere.

Nel Bahrein regna il caos totale e la popolazione è precipitata nella disperazione più nera. Le condizioni di persecuzione e vessazione a cui i cittadini sono soggetti, vengono sempre più spesso paragonate a quelle terrificanti di Gaza, con la differenza che il Bahrein fino a qualche mese fa costituiva una società moderna e prosperosa, malgrado l’anacronismo di un governo di stampo oscurantista tribale, contro cui la classe intellettuale del Bahrein lottava senza tregua da anni.

Come abbiamo relazionato in precedenza, quando la rivolta araba iniziava a contagiare l’area del Golfo Persico, la casa reale Saudita si è fatta prendere dal panico e ha invaso il piccolo Bahrein - insieme ad un contingente di altri paesi alleati del Golfo - con lo scopo principale di dare ai cittadini sauditi, e agli altri della regione, una dimostrazione della sorte che sarebbe toccata anche a loro, se avessero insistito con la rivolta appena sul nascere.

Infatti, al momento poco succede nelle strade e piazze dell’Arabia Saudita, dell’Oman, del Kuwait, del Qatar - nonostante gli iniziali tentativi di insurrezione. La ‘lezione’ inflitta al Bahrein sembra avere raggiunto lo scopo - almeno per ora. Ma vedo ogni giorno piccole sacche di rivolta in Arabia Saudita (e oggi anche nel Kuwait). Un giorno si manifesta in una città, il giorno dopo in un'altra, distante centinaia di miglia. Il messaggio è questo: non siamo scoraggiati, ci stiamo organizzando, alla fine vinceremo, malgrado tutti i vostri sforzi di reprimerci.

Il Bahrein, tra tutti i paesi del Golfo, è un capitolo a parte, una nuova ‘Gaza’, militarmente occupata, accerchiata, saccheggiata, distrutta. Una società smantellata, sfaldata, decimata. Con la popolazione perseguitata, arrestata, torturata, umiliata. E tutto questo avviene sotto gli occhi di 5.000 soldati della 5a Flotta della Marina Militare americana, di stanza permanente nel Golfo Persico, con quartier generale nella capitale del Bahrein, Manama. Sono loro i tre grandi complici della regione: Washington, i reali Sauditi, e i reali del Bahrein che permettono il genocidio e la tortura sistematica dei propri cittadini.

Termino questo riepilogo della situazione nel Mondo Arabo - oggetto del discorso di Obama - illustrando due episodi, due iniziative di grande spessore umano, passate quasi inosservate mentre accadevano i fatti del Nakba Day.

Nave malese per Gaza

Una nave proveniente dalla Malesia era in viaggio con destinazione Gaza. Portava a bordo una carico enorme di tubature, che dovevano servire per ricostruire il sistema fognario di Gaza che, come sappiamo, è quasi totalmente distrutto. In Gaza le fogne sono a cielo aperto e sono causa di tante malattie soprattutto tra i bambini. Il gruppo di attivisti internazionali che accompagnava il carico aveva scelto di non fare molta pubblicità sulla spedizione, nella speranza che la marina militare israeliana avrebbe permesso alla nave di attraccare e al carico di arrivare in Gaza. Non è andata così. Israele non si è smentita: la marina militare ha sparato colpi di avvertimento e in seguito, viste le intenzioni della nave di proseguire verso Gaza, ha aperto il fuoco e costretto la nave a cambiare rotta.

