giovedì 24 marzo 2011

Teodoro Klitsche de la Grange: Risorgimento e guerra civile

Homepage di T.K.
Il testo che segue di Teodoro Klitsche de la Grange è la relazione che verrà letta ad un convegno di due giorni per il prossimo 8 e 9 aprile 2011, che avrà luogo il primo giorno alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma La Sapienza ed il secondo giorno nel comune di Tolfa. Se confrontiamo questa relazione, con gli innumerevoli libri che sono stati scritti sul nostro Risorgimento, è – possibile a mio avviso – cogliere un’aria nuova. Per non parlare poi della retorica e noia infinita che il tema suscita in noi, anche quando non vogliamo ammetterlo. Se ci interroghiamo sul perché di tanta noia, riconosciamo come, a ben vedere, il ruolo di uno storico “ufficiale” o “apologetico" è poco diverso da quello di un giornalista “embedded” dei nostri giorni: non di rado e non a caso vi è una intercambiabilità dei ruoli. Il giornalista si mette a scrivere libri di storia e lo storico presta la sua penna ai giornali.

Lo stesso concetto è espresso dalla nota e ricorrente affermazione, secondo cui la storia è scritta dai vincitori, che dispongono di tutte le fonti accessibili e di finanziamenti illimitati, per costose pubblicazioni. Nello stesso tempo si reprimono o si mettono ai margini tutte le voci che presentano una diversa interpretazione e narrazione dei fatti. Se oggi a 150 anni dall’Unità d’Italia non sembrano esserci pericoli, nel rivisitare criticamente quegli anni e quegli eventi, che portarono all’Unificazione di cui oggi in molti dicono male, la stessa cosa non può dirsi per la nostra storia recente, italiana ed europea. Le carceri europee brulicano di pericolosi “criminali”, di null’altro rei che di avere una diversa opinione e una diversa visione dei fatti storici.

L’allusione non ha bisogno di delucidazioni, che non vogliamo qui rendere esplicite, per non aprire troppo ampie digressioni, allontanandoci dal tema specifico del Risorgimento. Il bisogno di una sua rivisitazione e di un suo ripensamento critico è largamente sentito e tollerato. Per poterla salvare, occorre rifare quell’Italia che fu fatta assai male e di cui paghiamo ancora le conseguenze, mentre la dimensione nazionale diventa sempre più angusta e non si intravede una seria unificazione continentale, fallita tutte le volte che fu tentata con la “spada del diavolo", ma che stiamo ancora attendendo invano dalla “spada di dio”.

Non possiamo però stancarci nel perseguimento dell’obiettivo. È un dovere postumo che abbiamo verso i nostri padri, avi e bisavoli. Su un piano meramente editoriale e redazionale, annunciamo perciò ai Lettori di “Civium Libertas” che ci accingiamo, proprio da domani, ad esplorare direttamente tutto l’archivio storico del cosiddetto Brigantaggio. Ne ripubblicheremo, in versione originale, direttamente dalla fonte, tutti i documenti che ci parranno di particolare interesse. Per non appesantire “Civium Libertas” con una tematica forse troppo specialistica ci avvarremo degli altri nostri blogs tematici, la cui esistenza sembra dare fastidio a qualche giornalista embedded. Opportuni link segnaleranno ai Lettori interessati il nostro piano di edizione ed i relativi approfondimenti.


Ed ecco, manco a farlo apposta, l’Archivio Storico dell’Esercito, che conserva tutte le carte del “brigantaggio” ci offre subito, al primo spoglio del brigantaggio calabrese, un documento dove i “malandrini” calabresi della Sila affrontano le truppe piemontesi, innalzando il Tricolore, ma… al grido di “Francesco II° re costituzionale”. Diamine! Quanta sarebbe stata diversa un’Italia resa unita sotto il Regno delle Due Sicilie, già il più vasto e popoloso d’Italia, piuttosto che colonizzata dal re sabaudo, che barattò la sua avita Savoia e si dimostrò fellone fino all’ultimo. Come possiamo dire che i “malandrini” calabresi non avessero allora avuto senso politico? Se questo è il primo assaggio che ci offrono le carte sul “brigantaggio”, conviene forse lasciar stare i libri editi ed affaticare la vista su inchiostri che si vanno sbiadendo, bastandoci poche righe come quelle qui riportate in luogo di intere biblioteche con i loro piombi di stampa. - Rif. archivistico del documento parzialmente riprodotto: Archivio Storico dell’Esercito, Roma, Via Lepanto, Segnatura: G 11, Brigantaggio, 1861, Calabrie, Div. militare Catanzaro, Generale Brunetta, Brigata Pisa, 29° regg. Fanteria, 29°-32° batt. Bersaglieri, Vol. XIV, Pagina 27.

CIVIUM LIBERTAS

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RISORGIMENTO E GUERRA CIVILE

Sette tesi per ripensare il passato ed il presente
nella storia d’Italia

di

Teodoro Klitsche de la Grange

Le tesi: La rivincita del revisionismo storico nella storia del Risorgimento italiano. – 2. Gli infausti momenti della costruzione dello stato unitario. – 3. L’impianto ideologico della circolare Ricasoli. – 4. La negazione in Ricasoli del carattere politico del brigantaggio. – 5. Differenti concezioni della legittimità possibile. – 6. Gli italiani che non divennero tali. – 7. La costante della guerra civile nella storia d’Italia. - Postille: 1. Un problema di definizione. – 2. Nemico e integrazione. – Appendice: 1. La Circolare Ricasoli del 24 agosto 1961. – 2. Lettera di un Napoletano al Signor Ricasoli. –

1.

La rivincita del revisionismo storico
nella storia del Risorgimento italiano


Un amico, proprietario di una bella (e storica) libreria di Roma mi ha raccontato che in questo anniversario quasi tutti i libri sul Risorgimento che vende sono quelli “revisionisti”. In particolare due, caratterizzati dalla critica all’annessione del Regno delle due Sicilie, pubblicati dai maggiori editori italiani, mentre, fino a un paio d’anni or sono, opere di taglio simile erano appannaggio dell’editoria di “nicchia”.

Tale dato fa riflettere, al di là della prima spiegazione che ne viene alla mente: che dopo tanta agiografia e retorica risorgimentale, per avvertire una notizia che sia tale – cioè “nuova” – occorre rifarsi ai vinti del Risorgimento.

E’, in altri termini, la rivincita mediatica del Cardinale Ruffo sulla Pimentel, di Francesco II° su Garibaldi, di Chiavone su Cialdini.

Ma fornisce lo spunto per altre considerazioni, meno legate agli usi della società della comunicazione (e dello spettacolo); e che vado (brevemente) a fare. Scusandomi se, essendo giurista e studioso di politica, non ho né metodo, né capacità di storico. E quindi quello che sto per dire è naturalmente limitato nell’angolo visuale.

Ciò che mi colpisce di più del Risorgimento – latamente inteso, cioè a partire dalla Rivoluzione francese al compiersi dell’unità – e, più in là, in un certo senso, fino ad oggi, sono:

a) il fatto che si sia realizzato a prezzo di guerre civili sanguinose; fatto peraltro normale, perché quasi tutti gli Stati “nuovi” nascono da conflitti bellici; meno frequente che siano guerre civili.

b) e che tali guerre siano state negate, minimizzate, e sostanzialmente rimosse dalla “biografia della nazione”. Questa è stata un’operazione perseguita con un rigore, una determinazione, una costanza inconsueta in questo paese. E ciò pour cause. Scuole, istituzioni culturali, editoria, mezzi di comunicazione vi hanno contribuito. A me studente liceale presso il Pontificio Istituto Sant’Apollinare – che per comprensibili motivi avrebbe potuto non essere così propenso a minimizzare certi momenti (e movimenti) storici – non era agevole percepire che nel 1799 il mezzogiorno d’Italia si era liberato da solo (è stato l’unico caso nella storia dell’Italia moderna) dall’occupazione francese creando anche una figura storica “di successo” della storia e della politica contemporanea, cioè il moderno partigiano (1); che Giuseppe Bonaparte e Murat avevano sudato sette camice per sconfiggere il brigantaggio filoborbonico in particolare in Calabria (durato dal 1806 al 1810); che la repressione del brigantaggio successivo all’unità era durata circa dieci anni, aveva richiesto l’opera di quasi metà dell’esercito italiano ed era costato alle due parti diverse decine di migliaia di morti.

c) Quindi, diversamente dal lessico impiegato (che ricorda quello contemporaneo sulle cosiddette operazioni di “polizia internazionale”) non si trattava di operazioni di polizia, di repressione di criminalità, come suggerito, in particolare, dalla parola briganti, ma di vere guerre civili (e partigiane). Delle quali avevano tutte le caratteristiche, comprese le peggiori.

