giovedì 4 dicembre 2008

Teodoro Klitsche de la Grange: Fine del comunismo e concetto del politico (B3/44).

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Anticipiamo qui un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange un saggio che esce sul numero n. 44 di Behemoth, Rivista Trimestrale di Cultura Politica, di cui abbiamo già intrapreso una pubblicazione antologica tratta dalla sua ventennale pubblicazione. Klitsche del la Grange affronta un tema quanto mai impegnativo: le ragioni del crollo del comunismo. Le spiegazioni che ne vengono date sono in genere di natura economica. Ma bisogna guardare ben oltre. Al fondo in Marx il comunismo avevo un contenuto utopico che non ha certo trovato nelle economie sovietiche una sua realizzazione né si è mai dato nella storia un’utopia che superasse le costanti con le quali uomini e gruppi socializzano strutturano i loro rapporti di forza.

Antonio Caracciolo

Antologia di Behemoth - B1/43: C. C. Lo Re: War on Terror. La nuova strategia di Bush jr.B2/43: J. C. Paye: Nemico dell’Impero. – B3/44: T. Klitsche de la Grange: Fine del comunismo e concetto del politico. –







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Teodoro Klitsche de la Grange

FINE DEL COMUNISMO E CONCETTO DEL POLITICO

Sommario: 1. Il crollo del comunismo. – 2. L’umanismo marxiano. – 3. Il materialismo storico. – 4. Utopia e realtà. – 5. Il crollo del socialismo reale. – 6. Vent’anni dopo. –

1. Il crollo del comunismo. – C’è un giudizio sul crollo del comunismo spesso e da molti condiviso: che, a determinarlo, siano stati i supermercati. Ovvero che la ragione principale del collasso sia stata la differenza di efficienza economica e la conseguente scarsità dell’offerta di beni e servizi nei paesi del socialismo reale rispetto al “mondo occidentale”. Il fallimento del comunismo sarebbe stato propriamente tale: quindi inquadrabile nell’ “economico”. Senza voler sottovalutare quella prudenza, che nell’analisi delle vicende storiche, porta ad investigare sulla pluralità di fattori che hanno cagionato l’evento – per cui gli stessi, convergendo, abbiano raggiunto la “dimensione critica” e causato il (conseguente) collasso - ci proveremo a evidenziare che il motivo principale di quello non sia stato di natura economica, ma politica: ovvero, ad usare la terminologia marxista, sovrastrutturale e non strutturale.

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2. L’umanismo marxiano. – Come è noto per il marxismo è fondamentale l’affermazione del giovane Marx che il comunismo «s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione» .

Tale consapevolezza era successivamente confermata e rafforzata. Engels nell’Antidühring approfondendo il comunismo come clavis universalis, in particolare paragonava l’azione delle forze sociali a quella delle forze naturali: le une e le altre agiscono “in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo riconosciute, che ne abbiamo compreso il modo d’agire, la direzione e gli effetti, dipende solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo di esse raggiungere i nostri fini” e prosegue “sino a quando ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura e il carattere, e a questa intelligenza si oppongono il modo di produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze agiranno malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo diffusamente esposto, ci domineranno… è questa la differenza tra la forza distruttiva dell’elettricità nel lampo della tempesta e l’elettricità domata del telegrafo e della lampada ad arco; la differenza tra l’incendio e il fuoco che agisce al servizio dell’uomo”. È il comunismo la soluzione che permette così di padroneggiare le forze produttive e, nella logica delle cose, arriva ad estinguere lo Stato: «Il proletariato s’impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato». Questo perché «la società esistita sinora, moventesi sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di un’organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione». Ma nel comunismo lo Stato,
«diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo: Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell’oppressione, non appena con l’eliminazione del dominio di classe e della lotta per l’esistenza individuale fondata sull’anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in nome della società, e ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi».
In Lenin la stessa consapevolezza assume caratteri più concreti, idonei a distinguere nettamente sia le fasi che i mezzi della rivoluzione e transizione socialista e della (definitiva) instaurazione della società comunista. Quanto alle prime: inizialmente la democrazia svolge una funzione positiva: «La democrazia ha una grandissima importanza nella lotta della classe operaia contro i capitalisti per la sua emancipazione. Ma la democrazia non è affatto un limite insuperabile; è semplicemente una tappa sulla strada che va dal feudalesimo al capitalismo e dal capitalismo al comunismo»; nella successiva fase «il sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più mantenersi»; infine «quanto più democratico è lo “Stato” composto dagli operai armati, che “non è più uno Stato nel senso proprio della parola”, tanto più rapidamente incomincia ad estinguersi ogni Stato. Infatti quando tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno realmente essi stessi la produzione sociale, quando tutti procederanno essi stessi alla registrazione e al controllo dei parassiti, dei figli di papà, dei furfanti e simili guardiani delle tradizioni del capitalismo, ogni tentativo di sfuggire a questa registrazione e a questo controllo esercitato da tutto il popolo diventerà una cosa talmente difficile, un’eccezione così rara, provocherà verosimilmente un castigo così pronto e così esemplare… che la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un costume». Ma non è finita: «Si spalancheranno allora le porte che permetteranno di passare dalla prima fase alla fase superiore della società comunista e, quindi, alla completa estinzione dello Stato».