Nave iraniana per il Bahrein

Sempre nel giorno del Nakba Day è partita la prima spedizione via mare diretta al Bahrein. Sembra proprio che nel Bahrein vedremo una ripetizione dello scenario di Gaza. E non è sorprendente: la repressione messa in atto nei confronti della popolazione segue alla lettera il modello sionista, come illustrato nei miei post precedenti sul Bahrein.
L’iniziativa in questo caso è stata dell’Iran - il tanto vituperato Iran, l’unico paese, finora, ad esporsi apertamente in favore del Bahrein, il coraggioso Iran che decenni fa si è rivoltato contro il potere arrogante dell’Impero, subendo le conseguenze dell’embargo economico. Il coraggioso Iran che denuncia pubblicamente i crimini di Israele. La nave con destinazione Bahrein è partita il 15 maggio. I passeggeri a bordo, uomini, donne, bambini, sapevano che non avrebbero avuto il permesso di attraccare ma, nelle parole del portavoce «l’intenzione è quella di avvicinarci il più possibile alle rive del Bahrein e di esprimere la nostra solidarietà alla popolazione assediata, con la nostra vicinanza fisica». È incredibile che nel terzo millennio siamo ancora costretti a vedere scene di questo tipo.

Vediamo cosa dice Obama, che parla anche del Bahrein nel suo discorso, e ovviamente della questione Palestinese. Non anticipo niente e non commento. Magari in seguito - in altro post, pubblicherò le analisi degli esperti, quelle più interessanti.

Visto che si tratta di un discorso molto lungo, abbiamo pensato di dividerlo in due parti. La questione Palestinese viene affrontata solo nella 2a parte, che sarà pubblicata appena terminata la traduzione.


Discorso di Obama al Mondo Arabo,
19 Maggio 2011

Parte 1a

Il discorso di Obama veniva trasmesso dalla sede del ministero degli esteri, istituzione nelle mani di Hillary, a cui Obama ha tributato un omaggio nell’apertura del discorso, dichiarando che la lady passerà alla storia come la migliore tra i ministri degli esteri che l'America abbia avuto.

"Da mesi assistiamo ad un cambiamento straordinario nel Medio Oriente e nel Nord Africa. I popoli si rivoltano e chiedono il rispetto dei loro diritti fondamentali. Due capi di governo si sono dimessi. Altri potrebbero dimettersi. E anche se terre e mari separano l’America fisicamente da questi paesi, sappiamo che il nostro futuro è legato alla regione dalle forze dell’economia e della sicurezza, dalla storia e dalla fede.

Oggi vorrei parlare di questo cambiamento, delle forze che lo sospingono, e su come noi possiamo rispondere allo scopo di avanzare i nostri valori e rafforzare la nostra sicurezza. Abbiamo già fatto molto per modificare le nostre politiche estere in seguito a un decennio caratterizzato da due conflitti costosi. Dopo anni di guerra in Iraq, abbiamo ritirato 100.000 soldati americani e abbiamo interrotto i combattimenti. In Afghanistan abbiamo spezzato il predominio dei Talebani, e in luglio di quest’anno inizieremo a portare i nostri soldati a casa e continueremo col trasferire il potere al governo afgano. E dopo anni di guerra contro al Qaeda e i suoi affiliati, abbiamo inflitto ad al Qaeda un colpo decisivo uccidendo il suo leader – Osama bin Laden.

Bin Laden non è un martire. Era un uomo colpevole di uccisioni in massa che offriva un messaggio di odio – insistendo che fosse dovere dei Musulmani combattere una lotta armata contro l’Occidente, e che la violenza contro uomini, donne e bambini fosse l’unica via per un cambiamento. Rigettava la democrazia e i diritti individuali per i Musulmani in favore dell’estremismo violento; la sua strategia si indirizzava a ciò che poteva distruggere, non costruire.

Bin Laden e la sua visione omicida gli hanno procurato qualche seguace. Ma perfino prima della sua morte, al Qaeda stava perdendo terreno, perché la maggioranza della gente vedeva che la strage di innocenti non era una risposta alle loro esigenze per una vita migliore. Quando abbiamo trovato Bin Laden, la sua causa veniva già vista dalla maggioranza nella regione come una causa senza sbocco, e la gente del Medio Oriente e del Nord Africa aveva già preso il futuro nelle proprie mani.