Montherlant in un suo dramma metteva in scena la guerra civile facendola così presentare:
“io sono la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro il nemico. Io sono la Guerra Civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”.
In effetti la guerra civile, con la sua assenza di regole, l’esasperazione, nel triedro della Guerra di Clausewitz, del “cieco istinto” (2) realizza il massimo dell’inimicizia. Croce ravvedeva il carattere estremo della negazione del “nuovo” e della contrapposizione tra rivoluzionari e contro-rivoluzionari nel 1799:
“L’odio terribile, l’odio della paura da una parte, e l’odio della conculcata libertà e dignità morale dall’altra, non bastano a spiegare la ferocia della lotta allora iniziata, se non si tiene presente che il giacobinismo (come tra i primi riconobbe il Tocqueville) era una religione, e che al contrasto la vecchia superstiziosa religione, col suo complemento di vecchia politica e di vecchia moralità, si raccendeva, e che dunque la guerra che si combatteva era della specie più feroce, guerra di religioni”.
Ma questo carattere è nel contempo la negazione più radicale di quella che con il Risorgimento (con particolare riferimento ai fatti del 1860 e successivi) si voleva costituire: l’unità politica degli italiani in uno Stato nazionale. Perché per farla occorre non solo un’ “identità comune” ma ancor più un appezzabile grado di consenso condiviso (idem sentire de re publica), onde far si che l’unità così raggiunta non sia (e non appaia) il risultato di un atto di forza. Proprio ciò che viene negato dalla guerra civile che rivela la prevalenza – come mezzo per realizzare l’unità – della forza sul consenso. Sottraendo così legittimità al nuovo Stato ed alla di esso classe dirigente.

2.

Gli infausti momenti della costruzione dello stato unitario.

Per ricordarne il carattere di confronti bellici, al di la di ogni minimizzazione, e rimozione è bene ricordare qualche dato:

1) Nel 1796 Bonaparte perse solo qualche centinaio di uomini nella battaglia di Lodi, vittoria che gli aprì le porte di Milano e la conquista di (quasi tutta) la Lombardia; tre anni dopo, ad Antrodoco, i francesi persero quasi duemila soldati in una battaglia con i briganti abruzzesi (e reatini). Nel giugno 1799 il Cardinal Ruffo arrivava davanti a Napoli alla testa dell’Armata sanfedista forte di 40-50.000 uomini, radunata in base ad una regolare commissio rilasciatagli, con i poteri di alter ego, da Ferdinando IV, re legittimo. Definirlo “brigantaggio” in tal caso è un torto che la propaganda fa alla verità (e al vocabolario).

2) Nel 1806, con la nuova occupazione francese, ricominciò la guerriglia. Così la descrive Colletta “Mentre il re stava in Calabria con molta parte dell’esercito, quelle stesse province e le altre del regno erano sempre mai travagliate dal brigantaggio; le provvigioni di guerra predate sul cammino, i soldati assaliti ed uccisi per fino intorno al campo… Gioacchino poi che vidde possibile ogni delitto a’ briganti, fece legge che un generale avesse potere supremo nelle Calabrie su di ogni cosa militare o civile per la distruzione del brigantaggio”. E se ne venne a capo solo nel 1810.

3) Nel 1860 alcuni dati, che riporto dal libro di Giordano Bruno Guerri “Il sangue del sud”, danno la misura dell’entità delle forze e delle dimensioni degli scontri:
“Secondo Franco Molfese, autore della fondamentale Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, tra il 1861 e il 1865 sarebbero stati uccisi, negli scontri o con le esecuzioni, 5212 briganti. Carlo Alianello, lo scrittore lucano che fece del brigantaggio materia narrativa, ne conta poco meno del doppio (9860)” (3).
Altre fonti calcolano – probabilmente e largamente esagerate – le perdite umane tra la popolazione in oltre duecentomila; tra i soldati oltre ventimila. Più sicuro è il dato delle forze addette alla repressione: oltre centoventimila soldati e carabinieri, più di ottantamila militi della Guardia Nazionale. Anche se, come guerre partigiane, erano combattute con colpi di mano, agguati e scaramucce, non mancarono scontri che impegnavano da una parte e dall’altra, parecchie centinaia o migliaia di uomini come sul fiume Sauro (nel novembre 1861) o a Calitri (agosto 1861).

Se dal “quantitativo” si passa al “qualitativo”, in particolare giuridico, occorsero sia poteri che leggi eccezionali. Mahnés con Murat ebbe poteri d’emergenza; nel 1861 li ebbe Cialdini; nel 1863 fu promulgata la legge Pica, una vera legge per la guerra civile, con tanto di fucilazioni, lavori forzati a vita, condoni e immunità ai “pentiti”.

3.

L’impianto ideologico della circolare Ricasoli
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Un documento estremamente interessante per la costruzione di un’immagine non politica ma (meramente) criminale del brigantaggio è la circolare Ricasoli (all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri) del 24 agosto 1861. Ne riportiamo qualche passo dal libro “Brigantaggio e risorgimento” di Giovanni De Matteo, che la cita (in parte). Ricasoli inizia con la constatazione di una “regolarità” storico-politica:
“In ogni luogo, dove per forza di rivoluzioni si venne a cambiar forma d i governo e la dinastia regnante sempre rimase superstite per un tempo più o meno lungo, un lievito dell’antico e perturbare gli ordini nuovi non si poté eliminare dal corpo della nazione se non a prezzo di lotte fratricide e di sangue” tuttavia nessuno “osò negare il diritto della repressione nei governi costituiti e consultati dalla gran maggioranza della Nazione, né considerò la resistenza armata al suo volere se non come una ribellione alla sovranità nazionale, benché questa ribellione avesse eserciti ordinati, generali valorosi ed esperti, possedesse città e territorio dove esercitava dominio, e fossero necessarie domar la guerra, regolare gli scontri in giornata campale” (4).
Quindi ancorché vi sia una chiara organizzazione politica tra gli insorti, compete comunque al “governo costituito” il diritto di reprimerli. Subito dopo però il brigantaggio meridionale diviene l’eccezione:
“Voi non potete non aver notato l’immensa differenza che passa fra il brigantaggio napoletano e i fatti sovracennati. Non si può a quello far neppure l’onore di paragonarlo con questi: i partigiani di Don Carlos, i seguaci degli Stuardi, i Vandeisti, i quali finalmente combatterono per un principio, si terrebbero per ingiuriati se venissero posti in comparizione coi volgari assassini che si gettano su varii luoghi di alcune provincie napolitane per amore unicamente di saccheggio e rapina. Invano domandereste loro un programma politico, invano cerchereste fra i nomi di coloro che li conducono, quando hanno alcuno che li conduca, un nome che pure lontanamente si potesse paragonare con quelli di Cabrera o di Larochejacquelin (5) o anche solamente del Curato Merno di Stafflet o Charette… Questa assoluta mancanza di colore politico, la quale risulta dal complesso dei fatti e dei procedimenti dei briganti napolitani, è anche luminosa attestata dalle corrispondenze ufficiali dei consoli e vice consoli inglesi nelle provincie meridionali”.
Ma della neutralità dei funzionari inglesi, di un governo cioè che aveva aiutato la spedizione di Garibaldi, c’era da dubitare. Ciononostante Ricasoli minimizza il brigantaggio citando l’autorità di un funzionario di S. M. britannica:
“mi permetto di richiamare l’attenzione della S.V. specialmente sul dispaccio del signor Bomharn 8 giugno, che specificamente dice: «Le bande dei malfattori non sono numerose a quanto sembra, ma sono diffuse per tutto, per tutto si parla dei loro atti feroci, spogliando viaggiatori, casali, tagliando i fili elettrici e talvolta incendiando i raccolti. L’antica bandiera borbonica è stata in alcuni luoghi rialzata, ma certo è che il movimento non è per nulla politico. …Il brigantaggio napoletano pertanto può ben essere uno strumento in mano della reazione che lo nutre, lo promuove e lo paga per tenere agitato il paese, mantenere vive folli speranze e ingannare l’opinione pubblica d’Europa, ma quanto sarebbe falso di prenderlo come una protesta armata contro il nuovo ordine di cose” (Crocco e la sua banda - pare duemila briganti - sono così sistemati, a parole).
Ma dov’è – si chiede Ricasoli - il vero brigantaggio?
“Il vero brigantaggio esiste nelle provincie che sono intorno a Napoli, ha per base la linea del confine pontificio, tiene le sue forze principali nella catena del Matese, e di là poi si getta su quelle due provincie e, in quelle di Avellino, di Benevento, e di Napoli, distendendosi lungo l’Appennino sino a Salerno, e perdendo sempre più si discosta dalla frontiera romana, dove si appoggia e dove si rinforza d’armi, d’uomini e di danaro; cinque sole pertanto delle quindici provincie onde si componeva il Regno di Napoli sono infestate dai briganti”.
Si capisce dagli ultimi passi citati che il brigantaggio è uno strumento in mano delle “reazione” cioè dei legittimisti borbonici (quindi ha una posizione – e un’aspirazione politica); e che è aiutato da uno Stato estero (perciò soggetto politico), quello della Chiesa. Malgrado ciò, non è “una reazione politica”, ma, in un certo senso, endemico, etnico, quasi un modo d’esistenza. E Ricasoli prosegue con una storia del brigantaggio meridionale in cui non riesce a nascondere che tali briganti endemici si moltiplicavano con le invasioni, di guisa da dover essere debellati (?) da eserciti e (relativi) generali dotati, come Manhès, di “poteri illimitati” usati con larghezza, aggiunge Ricasoli. Che poi scrive riferendosi all’epoca della restaurazione:
“I Borbone restaurati presero altra via per distruggere il brigantaggio di cui si eran valsi e che ora si riconoscevano impotenti a reprimere. … Il brigante Tallarico ebbe da Ferdinando II, perché cessasse le aggressioni e si ritirasse in Ischia, dove ancora vive, non solo grazia piena ed intera, ma più 18 ducati di pensione al mese” (6) .
Si potrebbe obiettare che tale circolare ha il pregio di esternare delle considerazioni – in generale – corrette ma di non applicarle in modo congruo in concreto: tra l’altro non nota come, nelle guerre civili, spesso il carattere “politico” della fazione insorta è riconosciuto anche dall’altra, e ciò consente e consiglia l’applicazione di alcuni istituti e pratiche del diritto internazionale, come acutamente osservava Santi Romano (7).