Non è chiaro comunque come sarebbero stati somministrati, nella società comunista, quei castighi esemplari, una volta estintosi lo Stato; né come sarebbe stata difesa la società da possibili guerre esterne e da ancor più probabili guerre civili; né come sarebbero state amministrate le cose senza governare gli uomini. Molti, perciò ne hanno sottolineato il carattere di utopia radicale tra i quali occorre ricordare il giudizio di Benedetto Croce

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3. Il materialismo storico. – L’essenza del marxismo è il materialismo storico: l’originalità (e il proprio) di tale teoria consiste nel far determinare sia l’etico che il politico che il religioso dall’economico: risolto il problema economico con la statalizzazione dei mezzi di produzione (e così la contraddizione tra carattere sociale della produzione e individuale dell’appropriazione e dello scambio) gli altri problemi si sarebbero di conseguenza risolti da soli. Il fatto che il conflitto sia connaturato all’esistenza umana, che la storia (e anche i racconti biblici e mitici, da quello di Caino e Abele a quello della fondazione di Roma) sia tutta un susseguirsi di conflitti e dei modi per risolverli, che motivi e cause di guerre e rivoluzioni non siano (per lo più) economici, era superato con l’affermazione che nessuno aveva cercato di realizzare la società socialista (tanto meno quella del socialismo “scientifico”): provare per credere.

Contrariamente alla propria aspirazione alla scientificità, il marxismo nella concezione del fondamento economico della realtà sociale (struttura) e quello derivato dalle altre attività umane (sovrastrutture), non era (e non è) affatto dimostrato. Anzi in gran parte è vero il contrario (Max Weber, tra molti altri, docet). Tutto si reggeva sulla fede che il comunismo fosse, per l’appunto, la soluzione dell’enigma della storia. Ove applicato ci sarebbe stata la (progressiva) uscita dalla storia. Una volta però sperimentato, per così dire, in corpore viri, la costruzione teorica mostrava – nella “politica sperimentale”, cioè nella storia - la propria irrealtà. In primo luogo nella fase “transitoria” della dittatura del proletariato – in effetti dittatura sovrana del partito comunista – la politica (e il politico) non si è estinta, anzi è stata potenziata. La giustificazione di questa ipertrofia è stata quella – politicamente – più classica: l’esistenza dei nemici, sia interni (dai frazionisti, ai kulaki e così via) che esterni (le grandi potenze capitaliste e imperialiste): così era affermato uno di quelli che Freund chiama i presupposti del politico: la relazione amico/nemico (e il conflitto). E, nel socialismo reale, erano riaffermati anche gli altri: il rapporto comando/obbedienza, portato al massimo grado della coazione per garantire l’ordine (fino alla militarizzazione della società) attraverso la dittatura; e quello pubblico/privato, dato che il fine della transizione è la trasformazione della società, e quindi oggetto (precipuo) della politica socialista è proprio questa, il che implica di modellare ex novo tutti i rapporti sociali: onde tutto è pubblico, tranne quel (poco) riconosciuto al privato.

Ciò che parimenti rileva è che nessuno dei regimi comunisti instaurati è andato oltre la “fase” della dittatura del proletariato (o meglio del partito comunista). C’è da chiedersi se il tutto fosse dovuto alla bramosia di dominio e del potere (che da Tucidide in poi è riconosciuta come una delle “costanti” del politico) di una classe dirigente che aveva tradito nei comportamenti gli ideali proclamati; ma accanto e ancor più che per quella, perché comunque non rientri nelle possibilità umane di costruire una società senza politica (e senza potere politico), e quindi senza comando e obbedienza, pubblico e privato, amico e nemico. In altri termini non per frutto di ambizione, smania di potere o malvagità il comunismo si è fermato sempre a quella fase “transitoria”, e di quella definitiva, della società comunista (senza classi) non s’è vista neppure l’anticamera: era per necessità storica e ontologica che, anche facendo credito ai governanti comunisti delle migliori intenzioni, l’utopia marxista non si potesse mai realizzare. Perché era un errore: il materialismo storico, con la struttura economica che condiziona necessariamente le sovrastrutture politiche, religiose, etiche era semplicemente un’illusione, come l’araba fenice o il Paese dei balocchi.