Il processo dell’auto-determinazione era iniziato mesi fa in Tunisia. Il 17 dicembre un giovane venditore ambulante, Mohammed Bouazizi si sentì devastato quando una (donna) agente di polizia (lo aveva schiaffeggiato) e aveva confiscato la sua bancarella. Questo non è un caso isolato. Si tratta dello stesso tipo di umiliazione che tanti subiscono ogni giorno, in molte parti del mondo, sotto la tirannia di governi che negano la dignità ai propri cittadini. Solo che questa volta è andata diversamente. Dopo che le autorità locali si sono rifiutate di accogliere la sua denuncia, quest’uomo è andato alla sede del governo provinciale, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco.

A volte, nel corso della storia, le azioni di comuni cittadini scatenano movimenti rivoluzionari perché rispecchiano le aspirazioni di libertà represse per anni. Tutti ricordiamo il caso di Rosa Parks, qui in America, che ha coraggiosamente occupato quel posto sull’autobus (innescando la rivolta non violenta degli afro-americani contro la segregazione razziale). Altrettanto, l’episodio in Tunisia ha toccato la frustrazione di molti nell’intero paese. E nonostante i manganelli e gli spari delle forze dell’ordine, i manifestanti si sono rifiutati di lasciare le piazze – giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, finché un dittatore al potere da decenni ha ceduto e si è dimesso.

La storia di questa rivoluzione, e di quelle che seguirono, non dovrebbero sorprenderci. Le nazioni del Medio Oriente e del Nord Africa hanno ottenuto la propria indipendenza molto tempo fa, ma non è stato lo stesso per i tutti i cittadini. In troppi paesi il potere si è concentrato nelle mani di pochi. In troppi paesi, un cittadino come il venditore tunisino non trova organismi a cui rivolgersi, o magistrati onesti disposti ad ascoltarlo, o media disposti a dargli voce, o partiti politici disposti a rappresentare le sue esigenze, o libere elezioni in cui scegliere i propri rappresentanti.

Questa carenza di auto-determinazione – l’impossibilità di perseguire le proprie aspirazioni – è rispecchiata e si riflette sullo stato dell’economia. Sì, alcune nazioni godono della presenza di gas e petrolio, e ciò ha portato a sacche di prosperità. Ma in una economia globale, basata sul sapere e sull’innovazione, nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che si estrae dal suolo. Né possono i cittadini raggiungere il proprio potenziale se non possono perseguire un’attività senza pagare il pizzo.

Molti dei capi di governo nella regione, invece di impegnarsi a risolvere i problemi, hanno indirizzato la rabbia dei cittadini altrove: l’Occidente veniva etichettato come fonte di ogni male, a distanza di mezzo secolo dalla fine del colonialismo. L’antagonismo ad Israele diventava l’unico argomento affrontato in politica. Differenze tribali, etniche e religiose venivano manipolate come mezzo per mantenere il potere – o per toglierlo ad altri.

Ma gli eventi degli ultimi mesi provano che le strategie della repressione e della distrazione non funzionano più. La televisione satellitare e internet forniscono una finestra sul mondo - un mondo di progresso sorprendente in paesi come l’India, l’Indonesia, il Brasile. I cellulari e i social network permettono alle persone di contattarsi e organizzarsi come mai in passato. Una nuova generazione è emersa. E quelle voci ci dicono che il cambiamento non può più essere negato.

Nel Cairo abbiamo sentito la voce di quella giovane madre che diceva «Mi sento come se respirassi aria fresca per la prima volta».

In Sana’a (Yemen) abbiamo sentito gli studenti gridare slogan come «La notte dovrà terminare alla fine».

In Benghazi abbiamo sentito un ingegnere esclamare «Le nostre parole sono libere finalmente. È una sensazione indescrivibile».

In Damasco abbiamo sentito un ragazzo che diceva «Quando cominci a urlare, a gridare, finalmente senti di avere una dignità».