In tali istruzioni di Ricasoli c’è, sintetizzato, tutto l’armamentario della propaganda ufficiale anti-brigantaggio, che si basa su due capisaldi: la negazione del carattere politico delle insorgenze e – parallela – la loro riduzione a fenomeno criminale. Ma il tutto rende un’immagine distorta della realtà, e, in se, contraddittoria. Infatti se si da atto che il brigantaggio è finanziato e fomentato dalla detronizzata monarchia borbonica, se ne afferma così il carattere politico, ancor più di quanto potessero fare i briganti issando stendardi borbonici o inneggiando a Francesco II; se si accusa lo Stato della Chiesa di aiutarlo, si ammette che è collegato ad un soggetto politico statale, esistente. I quali, come scrive Schmitt, sono caratteri che distinguono il partigiano dal delinquente comune. Ancor più: la negazione del carattere politico del partigiano esaspera la durezza della lotta. I soldati nemici presi prigionieri non si processano e non si fucilano (per il solo fatto di essere nemici), i delinquenti, i briganti, sì (la legge Pica lo conferma). La distinzione tra gli uni e gli altri era chiara già nel diritto romano: “Hostes” hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri “latrones” aut “praedones” sunt (D, L, 16, 118). I primi hanno i diritti garantiti dal diritto internazionale di guerra; i secondi no (8). La repressione (anche nei confronti dei “manutengoli”) è a discrezione del legislatore (e del diritto) interno. Come scrive Schmitt così si sviluppa “la logica di una guerra di justa causa che non riconosce uno justus hostis (9).

4.

La negazione in Ricasoli del carattere politico del brigantaggio
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C’è un’altra ragione per negare il carattere politico del brigantaggio: che questo nega, con i fatti, la legittimità del nuovo ordine. Con i plebisciti per l’annessione si volle dare una legittimazione popolare all’avvenuta conquista del regno duosiciliano. I risultati ufficiali delle consultazioni furono lusinghieri per la (quasi) unanimità dei si, anche se sospetti, come rilevava il Principe di Salina (i voti contrari furono meno dell’un percento degli elettori).

L’esito dei plebisciti serviva a dare una veste di consenso (che sicuramente in parte aveva, ma non così largo) all’annessione. Ma i briganti che, con i fatti contestavano quei risultati, combattendo e rischiando la vita, sostanzialmente… votavano con gli schioppi. Un po’ come, alla fine del secolo scorso, si diceva votassero con i piedi (cioè espatriando) gli europei dell’est.

Non potendo evitare le schioppettate, si negava il carattere politico delle medesime, degradandolo a criminale. Come scrive Max Weber, ogni potere politico cerca di suscitare la fede della propria legittimità. In questa costante prassi socio-politica è iscritta la spoliticizzazione/criminalizzazione del brigantaggio: se infatti l’ “opposizione” non è politica, la conseguenza è che non c’è un’opposizione al potere costituito e che quindi questo, legittimato dai plebisciti, “vige” cioè esercita il comando ed ottiene obbedienza.

5.

Differenti concezioni della legittimità possibile.

La circolare Ricasoli suscita, a tale proposito, anche altri interrogativi. Il più importante è che la classe dirigente dello Stato unitario e gli insorgenti borbonici si richiamavano a due differenti concezioni della legittimità; ma per Ricasoli forse più di quella sottesa ai plebisciti (cioè una concezione democratica della legittimità) vale quella, squisitamente hobbesiana, del diritto di conquista. Mentre per gli insorti vale quella di tipo tradizionale, la fedeltà al Trono e all’Altare. La concezione di Ricasoli è interessante anche perché da la misura di un certo disagio dello statista. Il quale, rivendicando il diritto (e dovere) del nuovo Stato alla repressione del brigantaggio, scrive che spetta “ai governi costituiti e consultati dalla gran maggioranza della Nazione”; cioè fa riferimento insieme sia alla legittimazione con i plebisciti (quindi ad “atti” di volontà popolare) che al fatto compiuto che il governo italiano è costituito.

Quel costituito è l’essenza della legittimità: secondo Hobbes spetta a chi esercita un comando efficace e, perciò, ha il diritto a pretendere obbedienza. È inutile dire che è la base dell’ordinamento internazionale, per il quale i soggetti del medesimo sono gli Stati in grado di farsi obbedire nel loro territorio (e non i governi “legali” ma privi di comando efficace).

Concezione prevalente nel diritto; secondo Santi Romano “esistente e per conseguenza legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità […]. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali” (10).

In sostanza è il fatto di esercitare un potere con successo su una popolazione insediata sul territorio a legittimare il nuovo governo: e che si sia instaurato per conquista nulla toglie alla legittimità di essersi così costituito. La circostanza che i plebisciti avessero confermato l’esito della guerra si aggiunge come tributo a quella “volontà della nazione” che pure si inseriva nella formula della proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia. E riveste anche un valore polemico: agli insorti, che si richiamavano alla legittimità tradizionale, si contrappone quella della volontà popolare esternata nei plebisciti.

In sostanza Ricasoli faceva riferimento alle due ragioni che potevano sostenere la legittimità della conquista; non avrebbe invece potuto far riferimento alla legittimità tradizionale, perché sicuramente dalla parte dei Borboni. E neppure alla legalità – che a parte ogni altra considerazione – stava anch’essa dalla parte degli insorti, dato che l’intervento piemontese costituiva, come ogni conquista, uno strappo alla legalità.

E, peraltro, lo stesso Francesco II° (sovrano legale) aveva legittimato gli insorti, col proclama dell’8 dicembre 1860, dato in Gaeta (assediata), sottolineando l’illegittimità e la durezza della conquista. Similmente a quanto già fatto da Ferdinando IV° quando, nel lasciare Napoli nel 1799 chiamò i sudditi alla sollevazione ed alla resistenza contro gli invasori (11).

6.

Gli italiani che non divennero tali.

Se appartenevano agli insorti sia il carattere politico, sia il richiamo alla legittimità tradizionale, sia alla legalità, oltretutto di una guerra non dichiarata e non conclusa con un trattato di pace (e quindi legalmente in corso), cosa ha prodotto la contestazione di questi e la damnatio memoriae del “brigantaggio” bollato come criminale?

Il problema si presenta con il detto di Massimo D’Azeglio: che l’Italia si era fatta, ma era necessario fare gli italiani. E non si capisce per quale ragione avrebbero dovuto sentirsi tanto soddisfatte del nuovo status le popolazioni che avevano parteggiato per i briganti, subito dolorose perdite e per di più, anche decenni dopo, sentivano ancora definire criminali quelli che avevano preso le armi e manutengoli coloro che li avevano aiutati. Se infatti la criminalizzazione del nemico può essere utile in guerra, diventa un ostacolo nel farla cessare, cioè a ottenere la pace (12).

In questa sequenza logica, l’unico modo per concludere la guerra è la debellatio, non solo quella fisica, ma anche quella morale ed ideologica. Si potrebbe rispondere che una pace con gli insorti non si poteva concludere perché questi non costituivano un soggetto istituzionale. A parte le considerazioni prima ricordate di Santi Romano (nell’applicazione di istituti di diritto internazionale) qua si sta parlando di comportamenti a lungo termine, protratti ben oltre la cessazione del brigantaggio, spento circa un decennio dopo la nascita. Ma la cui criminalizzazione è sopravvissuta alla sua morte politica. Vattel e Kant considerano clausola naturale di un trattato (e quindi di uno stato) di pace, quella di amnistia, per cui sono condonati i reati commessi durante lo stato di guerra (13). Clausola complementare alla concezione limitata della guerra, tipica dello jus publicum europaeum, per cui il nemico non è un criminale. Ma se è considerato tale, allora dev’essere punito ben oltre la fine della guerra. Il che è puntualmente avvenuto: molti briganti sono morti detenuti, ancora nel secolo scorso (cioè dopo oltre trent’anni dalla cessazione del brigantaggio). Di più: fino a qualche anno fa, la verità ufficiale che i briganti sono criminali era ripetuta in ogni sede, nelle aule scolastiche in particolare.

