Quali contemporanei ci confrontiamo quotidianamente con la tecnica – e ancor più col progresso tecnico – che ci cambia la vita sotto ogni aspetto. Dalla comunicazione alla salute, dalle abitudini al lavoro e al tempo libero.
Questo saggio ne cura in particolare uno, quello decisivo, il rapporto tra tecnica e potere e come quella condizionasse questo, agevolandone l’opera o sovvertendolo.
Partendo dalla sua ineluttabilità. Scrive l’autore che non vi è cura per la tecnica, perché fa parte del modo di esistenza umano, è un fare produttivo: “la tecnica costituisce l’essere umano e la stessa storia della specie umana, ma è anche capace di minacciare l’umanità”. Ciò perché è “neutra” nel senso che non determina i fini, ma è un mezzo: può servire a fare antibiotici come la bomba atomica: “La tecnica è indispensabile ma non è neutra, non può esserlo – e quindi non è possibile una tecnocrazia: il kratos non è della tecnica ma di chi la produce e la impiega. La tecnica è sempre trascinata all’interno di polarità e conflitti, storici ed intellettuali: fra politica e burocrazia, fra azione e fabbricazione, fra tradizione e progresso”.
Per orientarsi sul tema Galli propone due coordinate essenziali: la prima che la tecnica va pensata come azione orientata all’utilità, cioè al profitto e alla potenza; “La seconda è che il pensiero si forma attraverso il fare, che esige la relazione col pensato, ma al tempo stesso il pensiero trascende il pensato se non altro perché è capace di pensare sé stesso e la propria origine. Il pensiero non è disincarnato ma anzi è «concreto»”.
La connessone con la politica e l’economia fa si che ci sia sempre una politica (e una geopolitica) della tecnica. Perché nella tecnica “non c’è solo l’elemento strumentale: vi sono compresi anche il Saper fare, il Voler fare, il Poter fare. Ovvero, nella tecnica sono presenti fattori epistemologici, economici, politici”. La coessenzialità di tecnica e natura umana è nel costruire ma anche nel criticare, nel co-determinare le azioni umane; implica che la “tecnica è necessaria alla definizione dell’umanità, ma non è sufficiente. La ragione tecnica è un universale parziale, ovvero non è tutta la ragione: c’è un’eccedenza, ed è il pensiero che pensa quella ragione”.
Un pensiero interessato, ma non solo strumentale che ri-orienta l’azione. A questo è dedicato il terzo capitolo in cui Galli mostra “i molti modi con cui la filosofia ha messo in rapporto la tecnica, il sapere e l’agire, la realtà naturale e l’artificio, e con cui ha reagito alla moderna esondazione della tecnica, estesa a ogni ambito della società e delle mentalità”; con soluzioni che vanno “dal massimo di estraneità fra teoria e fabbricazione, quindi, fino al massimo di immanenza”. Il libro conclude con due tesi. La prima è che il dominio che si realizza “non è della sola tecnica come strumentale fabbricazione: è dominio di una forma concreta, storica, di combinazione fra sapere pratico, politica, economia, comunicazione. Quando ci accorgiamo di servire la tecnica e il suo nichilismo, o i suoi simulacri, possiamo quindi capire che stiamo servendo il profitto o la potenza di qualcuno: non è l’impersonale ma persone”.
La seconda, collegata alla prima è che così esiste “lo spazio della critica e la possibilità dell’agire politico, che vada al di là di quel fabbricare che ci sta fabbricando”. E Galli prosegue: “Quelle due tesi, combinate, sono insomma un invito alla «critica della tecnica»… Una critica realistica (un «realismo critico») che esige capacità di vedere le contraddizioni tra universalità e parzialità, fra progresso e dominio… la cui esistenza e consistenza è il vero problema – non tanto dalla tecnica quanto dalle coazioni del sistema sociopolitico di cui questa è l’espressione storica concreta”.
Due notazioni del recensore a margine di un saggio esauriente e attuale.
La prima: a differenza delle concezioni tecnocratiche, non c’è soluzione tecnica valida a prescindere dai fini cui è indirizzata. Cioè buona, auspicabile, voluta (da chi i fini determinava). Il che significa che i presupposti del politico (comando/obbedienza; pubblico/privato; amico/nemico) rimangono immutati e pure se condizionati dalla tecnica, non se sono detronizzati.
La seconda che perciò non c’è una tecnocrazia quale forma politica (come monarchia, aristocrazia, democrazia); c’è una conformazione dell’organizzazione pubblica alla novità delle situazioni, tra cui – numerosissime – quelle risultanti dallo sviluppo tecnico. La contraria convinzione già criticata da Croce con ironia è costantemente smentita dal fatto – peraltro energicamente sostenuto da Galli – che è sempre un “modello”, a servizio di un potere (a cui risponde). E che sotto una apparente oggettività finisce per conculcare la soggettività degli individui e delle loro formazioni sociali, con il tramonto di ogni libera prospettiva di un mondo di cui questi abbiano “piena comprensione e responsabilità”.

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