Quelle grida di dignità umana si sentono nell’intera regione. E per mezzo della forza morale della non-violenza, le genti della regione hanno operato più cambiamenti in sei mesi di quanto i terroristi abbiano ottenuto in decenni.

È chiaro che cambiamenti di questa entità non avvengono con facilità. Nell’era della comunicazione immediata la gente si aspetterà forse che le cose si risolvano nel giro di settimane. Ma ci vorranno anni prima che queste rivoluzioni raggiungano lo scopo desiderato. Durante il cammino, ci saranno giorni belli e giorni brutti. In alcuni luoghi, il cambiamento sarà veloce - in altri sarà graduale. E come abbiamo visto, gli appelli per un cambiamento possono scatenare feroci conflitti di potere.

La domanda che si impone alla nostra attenzione è questa: che ruolo giocherà l’America nella storia in corso? Per decenni gli Stati Uniti hanno perseguito una serie di interessi chiave nella regione: combattere il terrorismo e impedire la proliferazione nucleare; garantire il libero flusso del commercio e salvaguardare la sicurezza della regione; impegnarsi per la sicurezza di Israele e perseguire il processo di pace arabo-israeliano.

Continueremo a perseguire questi obiettivi, con la ferma convinzione che gli interessi dell’America non sono in conflitto con le aspirazioni delle popolazioni - al contrario, sono essenziali anche per loro. Siamo dell’avviso che nessuno possa beneficiare da una corsa agli armamenti nucleari nella regione, o dagli attacchi brutali di al Qaeda. Ovunque la gente assisterebbe ad un declino economico dovuto al taglio delle forniture di energia. Come abbiamo fatto nel caso della Guerra del Golfo (nel 1991, dopo che Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait), non tollereremo aggressioni attraverso le frontiere, e manterremo i nostri impegni con amici e alleati.

Ma dobbiamo anche riconoscere, che una strategia basata esclusivamente su questi interessi non è sufficiente a riempire il piatto della gente o a permettere alle persone di esprimere le proprie opinioni. Inoltre, se il nostro agire non corrisponderà alle aspirazioni della gente comune, si alimenterà il sospetto - da anni coltivato - che gli Stati Uniti perseguono i propri interessi a spese delle genti. Tuttavia c’è molta diffidenza anche dall’altra parte. Gli americani hanno subìto sequestri di persone, retorica violenta, e attacchi terroristici che hanno ucciso molti dei nostri cittadini. Se falliremo nel tentativo di cambiare approccio, il rischio sarà quello di allargare la frattura tra gli Stati Uniti e le comunità musulmane.

Ecco perché due anni fa in Cairo ho iniziato ad allargare il nostro impegno sulla base degli interessi comuni e del rispetto reciproco. Come allora, è anche oggi mia ferma convinzione che è nell’interesse di tutti perseguire non solo la stabilità delle nazioni, ma anche l’auto-determinazione individuale. Lo status quo non è sostenibile. Quelle società che stanno in piedi solo per mezzo di strategie della paura e della repressione possono, sì, offrire l’illusione di stabilità per qualche tempo, ma sono costruite su faglie che prima o poi diventeranno voragini.

Siamo di fronte ad un’occasione storica. Abbiamo abbracciato l’opportunità di dimostrare che l’America attribuisce più valore alla dignità del venditore ambulante in Tunisia che al potere assoluto di un dittatore. Non devono esserci dubbi che gli Stati Uniti accolgono con favore cambiamenti che favoriscono l’auto-determinazione e l’opportunità. Sì, la nostra apertura ci esporrà forse a nuovi pericoli. Ma dopo decenni dell’accettare la realtà della regione per quella che è, abbiamo l’opportunità di perseguire la realtà per come dovrebbe essere.