Ma l’aspetto positivo del nemico è, come scrive de Benoist che con esso fai la guerra, ma anche la pace: “lutter contre c’est lutter avec”. Vantaggio che manca quando si lotta contro un criminale: per il quale, proprio perché non politico non si può concludere la pace.


7.

La costante della guerra civile nella storia d’Italia.

Mi avvio alla fine, con qualche ulteriore riflessione sul perché la negazione della guerra civile e del nemico (in quanto tale politico) sia così pervicacemente ripetuta nella storia dell’Italia contemporanea. Al punto che nelle prime tre guerre civili (1799; 1806; 1860) la rivolta armata è stata chiamata brigantaggio, nella quarta (1943-1945) resistenza. La damnatio memoriae si è esteso anche al termine (appropriato) con ripetuti strappi al dizionario.

Questo in un paese che, assai più dei vicini europei è, come scriveva Manzoni – tanto e spesso citato – “una d’armi, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”: e in effetti la Germania ha portato – fino a pochi decenni orsono – il segno della divisione tra cattolici e protestanti; la Francia, nella sua storia millenaria, ha dovuto reprimere e “assimilare” le (grosse) minoranze occitane, bretoni, basche (oltre ad aver subito ripetute guerre civili tra cattolici e ugonotti): la Spagna ha ordinato il proprio assetto costituzionale concedendo un ampio spazio istituzionale alle minoranze catalana, basca, galiziana.

Gli italiani hanno un’omogeneità superiore a quella dei vicini. Tuttavia gli uomini del Risorgimento sapevano bene che a dispetto di quella, la disunità politica era la caratteristica dell’Italia. In comune, questa, con la Germania la quale, comunque aveva risentito in pieno della Riforma protestante e delle guerre di religione.

Sotto certi aspetti, la pensavano come Renan; il quale dopo aver fatto un’enumerazione simile a quella di Manzoni, sostiene che a costituire una nazione è, in primo luogo, “il consenso presente, il desiderio di vivere insieme, la volontà di far valere l’eredità ricevuta indivisa” (14). E i briganti erano l’espressione politica della mancanza di consenso, desiderio, volontà a vivere insieme, di guisa da preferire la guerra civile.

Di qui la necessità di negare il carattere politico dell’opposizione armata: dietro i briganti riapparivano i conflitti e i fantasmi di tanti secoli di storia; dai Comuni, ai guelfi e ai ghibellini, alle lotte tra vassalli feudali e poi tra signori rinascimentali, tutte guerre considerate civili da elites il cui programma era realizzare lo Stato nazionale (15). E di cui appariva necessario quindi negare il carattere. L’illegalità conclamata dei briganti non era uno strumento per scalzare classi dirigenti (e/o favorire carriere o altro “particulare”) come sarebbe capitato poi nella storia d’Italia, ma un “affare serio per uno scopo serio”. E con una ragione seria a motivarlo, quella indicata dalla nostra storia. Ragione che, a distanza di tanti anni, non esiste più: esiste solo quella di capire il passato per meglio operare nel presente.

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Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE

(1) Il tutto era già stato notato da Pietro Colletta nella Storia del reame di Napoli: “Così nell’Europa moderna vedendo come i popoli possano far guerra agli eserciti ordinati, la Spagna ed altre genti imitarono l’esempio; e sebbene fin oggi a sostegno di servitù e di errori, verrà tempo che gli imparati modi saranno usati per migliori cause” op. cit. (rist.) Firenze 1962 p. 419. - Torna al testo.
(2)
Vom Kriege, trad. it. Milano 1979, p. 40. - Torna al testo.
(3)
Op. cit., p. 91. - Torna al testo.
(4) E’ il caso di leggere sul partito rivoluzionario e sui di esso caratteri di “statalità” (
in nuce) e “istituzionalità” il saggio di Santi Romano “Rivoluzione e diritto” in Frammenti di un dizionario giuridico, rist. Milano 1983, pp. 220 ss. - Torna al testo.
(5) Però, notoriamente, vi fu un Cathelineau. La Vandea era
rappresentata … - Torna al testo.
(6) V. De Matteo,
op. cit., pp. 212 ss., i corsivi sono nostri. - Torna al testo.
(7)
Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 73. - Torna al testo.
(8) Non erano all’epoca entrati in vigore gli accordi internazionali, tutti del secolo scorso, che assicurano una certa tutela anche ai partigiani. - Torna al testo.
(9)
Theorie des partisanen, trad. it., Milano 1981, p. 23. - Torna al testo.
(10) S. Romano,
L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione, in: Scritti minori, Milano 1950, vol. I, p. 153. - Torna al testo.
(11) Così racconta Colletta: “Aveva il bando data di Roma, l’8 del dicembre, benchè più tardi fosse scritto in Caserta, e diceva: «Nell’atto che io sto nella capitale del mondo cristiano a ristabilire la santa Chiesa, i Francesi, presso i quali tutto ho fatto per vincere in pace, minacciano di penetrare negli Abruzzi. Correrò con poderoso esercito ad esterminarli; ma frattanto si armino i popoli, soccorrano la religione, difendano il re e padre che cimenta la vita, pronto a sacrificarla per conservare a’ suoi sudditi gli altari, la roba, l’onore delle donne, il viver libero. Rammentino l’antico valore. Chiunque fuggisse dalle bandiere o dagli attruppamenti a masse, andrebbe punito come ribelle a noi, nemico alla Chiesa ed allo Stato». Fu quello editto quanto voce di Dio; i popoli si armarono; i preti, i frati, i più potenti delle città e dè villaggi il menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo. I soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, unisconsi a’ volontari; le partite, piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono,e in pochi dì sono masse e moltitudini” -
Storia del reame di Napoli, Firenze (rist.) 1962 p. 217. - Torna al testo.
(12) Scrive Schmitt: “Quando però si passa a considerare il nemico che si combatte un vero e proprio criminale, quando la guerra, per esempio la guerra civile, viene combattuta tra nemici di classe e il suo scopo primario diviene l’annientamento del governo dello Stato nemico, in quel caso l’esplosiva efficacia rivoluzionaria della criminalizzazione del nemico trasforma il partigiano nel vero eroe della guerra”
op. cit., p. 23. - Torna al testo.
(13) Scrive Vattel: “
L’amnistie est un oubli parfait du passé; et comme la paix est destinée à mettre à néant tous les sujets de discorde, ce doit être là le premier article du traité. C’est aussi à quoi on ne manque pas aujourd’hui. Mais quand le traité n’en dirait pas un mot, l’amnistie est nécessairement comprise, par la nature même de la paix » v. Le droit des gens, Tome III, Liv. IV, Chap. II ; v. Anche I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, trad. it. Bari 1973, p. 186.- Torna al testo.
(14) E. Renan trad. it. in
Nazione cos’è, Treviglio 1996, p. 17. - Torna al testo.
(15) Di questa consapevolezza una sintesi poetica efficace la da Manzoni nel coro del
Conte di Carmagnola. - Torna al testo.
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POSTILLE

1.

Un problema di definizione

Se è vero che uno degli elementi che distingue il partigiano dal criminale è l’impegno politico, si pone il problema se ciò sia esaustivo e se possa essere per così dire soggettivizzato: ossia che per essere combattente politico sia sufficiente autoqualificarsi tale. Cui corrisponde il procedimento inverso: ovvero se basti per qualificarlo politico o meno che lo Stato (il governo, la legge) lo designi come tale.

Del pari neppure il riconoscimento da parte di un “terzo interessato” del partigiano come soggetto politico (o meno) può rivestire carattere decisivo. Da una parte perché consiste in un giudizio soggettivo come gli altri (cambia solo chi lo considera tale); dall’altro perché condizionato da interessi (di potenza) volti a favorire il governo legale o l’opposizione armata.

Un procedimento a tale riguardo più sicuro - e in una certa misura frequente nel diritto - è di affidarsi a più criteri; la coincidenza dei quali permette di affermare il carattere politico, almeno sotto il profilo dell’intenzione/aspirazione del combattente.

Impegno politico (intenso), riconoscimento da parte di terzo a sua volta riconosciuto come soggetto politico, deliberazioni del governo “legittimo” (come per i Borboni di Napoli sia nel 1799 che nel 1860, o del re di Prussia nel decreto del 1813 sul Landwehr) sono tutti elementi che valgono - se ricorrono e coincidono - a corroborare il carattere “politico” dei soggetti e della lotta.