E nel perseguire questo obiettivo, dobbiamo procedere con un senso di umiltà. Non è l’America che ha spinto la gente nelle piazze a manifestare, a Tunisi e nel Cairo – sono state le popolazioni stesse a lanciare questi movimenti e saranno loro a determinarne l’esito. Non ogni singolo paese avrà l’intenzione di implementare una forma di democrazia simile alla nostra, e ci saranno momenti in cui i nostri interessi immediati non troveranno perfetta coincidenza. Ma possiamo impegnarci per un approccio basato sui valori che hanno guidato il nostro modo di rispondere agli eventi degli ultimi sei mesi.

Gli Stati Uniti sono contrari all’uso di violenza e repressione contro i popoli della regione. Gli Stati Uniti difendono i diritti universali. Questi diritti comprendono la libertà di espressione; la libertà alla manifestazione pacifica; la libertà di culto; l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge; e il diritto di eleggere i propri governi – e valgono ovunque: a Baghdad come a Damasco; a Sana’a come a Tehran.

E infine supportiamo riforme politiche ed economiche nel Medio Oriente e nel Nord Africa che corrispondano alle aspirazioni legittime della gente comune nell’intera regione.

Il nostro supporto per tali principi non è cosa secondaria. Confermo qui oggi che si tratta di un aspetto prioritario che va tradotto in azioni concrete e va sostenuto mediante tutti gli strumenti diplomatici, economici e strategici a nostra disposizione.

Sarò più specifico. Per prima cosa, è intenzione degli Stati Uniti di promuovere riforme nell’intera regione, e di supportare la transizione verso la democrazia.

Questi sforzi inizieranno in Egitto e Tunisia, dove la posta in gioco è alta. La Tunisia è stata l’avamposto di questo movimento democratico, e l’Egitto è un alleato di lunga data e anche la nazione più popolosa nel mondo arabo. Le due nazioni possono dare un esempio importante mediante elezioni libere e oneste, implementando una società civile, con istituzioni democratiche ed efficaci, e una leadership responsabile. Ma il nostro supporto deve estendersi anche alle nazioni in cui la transizione deve ancora iniziare.

Purtroppo, in troppi paesi, le richieste per un cambiamento sono state soffocate con la violenza. L’esempio più estremo è la Libia, dove Gaddafi è entrato in guerra contro il suo stesso popolo, promettendo che li avrebbe cacciati come ratti. Come ho detto quando gli USA si sono uniti ad una coalizione per intervenire, non possiamo combattere ogni singola ingiustizia perpetrata da un regime contro il suo popolo, e abbiamo imparato dall’esperienza dell’Iraq quanto sia costoso e difficile imporre un cambio di regime con la forza – anche quando siamo motivati da buone intenzioni.

Ma in Libia si prospettava un massacro imminente. Abbiamo ascoltato la richiesta di aiuto dei cittadini libici, e abbiamo ricevuto un mandato per agire. Se non avessimo agito insieme ai nostri alleati della NATO e della regione, migliaia sarebbero stati uccisi. Ma ora Gaddafi non ha più il controllo sul paese. L’opposizione ha creato un Consiglio ad interim, legittimo e credibile. E quando Gaddafi inevitabilmente se ne andrà o sarà costretto ad abbandonare il potere, sarà la fine di decenni di provocazione, e ci sarà la transizione verso una Libia democratica.

Mentre è vero che la violenza in Libia è stata la più feroce, è anche vero che ci sono altri paesi in cui i capi di governo hanno usato la repressione per rimanere al potere. In tempi recenti il regime al governo in Siria ha scelto di uccidere e arrestare i cittadini in massa. Gli Stati Uniti hanno condannato queste azioni. In collaborazione con la comunità internazionale abbiamo imposto sanzioni nei confronti del regime siriano e del presidente Assad.