Vedi link originale della foto accanto, cliccandoci sopra: Onori e rancori, l’Unità d’Italia alla gaetana, dove si narra di una fossa comune contenente i resti di soldati borbonici, scoperta nel 1961, mentre in occasione del Centenario si gettavano le fondamenta per la costruzione di una scuola intitolata a Giosuè Carducci. È una storia delle tante, inedite, che si collega al ricordo dei prigionieri borbonici e papalini, fatti morire di fame, stenti, freddo e malattie nella fortezza di Fenestrelle, in Val Chisone, incarcerato dopo l’Unità d’Italia e tutti colpevoli di non aver voluto arruolarsi nell’esercito sabaudo e di essere rimasti fedeli a Francesco II e al Papa. Sulla Fortezza di Fenestrelle vedi a questo link. [N.d.R]

Ma il tutto non appare esaustivo: per fare politica e, in particolare la guerra occorre di più che soggettività e intenzionalità; in particolare se occorre distinguere la guerra civile da altre forme di ostilità anche intense come la lotta di classe e ancor più il terrorismo. Quanto alla prima la distinzione è più agevole: Lenin e, forse ancor più Gramsci, ce ne offre il criterio: l’uso (estremo) della violenza in un caso, che manca nell’altro. Anche se talune forme di lotta di classe possono essere considerate illegali dall’ordinamento statale (cioè la mera illegalità proclamata non è sufficiente a distinguere lotta di classe e guerra civile).

Il problema si pose, tra l’altro, in Italia all’epoca del sequestro Moro, data l’aspirazione delle Brigate Rosse ad essere riconosciute quale soggetto politico. Com’è noto l’essere tale - e in particolare soggetto sovrano - consegue dalla possibilità di poter fare la guerra (e non rapine, omicidi, sequestri, anche se ripetuti); per cui occorre valutare se l’aspirante soggetto politico abbia oltrepassato quella soglia oltre la quale il quantitativo (di azioni violente) si converte nel qualitativo (guerra).

Ora è evidente che tra la “geometrica potenza” dell’azione più clamorosa delle brigate rosse, culminata nel sequestro dell’on. Moro e nell’assassinio della scorta (5 morti) in cui furono coinvolte (pare) una dozzina (o poco più) di militanti brigatisti e le battaglie (piccole) di Bauco [vedi], Calibri o del fiume Sauro – per non ricordare quella di Antrodoco (nel 1799) - c’è quella differenza essenziale costituita da un’azione che coinvolge (da una parte e dall’altra) al massimo due dozzine di persone e le altre, condotte da qualche migliaio (con tanto di artiglieria).

Ma, come detto, anche in tal caso il criterio quantitativo non può individuare la “soglia”. Occorre andare alla ricerca di criteri qualitativi.

Due dei quali, in parti coincidenti ce li suggeriscono due personaggi così diversi come Mao-dse-dong e Santi Romano. Quanto al rivoluzionario cinese è noto che vedeva nella popolazione (civile) una delle (due) braccia della morsa con cui schiacciare (e scacciare) il nemico (per cui la popolazione può essere, simmetricamente, considerata «combattente» dal nemico); e, nelle guerre civili citate la popolazione civile da un canto protesse e aiutò i “briganti”; dall’altro fu oggetto di rappresaglie (da Andria - tra l’altro - nel 1799, incendiata e saccheggiata dai francesi e giacobini a Pontelandolfo e Casalduni, nel 1861, incendiate dall’esercito italiano) (1).

Se tuttavia i briganti potevano concentrarsi in formazioni così cospicue e impegnare contingenti numerosi degli eserciti avversari, ciò avvenne proprio per la ragione sottesa al ragionamento di Mao: che avevano il favore di consistenti masse popolari, in parte del territorio infestato (2) addirittura largamente maggioritario. Era questo a “fare la differenza” tra le decine di migliaia di sanfedisti del Cardinal Ruffo, le migliaia di briganti di Crocco, le diverse centinaia di Chiavone, di Ninco Nanco, del sergente Romano (e così via) e le striminzite colonne delle brigate rosse costrette a nascondersi dall’avversione diffusa nell’enorme maggioranza della popolazione.

Lo stesso Kant giustificava la conclusione delle trattative con gli insorti (con ciò divenuti soggetto politico) ove uno Stato «per discordie intestine si divide in due parti, ognuna delle quali si costituisce in Stato particolare, con la pretesa di dominare il tutto: nel qual caso l’aiuto prestato a uno dei due Stati non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia» (3). E per farlo occorre quello che riteneva Santi Romano - in parte coincidente con le idee di Mao-tsedong. Scrivendo sulla rivoluzione (e sul partito rivoluzionario) il giurista siciliano vi ravvede «un ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio», un’«organizzazione statale in embrione» (4).

Ora la “popolazione” (e il di essa consenso) è uno degli elementi dello Stato e così del partito rivoluzionario; anche se Santi Romano pone l’accento più sull’organizzazione e sul carattere originario dell’ordinamento rivoluzionario (ma nel caso delle guerre civili italiane, queste derivano da atti dei monarchi legittimi).

Per cui il criterio oggettivo onde distinguere la guerra civile da una pluralità di azioni criminali, anche se coordinate e finalizzate, è quello individuato da Mao-tse-dong, del consenso della popolazione e da Santi Romano, degli elementi di uno Stato in embrione nel partito “combattente”, tra loro in parte coincidenti, ancor più se il consenso di gran parte della popolazione consente di controllare e amministrare anche zone del territorio da quella abitata (il territorio dominato di Schneider-Bosgard).

2.

Nemico e integrazione

A giudizio di molti, e probabilmente prevalente, il nemico è associato a qualcosa di radicalmente altro, con il quale la contesa è tale che si può risolvere solo con la distruzione politica, ma spesso anche fisica, dello stesso. Che questo sia il concetto di una categoria particolare di nemico, cioè di quello assoluto, è vero: vale in questa situazione d’ostilità assoluta il motto latino mors tua, vita mea. Ma che questa non sia la concezione universale e normale del nemico è altrettanto noto. Non è quella - soprattutto - della jus publicum europaeum, così come della teologia politica cristiana, che hanno temperato il diritto di guerra e nella guerra.

La frase sopra riportata di Alan de Benoist ci pone un problema-ulteriore: se cioè il nemico – e la guerra – possa essere il presupposto della pace e, più ancora, dell’integrazione, cioè dello strumento politico alternativo alla lotta (violenta).

E più in particolare se possa esserlo il riconoscimento del nemico, in quanto tale (nemico riconosciuto) divenuto justus hostis. Sicuramente il passaggio dalla guerra alla pace presuppone il riconoscimento del nemico (altrimenti con chi trattare la pace?). Ciò è specialmente evidente nelle guerre partigiane, tutte concluse dopo il riconoscimento dei movimenti rivoluzionari e delle trattative con i medesimi.

L’occupazione delle Due Sicilie fu, invece, connotata come, si direbbe oggi, un’operazione di polizia internazionale contro uno “Stato fallito”, in quanto tale neppure justus hostis: tant’è che non gli fu neanche dichiarata guerra (5). Ma se l’implicito disconoscimento del Regno borbonico come justus hostis serviva a giustificare l’intervento italiano, basandosi su una situazione d’anarchia (in effetti non senza ragione), la successiva criminalizzazione dei briganti ne fu la logica conseguenza. Se nemico non è chi ha titolo per esserlo - perché non è uno Stato, ma anarchia - allora, chi prende le armi contro il nuovo ordine dell’occupante è un criminale, un praedo o un latro non un hostis.

Contro il praedo si agisce con i Tribunali militari (e non), con la galera e la polizia (e l’esercito), cioè con l’armamentario organizzativo della repressione interna che presuppone il potere di supremazia, fondato sul fatto che lo Stato (e la sua organizzazione) sono superiori e, in quanto tali, abbiano diritto di giudicare, condannare, giustiziare l’inferiore (il suddito): e di esercitare nei suoi confronti la jurisdictio, ossia proprio ciò che lo status di soggetto di diritto internazionale, di justus hostis, non ammette; il riconoscimento del nemico (primo ed essenziale passo) significa applicare il principio par in parem non habet jurisdictionem. Col nemico si tratta la pace; col criminale (suddito) si applica la legge. Però può succedere che a seguire la seconda via e non la prima, si abbia un (certo) ordine ma non una (vera) pace.

Se è vero che il nemico oltre che servire alla guerra è anche colui con cui si tratta la pace, occorre fare un altro passo: se il riconoscimento dello stesso possa realizzare l’integrazione. Il passaggio dallo stato di hostis a quello di socius, anzi di civis era normale presso un popolo dotato di straordinario senso politico come i Romani. Già Cicerone nella Pro Balbo diceva:
Illud vero sine ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium et populi Romani nomen auxit, quod princeps ille creator huius urbis, Romulus, foedere Sabino docuit etiam hostibus recipiendis augeri hanc civitatem oportere. Cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a maioribus nostris largitio et communicatio civitatis (6).
Il tutto era consapevolezza ancor più determinante nel discorso dell’imperatore Claudio per l’ammissione delle grandi famiglie galliche al Senato, esposto da Tacito negli Annales:
quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? At conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut plerosque populos eodem die hostis, dein civis habuerit ... (7).
La conversione del nemico in cittadino e così il trasmutare della lotta (armata) in integrazione politica (v. Duverger) è il (principale) strumento per augere la res publica. Quando si tratti cioè di fondere (o ricucire) due comunità ovvero due parti della stessa comunità; circostanza che si ripete ove si voglia concludere una guerra civile e costruire una (nuova o rinnovata) appartenenza comunitaria. Ma non è dato vedere come possa essere altrettanto adatta la criminalizzazione del nemico; se non a proseguire, parafrasando Clausewitz, la guerra con altri mezzi (dal plotone d’esecuzione in giù). Con i quali è problematico ottenere una (vera) pace. Ossia un ordine stabile e condiviso.

Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE

(1) D’altra parte sono tanti gli episodi del genere, dall’una e dall’altra parte. - Torna al testo.
(2) Nello scritto
Banden Kampf, Hanns Schneider-Bosgard fa un interessante classificazione del territorio in zone d’operazione antiguerriglia. Questo è ripartito in quattro categorie: libero, minacciato, infestato e dominato. Quest’ultimo è considerato così: «Il Territorio dominato da bande è vero e proprio territorio nemico. La truppa che opera colà deve aspettarsi reazioni nemiche e assalti in grande stile. Il territorio dominato dal nemico è la zona di spiegamento, di approvvigionamento e di sicurezza dei banditi. Qui il nemico ha i suoi accampamenti, i suoi depositi di armi, qui istruisce e fa esercitare le sue riserve, che egli raccoglie con vigorose misure di costrizione fra la popolazione civile, qui risiedono i comandi delle sue brigate e divisioni e qui si trova anche la sede del quartier generale regolare. Nel territorio dominato da bande, il nemico esercita anche le sue funzioni amministrative. Egli perciò non domina soltanto ma anche amministra, e tutte le misure prese con le quali attinge alla forza della popolazione civile e dell’economia in generale, servono ai preparativi ulteriori per la conduzione di guerra e alle azioni pratiche all’interno della guerra stessa. Il territorio dominato da bande è dunque zona di sovranità dei banditi» (i corsivi sono nostri); Op. cit. (Gorizia 2005) p. 137. È interessante notare la coincidenza con la concezione di Santi Romano. - Torna al testo.
(3)
Per la pace perpetua, trad. it., Bologna, 1961, p. 110 (i corsivi sono nostri). - Torna al testo.
(4) Si riporta integralmente il passo di Santi Romano: «Una rivoluzione che sia veramente tale, e non un semplice disordine, una rivolta o sedizione occasionale, è sempre un movimento organizzato, in modo e misura che naturalmente variano secondo i casi. In generale può dirsi che si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, man mano, se il movimento è vittorioso, si sviluppa sempre più in tal senso. Comunque, essa si traduce in un vero e proprio ordinamento, sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio… E non importa se questo ordinamento, per la sua stessa natura e in quanto non si travasa in seguito nel nuovo ordinamento statale che può derivarne, ha una durata e una stabilità transitoria. Finché vive e opera, è un ordinamento che non può non prendersi in considerazione come tale. La rivoluzione è un fatto antigiuridico in riguardo al diritto positivo dello Stato contro il quale si svolge, ma ciò non toglie che, dal punto di vista ben diverso dal quale essa si qualifica da sé, è movimento ordinato e regolato dal suo proprio diritto. Il che vuole anche dire che è un ordinamento che deve classificarsi nella categoria degli ordinamenti giuridici originari, nel senso ormai ben noto che si attribuisce a questa espressione». Da
Rivoluzione e diritto, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1948, p. 244. - Torna al testo.
(5) Prassi ormai abituale: l’ultima conferma ne è stato l’intervento in Libia. - Torna al testo.
(6) «Senza dubbio quello che massimamente giovò a consolidare la nostra potenza e ad accrescere il nome del popolo Romano fu l’insegnamento datoci col trattato sabino da Romolo, il primo creatore di questa città: che, cioè, per aumentare la popolazione della nostra città, fosse necessario accogliervi anche i nemici. Per siffatto autorevole esempio i nostri antenati non tralasciarono mai di concedere agli stranieri il diritto di cittadinanza romana».- Torna al testo.
(7) «Cos’altro costituì la rovina di Spartani e Ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come diversi da loro? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza, quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini»
Annales, XI, 24. - Torna al testo.

APPENDICE
1.

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La Circolare Ricasoli
del 24 agosto 1861

Il testo che segue è ripreso in rete (link: www.unitrestabia.it/documenti/1860_incontro07.pdf) da un pregevole pdf, di 24 pagine, scaricabile, a firma Antonio Orazzo, dove si trova anche il testo della legge Pica. Riproduciamo entrambi questi documenti, con riserva – per mero scrupolo filologico – di confrontare i testi riprodotti su fonti dirette e primarie, appena ci sarà possibile farlo. Per ragioni di uniformità estetica corrediamo anche i testi dell’Appendice con una illustrazione iconografica, liberamente attinta dalla Rete e che rimuoveremo su richiesta degli aventi diritto ove vi fosse un eventuale copyright delle immagini.

CIVIUM LIBERTAS

Illustrissimo Signore

Nel dispaccio circolare ch’ebbi l’onore d’indirizzare ai rappresentanti di S. M. all’estero, io accennavo ai turbamenti e alle difficoltà che s’incontravano nelle provincie meridionali del regno, e protestando di non volerli dissimulare né attenuare io esprimeva la speranza che quelle provincie scaldate al sole della libertà sarebbero tosto sanate dai loro mali, e avrebbero aggiunto forza e decoro all’Italia a cui appartengono. Nessuna cagione è sorta di nuovo a scemare le speranze che il Governo del re giustamente ripone nel vigore dei provvedimenti presi all’uopo e nel patriottismo di quelle popolazioni; ma poiché appunto il brigantaggio onde sono desolate quelle provincie, sentendosi stretto più da vicino, ha raddoppiato i suoi sforzi, e più potente è diventata la cooperazione dei suoi ausiliatori (che ormai nessuno ignora chi e quali si sieno), e si sono commessi in questi sforzi, che giova credere estremi, atti di ferocia che dovrebbero essere ignoti al nostro tempo e alla nostra civiltà, ai quali è bisognato opporre più dura e deplorata necessità una repressione proporzionata, quindi i nostri nemici hanno tolto argomento per gridare più alto contro l’oppressione che il Piemonte fa pesare su quello sfortunato paese, strappato colle insidie e colla forza ai suoi legittimi dominatori, ai quali brama tornare anche a prezzo di martiri e di sangue.

Alle maligne asserzioni dei nostri nemici, si aggiungono, ne duole il dirlo, le parole meno caute d’uomini onorevolissimi e schiettamente per antico affetto e per profonda convinzione italiani, che vedendo protrarsi nelle provincie napolitane una lotta funesta, inclinano a credere che la unione di esse all’Italia sia stata fatta inconsultamente, e che quindi si abbia da ritenersi sini a nuovo e più certo esperimento come non avvenuta.

Noi non potremmo mai accettare il punto di vista di questi ultimi, dei quali non mettiamo in dubbio né il patriottismo né le rette intenzioni, poiché né possiamo dubitare della legittimità e dell’efficacia del plebiscito, mediante il quale quelle provincie si dichiararono parte del regno italiano, né la nazione può riconoscere, in alcuna parte di sé, il diritto di dichiararsi separata dalle altre ed estranea alle loro sorti. La nazione italiana è costituita e tutto ciò che è Italia le appartiene.