I cittadini siriani hanno mostrato coraggio nel chiedere condizioni democratiche. Ora il presidente Assad deve scegliere: guidare il paese verso la democrazia, oppure togliere il disturbo. Il governo siriano deve smettere di sparare sui manifestanti pacifici e deve permettere proteste pacifiche; deve liberare i prigionieri politici e mettere fine agli arresti ingiusti; deve permettere agli osservatori per i diritti umani l’accesso a città come Dara’a; e iniziare un dialogo finalizzato alla transizione democratica. Altrimenti il presidente Assad continuerà ad essere sfidato dall’interno e isolato dall’esterno.

Finora la Siria ha seguito il suo alleato iraniano, chiedendo assistenza a Tehran per le tattiche di soppressione. Questo è prova dell’ipocrisia del regime iraniano, che si dichiara in favore dei diritti di protestare in altri paesi, ma sopprime i propri cittadini - (c’è un’incongruenza, qui, di cui Obama non si è accorto, a quanto pare, n.d.t.). Non dimentichiamo che le prime proteste pacifiche sono iniziate proprio a Tehran, dove poi il governo ha brutalizzato i manifestanti, uomini e donne, e ha messo in carcere persone innocenti. Possiamo ancora sentire l’eco delle grida nelle strade di Tehran. L’immagine della ragazza morta in strada è ancora fresca nella nostra memoria. E continueremo ad insistere che il popolo iraniano merita il riconoscimento dei suoi diritti umani e un governo che non soffochi le sue aspirazioni.

La nostra opposizione all’intolleranza dell’Iran, al suo programma nucleare illecito e al suo appoggio per il terrorismo, è ben nota. Ma se l’America vuole godere di credibilità, dobbiamo riconoscere che i nostri amici nella regione non hanno tutti accolto le richieste per quelle condizioni democratiche che ho illustrato oggi. Questo vale per il Yemen, dove il presidente Saleh deve dare seguito alla necessità di trasferire il potere. E questo vale per il Bahrein.

Il Bahrein è un nostro alleato di lunga data, e ci impegniamo per la sua sicurezza. Vediamo che l’Iran ha tentato di trarre vantaggio dalle agitazioni nel Bahrein, e che il governo del Bahrein ha un legittimo diritto a fare rispettare la legge. Nonostante ciò, abbiamo insistito in pubblico e in privato, che arresti di massa e forza bruta sono contrari ai diritti universali dei cittadini del Bahrein, e non potranno soffocare le legittime richieste per riforme. L’unica soluzione è quella del dialogo tra governo e opposizione. Il governo deve creare le condizioni per il dialogo, e l’opposizione deve partecipare nel forgiare un futuro di giustizia per tutti i cittadini." ...

Fine 1a Parte
... continua ...

2 commenti:

Giorgio ha detto...

La cosa che mi ha sorpreso di più, di primo acchito, è stat la dichiarazione di Obama al ritorno dei confini del '67, ma riflettendo un attimo non c'era motivo di esaltarsi, per il semplice fatto che la risposta Obama già la conosceva, quindi la domanda da porsi è: qual è il vero motivo della dichiarazione? Quali sono i perché che hanno spinto Obama a fare una tale offesa al suo diretto collaboratore (padrone)? Sapendo che ogni Presidente americano prima del solenne giuramento ne fà un altro più importante davanti all'AIPAC e al suo controllore occlto, il B'nei B'rith, di essere sempre al servizio sionista, un sentimento di grande inquietudine aleggia nell'aria.

boris ha detto...

Bin Laden era un terrorista che ha ammazato 3000 americani(secondo loro) e meritava di essere giustiziato(sempre secondo usa).OK uno che amazza 3000 persone non e un tipo "per bene" fin qui ci siamo.
Bush e il negretto hanno amazzato 1.500.000 UN MILLIONE CINQUE CENTO MILA(almeno)Irakeni,Afgani,Pakistani e unpo degli altri,pero loro non sono ne terroristi ne assassini,no loro sono diffensori della liberta e democrazia.PORCA PUTTANA IN CHE MONDO DI MERDA VIVIAMO.