In questo stato di cose e di opinioni, pertanto, reputa opportuno il Governo del Re che i suoi rappresentanti all’estero siano messi al fatto delle vere condizioni delle province napolitane, con quelle considerazioni che loro giovino a rettificare i meno esatti giudizii che i lontani potessero formarsi su quelle. In ogni luogo, dove per forza di rivoluzioni si venne a cambiare la forma di governo e la dinastia regnante, sempre rimase superstite per un tempo, più o meno lungo, un lievito dell’antico a perturbare gli ordini nuovi, che non si potè eliminare dal corpo della nazione se non a prezzo di lotte fratricide e di sangue. La Spagna, dopo trent’anni, non ha per anco rimarginate le piaghe delle guerre civili che ogni poco minacciano di riaccendersi; l’Inghilterra, dopo che ebbe ricuperato con gli Orange le sue libertà dovè lottare per quasi cinquantanni con gli Stuardi, che poterono correre talora il territorio della Scozia fin presso le porte di Londra; la Francia, mentre sacrificava alla paura della federazione i Girondini, devastava Lione, si funestava di stragi, era lacerata nella Vandea, che appena vinta da una guerra guerreggiata e sanguinosa sotto la repubblica, riprendeva le armi nei cento giorni, le riprendeva contro la Monarchia di luglio. E non pertanto niuno dubitò mai per queste difficoltà dell’avvenire della Spagna, dell’Inghilterra e della Francia, ne osò negare il diritto della repressione nei governi costituiti e consultati dalla gran Maggioranza delle nazioni, né considerò la resistenza armata al suo volere se non come una ribellione alla sovranità nazionale, benchè questa ribellione avesse eserciti ordinati, generali valorosi ed esperti, possedesse città e territori dove esercitava dominio, e fossero necessarie a domar la guerra regolare e gli scontri in giornata campale.

Voi non potete non aver notato, o signore, l’immensa differenza che passa tra il brigantaggio napoletano ed i fatti accennati. Non si può a quello far neppure l’onore di paragonarlo con questi; i partigiani di Don Carlos, i seguaci degli Stuardi, i Vandeisti, i quali finalmente combatterono per un principio, si terrebbero per ingiuriati se venissero posti in comparazione coi volgari assassini che si gettano su varii luoghi di alcune provincie napolitane per amore unicamente di saccheggio e di rapina. Invano domandereste loro un programma politico, invano cerchereste tra i nomi di coloro che li conducono, quando hanno alcuno che li conduca, un nome che pur lontanamente si potesse paragonare con quelli di Cabrera o di Larochejacquelin. Dei generali e ufficiali superiori rimasti fedeli al borbone neppure uno ha osato assumere il comando dei briganti napoletani e la responsabilità dei loro atti.

Questa assoluta mancanza di colore politico, il quale risulta dal complesso dei fatti e di procedimenti dei briganti napolitani, è anche luminosamente attestata dalle corrispondenze ufficiali dei consoli e vice consoli inglesi nelle provincie meridionali, testè presentate dal Governo di S.M. Britannica al Parlamento; sulle quali mi permetto di richiamare l’attenzione della S.V. specialmente sul dispaccio del 12 giugno del signor Scaurin della Capitanata, che specificamente dice:
“Le bande di malfattori non sono numerose a quanto sembra, ma sono diffuse per tutto, per tutto si parla dei loro atti feroci, spogliando viaggiatori e casali, tagliando i fili elettrici e talvolta incendiando i raccolti. L’antica bandiera borbonica è stata in alcuni luoghi rialzata, ma certo è che il movimento non è per nulla politico, ma solo un sistema di vandalismo agrario preso come professione da gran parte delle truppe sbandate che preferiscono il saccheggio al lavoro”.
Il brigantaggio napolitano può ben essere uno strumento in mano della reazione che lo nutre, lo promuove e lo paga per tenere agitato il paese, mantenere vive folli speranze e ingannare l’opinione pubblica d’Europa, ma quanto sarebbe falso il prenderlo come una protesta armata contro il nuovo ordine di cose, altrettanto sarebbe inesatto il dargli sulla fede delle relazioni dei giornali, l’importanza e l’estensione che gli si attribuisce. Le province che formano il regno di Napoli, si ripartiscono in quattro grandi naturali divisioni, gli Abruzzi, le Calabrie, le Puglie e finalmente il territorio verso il mediterraneo in mezzo a cui siede Napoli.

Nelle Calabrie, che comprendono tre province, non vi è vero brigantaggio, ma solo alcuni furti e aggressioni, che in niun tempo si poterono da quei luoghi estirpare; in condizioni analoghe è la Basilicata prossima e in gran parte montuosa. Nelle tre Puglie non havvi brigantaggio organizzato in bande; lo stesso dicasi degli Abruzzi, dove non s’incontrano se non briganti sparpagliati, colà rifuggiti dalle provincie di Molise e di terra del Lavoro. Il vero brigantaggio esiste nelle provincie che sono intorno a Napoli, ha per base la linea del confine pontificio, tiene le sue forze principali nella catena del Matese, e di là poi si getta su quelle due provincie e in quelle di Avellino, di Benevento e di Napoli, distendendosi lungo l’Appennino sino a Salerno, e perdendo sempre più d’intensità quanto più si discosta dalla frontiera romana, dove si appoggia e dove si rinforza d’armi,d’ uomini e di denaro, cinque sole pertanto delle quindici provincie onde si componeva il Regno di Napoli sono infestate dai briganti. Né già costoro occupano delle province, né hanno sede in alcuna città o in alcuna borgata, ma vivono in drappelli sulla montagna, di là piombano in preda dei luoghi indifesi, ma non osano attaccar un luogo custodito da truppa, per quanto scarsa si fosse; dove arrivano, se non incontrano resistenza, liberano i malfattori dalle carceri, e ingrossati da questi e dai villani, per antica abitudine usi a cosiffatte fazioni, rubano, saccheggiano e si rinselvano.

Il brigantaggio quale è oggi esercitato nel napoletano non è pertanto una reazione politica, né è cosa nuova. Egli è il frutto delle guerre frequenti e continue colaggiù combattute, delle frequenti commozioni pubbliche, delle rapide mutazioni di Signoria, del mal governo continuo. Il brigantaggio desolò quelle province durante il vice-regno spagnolo ed austriaco fino al 1734, né cessò regnando i Borboni, e poi Giuseppe Napoleone e Murat. La S.V. non ignora quale celebrità infame acquistassero nel breve periodo repubblicano del 1799 i nomi di Pronio e di Rodio negli Abruzzi, contro il primo dei quali fu mandato con un esercito il generale Dumesmè; il nome di Michele Perra (intendi Pezza ndr) soprannominato Fra’ Diavolo nelle terra di Lavoro, il nome di Gaetano Mammone nella provincia di Sora.

Durante il regno di Giuseppe Napoleone e di Gioacchino Murat sino al 1815, il brigantaggio mostrassi tanto audace e terribile che si reputò necessario mandare a sperperarlo nelle Calabrie il generale Manhes con poteri illimitati. Non ignora la S.V. come largamente ne usasse il generale, e come i provvedimenti e gli atti suoi più che severi furono con quella buona fede che sogliono i partiti vinti allorchè hanno una cattiva causa a difendere, attribuiti e imputati a biasimo del governo del Re.

I Borboni restaurati presero altra via per distruggere il brigantaggio di cui si erano valsi e che ora si riconoscevano impotenti a reprimere. Il generale Amato venne a composizione con la banda Vardarelli che infestava le Puglie, e pattuì con essa non solamente perdono ed oblio, ma che fosse tramutata con larghi stipendii in una squadra di armigeri al servizio del re, al quale presterebbe giuramento. Firmati questi patti, la banda venne in Foggia per rassegnarsi, e quivi, dal generale fatta circondare, fu a fucilate distrutta. Il brigante Tallerico ebbe da Ferdinando II, perché cessasse le aggressioni e si ritirasse in Ischia, dove ancora vive, non solo grazia piena ed intiera, ma più di diciotto ducati al mese di pensione.

Il brigantaggio dunque trae nelle province napoletane la sua ragione d’essere, dai precedenti storici e dalle abitudini del paese, senza contare il fomite dei rivolgimenti politici, ai quali si aggiungono nel nostro caso particolari cagioni, io non insisterò nel mal governo che i Borboni fecero delle provincie meridionali, non sarò più severo del rappresentante delle potenze europee al congresso di Parigi nel 1856, che lo citarono in giudizio come barbaro e selvaggio innanzi all’Europa civile, né dell’onorevole Gladstone che al cospetto del Parlamento britannico lo chiamò negazione di Dio, io dirò solo che il governo borbonico aveva per principio la corruzione di tutto e di tutti; così universalmente esercitata, che riesce meraviglioso come quelle nobili popolazioni abbiano trovato un giorno in sé stesse la forza di liberarsene.

Tutto ciò che nei governi mediocremente ordinati è argomento a rinvigorire, disciplinare, moralizzare, in quello era argomento di infiacchire e depravare. La polizia era il privilegio concesso ad una congrega di malfattori di vessare e taglieggiare il popolo a loro arbitrio, perché esercitassero lo spionaggio per conto del governo; tale era la camorra. L’esercito, salvo eccezioni, si componeva di elementi scelti con ogni cura, scrupolosamente educato dai gesuiti e da cappellani nella più abbietta e servile idolatria del re e nella più cieca superstizione; nessuna idea dei doveri verso la patria, unico dovere difendere il re contro i cittadini, considerati potenzialmente nemici di lui, e in continuo stato di almen pensata ribellione.

Che questa venisse all’atto, l’esercito sapeva che la vita e la sostanza dei cittadini gli appartenevano, e che avrebbe agio di sfogare gli istinti feroci e brutali, e tutte le cupidigie che si coltivavano nell’animo suo. Del resto, nessuno di quegli ordini che mantengono la disciplina e danno al soldato lo spirito del corpo ed il sentimento del suo nobile ufficio, della sua importanza, della sua dignità; non si affezionava al paese; bastava fosse ligio al re, che per guadagnarselo non risparmiava le più ignobili piaggerie. Erano centomila, ben forniti d’armi e di denaro, possessori di fortezze formidabili ed infiniti mezzi di guerra, eppure non combatterono, e cedettero sempre innanzi ad un pugno di eroi che ebbe l’audacia di andarli ad affrontare; reggimenti, corpi interi d’armata si lasciarono prendere prigionieri; si crede che gente che non combatte farebbe mai dei soldati nel vero senso della parola, i soldati d’Italia specialmente: ebbero facoltà di tornare alle case loro, e si sbandarono; ma avvezzi agli ozii ed alle depravazioni delle caserme, disusati al lavoro, ripresero con ugual ferocia, ma con più viltà le tradizioni di Mammone e di Morra e si fecero briganti.

Se nelle loro atroci imprese portarono talora la bandiera borbonica, egli è per un resto di abitudine, non per affetto. Si disonorarono non la difendendo, ora la disonorano facendone un segnacolo agli assassini ed alle rapine. Per tal modo si è formato il brigantaggio napoletano , e di tali elementi si recluta: a questi si aggiungono i facinorosi, i fuggiti dalle galere di tutto il mondo, gli apostoli ed i soldati della reazione europea convenuti tutti allo stesso punto, perché sentono che ora si giuoca l’ultima loro posta e si combatte l’ultima loro battaglia. E qui mi duole, o signore, che la necessità di far compiuta questa esposizione, mi costringa a ricordare persone, il cui nome, come cattolico e italiano, non vorrei aver mai da pronunziare se non per cagione di riverenza e di ossequio.

Ma non posso né debbo tacere che il brigantaggio napoletano e la speranza della reazione europea, e che la reazione europea ha posto la sua cittadella in Roma. Oggi il re spodestato di Napoli ne è il campione ostensibile e Napoli l’obiettivo apparente. Il re spodestato abita in Roma il Quirinale, e vi batte moneta falsa, di cui si trovano forniti a dovizia i briganti napoletani; l’obolo, carpito a credenti delle diverse parti d’Europa in nome di San Pietro, serve ad assoldarli in tutte le parti d’Europa: a Roma vengono a iscriversi pubblicamente, a prendere la parola d’ordine e le denedizioni con cui quegli animi ignoranti e superstiziosi corrono più alacremente al saccheggio, alle stragi; da Roma traggono munizioni ed armi quante ne abbisognano, sui confini Romani col napoletano sono i depositi ed i luoghi di ritrovo e di rifugio per riannodarsi e per tornare rinfrescati alla preda. Le perquisizioni e gli arresti fatti in questi giorni dalle forze francesi non ne lasciano piu dubbio; l’attitudine ostile, le parole dette anche in occasioni solenni da una parte del clero , le armi, le polveri, i proclami scoperti in alcuni conventi, i preti ed i frati sorpresi fra le file dei briganti nell’atto di compiere le loro imprese, fanno chiaro ed aperto d’onde vengano ed in qual nome gli eccitamenti. E poicè qui non vi hanno interessi religiosi da difendere, e quando pur vi fossero, né con tali armi, né da tali campioni, né con questi modi si potrebbero tollerare che fossero difesi, è manifesto che la complicità e la connivenza della Curia romana col brigantaggio napoletano deriva da solidarietà di interessi temporali, e che si cerca di tener sollevate le provincie meridionali ed impedire che si stabilisca un governo regolare e riparatore di tanti mali antichi e nuovi perché non manchi in Italia l’ultimo sostegno del principato del Papa.

Noi abbiamo fiducia che qui si debba trarsi un nuovo ed efficace argomento per dimostrare all’evidenza che il potere temporale, non solamente è condannato dalla logica irresistibile del principio di unità nazionale, ma si è reso incompatibile colla civiltà e colla umanità. Ma quand’anche si volesse concedere che il brigantaggio napoletano fosse d’indole essenzialmente politica, dovrebbero pur sempre trarsene conseguenze opposte a quelle che vorrebbero i nostri nemici. Primieramente non si può dedurre argomento alcuno della sua durata; non si deve perder di vista che alle nostre forze non è dato di poter circondare da ogni lato i briganti, come sarebbe necessario per distruggerli compiutamente, poiché, battuti e dispersi sul suolo napoletano, hanno comodo rifugio nel prossimo e contermine Stato Romano, dove con tutta sicurezza rifanno nodo, e ristorati di nuovi aiuti di là ripiombano alle usate devastazioni.

Si deve pur considerare che la natura del suolo, per lo più montuoso e non intersecato da strade praticabili, mentre favorisce gli improvvisi assalti, porge facilità agli assalitori di sparpagliarsi prestamente e nascondersi. Né per ultimo si deve dimenticare che, nonostante le condizioni eccezionali di Napoli, vi sono rimaste in vigore le franchigie costituzionali, e che quindi il rispetto della libertà della stampa, all’inviolabilità del domicilio, alla libertà individuale, al diritto di associazione, impedisce che si proceda a repressioni sommarie e subitanee. Il che fornisce in secondo luogo un argomento a favor nostro, poiché quelle guarantigie potrebbero essere in mano dei nostri nemici strumento di alienare e sollevare contro il governo italiano le popolazioni, se veramente le popolazioni meridionali fossero avverse all’unità d’Italia.

Eppure quali sono le province, quali le città, quali i villaggi che si sollevino all’appressarsi di questi nuovi liberatori? Vive forse il governo in diffidenza delle popolazioni e comprime i loro sentimenti col terrore? Si vegga la stampa napoletana; si potrà accusarla che volga piuttosto alla licenza di quello che si astenga dal trattare come le piace della cosa pubblica. Il Governo ha armato il paese della Guardia Nazionale, il governo ha fatto appelli per volontarii arruolamenti, e il paese ha larghissimamente risposto all’appello, sicchè parecchi battaglioni, si sono già potuti ordinare e mobilizzare. E guardie nazionali, e guardie mobili, e volontari e villici borghesi corrono ad affrontare i briganti; e non di rado vi mettono la vita, e in quei frangenti le differenze d’opinione spariscono, e le diverse frazioni del partito liberale si stringono al governo, sicchè le forze regolari e le cittadine non hanno da contare una sconfitta.

E in più di un anno, fra tanti mutamenti nel pieno esercizio di una libertà nuova e larghissima, Napoli, questa immensa città di 500 mila abitanti, non ha sollevato mai un grido di disunione, non ha lasciato estendersi né compiersi neppure una delle cento cospirazioni borboniane che vi sono a brevi intervalli nate e morte. Io penso che dal complesso di questi fatti possa la S.V. farsi chiaro il concetto che il brigantaggio napoletano non ha indole politica; e che la reazione europea annidata e favorita in Roma lo fomenta e lo nutre in nome degli interessi dinastici, del diritto divino in nome del potere temporale del Papa, abusando della presenza e della tutela delle armi francesi colà poste a guarentigia d’interessi più alti e spirituali, che le popolazioni napoletane non sono avverse all’unità nazionale, né indegne della libertà, come si vorrebbero far credere vittime di un reggimento corruttore; non dobbiamo dimenticare che esse diedero gli eroi e i martiri del 1799, che si trovarono pronte nell’ora della rigenerazione a prender posto accanto agli altri loro fratelli d’Italia.

Ciò che la civiltà e l’umanità del secolo non possono tollerare, si è che queste opere di sangue si preparino nella sede e nel centro della cattolicità colla connivenza non solo, ma col favore dei ministri di chi rappresenta in terra il Dio della mansuetudine e della pace. Le coscienze veramente religiose sono indignate dell’abuso che per fini meramente temporali si fa delle cose sacre; le coscienze timorose sono gravemente perturbate vedendo crescere la discordia fra i precetti dell’Evangelo e gli atti di chi deve interpretarlo ed insegnarlo. Roma procedendo nell’àia sulla quale si è messa, pone a repentaglio gli interessi religiosi e non salva i mondani. Tutti gli animi onesti ne sono ormai profondamente convinti; e questa universale convinzione faciliterà molto il compito indeclinabile del governo italiano, che è quello di restituire all’Italia ciò che appartiene all’Italia, restituendo in pari tempo la Chiesa nella sua libertà e nella sua dignità.

Gradisca la S.V. nuovi atti della mia distintissima considerazione.

Ricasoli.

APPENDICE
2.

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Lettera di un Napoletano al Signor Ricasoli
del 16 settembre 1861

Ringrazio il Signor Antonio Orazzo per aver messo in rete la “Lettera di un Napoletano”, che riprendiamo dal suo pdf, che così intr<




(segue)




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