Come per altri aspetti, il marxismo ha in questo estremizzato gli idola della modernità. In fondo pretendere di costruire una società umana non politica, senza potere, autorità, pubblico, è lo sviluppo (e l’estensione) di tesi ripetute dall’illuminismo (in poi). Ad esempio a m.me de Staël che scriveva: «Non c’è alcuna questione, né morale né politica nella quale deve corrersi il rischio di ammettere ciò che chiamano autorità. La coscienza degli uomini è in essi una rivelazione perpetua, e la loro ragione un fatto non alterabile» (nel marxismo il ruolo della coscienza è assunto dai rapporti di produzione), de Bonald replicava «Temo, in verità, che le persone d’ingegno non mi perdonino il confutare sul serio uno scritto di politica, che inizia con la stravagante asserzione che l’autorità non serve a nulla, come non mi perdonerebbero di star a discutere di geometria con un matematico che cominciasse col negare il concetto di estensione». Ovvero la politica ha “leggi” proprie (cioè il politico – come scrive Freund – è un’essenza) e queste non sono riducibili né all’etico, né all’economico, né al religioso: non c’è il rapporto deterministico tra “struttura” economica e “sovrastruttura” politica. Il politico è autonomo; e le “leggi” della politica non possono essere derogabili. A conferma di ciò, occorre considerare che il post-comunismo ha mostrato come il comunismo ha costituito il coperchio che ha occultato tutti i conflitti che, al momento giusto, si sono ripresentati: etnici, religiosi, di “civiltà”.

L’Unione sovietica, come la Jugoslavia, si è dissolta e suddivisa proprio per quei conflitti, in atto o potenziali, che non erano stati affatto risolti da molti decenni di dittatura del proletariato e di socializzazione dei mezzi di produzione e che si sono manifestati non appena dissoltosi l’apparato coercitivo di quella. La socializzazione (statalizzazione) dei mezzi di produzione (della struttura) non li aveva cancellati né dissolto i raggruppamenti amico/nemico che determinavano (cioè la sovrastruttura). Di fronte a quello che sarebbe successo è a un tempo interessante (e sconvolgente) l’auto-rappresentazione che del socialismo realizzato dava il potere sovietico pochi anni prima del crollo, proclamata nel preambolo alla Costituzione sovietica del 1977
«…Nell’URSS è stata edificata una società socialista. In questa tappa, nella quale il socialismo si sviluppa su una base propria e si rivelano in modo sempre più pieno le forze creative del nuovo regime e i vantaggi del modo di vita socialista, i lavoratori godono sempre più ampiamente dei frutti delle grandi conquiste rivoluzionarie.
Questa è la società nelle quali sono state create possenti forze produttive, una scienza e una cultura progredite, nella quale cresce costantemente il benessere del popolo e si formano condizioni sempre più propizie allo sviluppo integrale della personalità. Questa è la società dei rapporti sociali socialisti maturi, nella quale, sulla base del ravvicinamento di tutte le classi e di tutti gli strati sociali, dell’eguaglianza giuridica e di fatto di tutte le nazioni e di tutti i popoli e della loro cooperazione fraterna, si è formata una nuova comunità storica umana: il popolo sovietico…
Questa è la società dell’autentica democrazia, il cui sistema politico assicura un’amministrazione efficace di tutti gli affari sociali, la partecipazione sempre più attiva dei lavoratori alla vita dello Stato, la combinazione dei diritti e delle libertà reali dei cittadini con i loro obblighi e con la loro responsabilità di fronte alla società. La società socialista sviluppata è una tappa naturale sul cammino verso il comunismo. Fine supremo dello Stato sovietico è l’edificazione di una società comunista senza classi, nella quale riceverà sviluppo l’autogoverno sociale comunista…» (i corsivi sono nostri).
La costituzione è del 7 ottobre 1977; pochi anni dopo era verificato come si fosse formata una “nuova comunità storica umana” un’ “autentica democrazia” e il “ravvicinamento di tutte le classi”: il popolo sovietico, tenuto insieme dal potere del partito comunista, si dissolveva in quindici Stati. Di democrazie, approssimative quanto si vuole, ma almeno con i (prevalenti) connotati degli Stati borghesi, ne nascevano tante, radicalmente diverse dal passato. Affermazioni analoghe si possono leggere nella Costituzione jugoslava del 21/02/1974. Tra le tante: la Lega dei comunisti della Jugoslavia “esponente cosciente delle aspirazioni e degli interessi della classe operaia, è diventata, per legge di sviluppo storico, la forza organizzata ideale e politica trainante della classe operaia e di tutti i lavoratori nella edificazione del socialismo e nella realizzazione della solidarietà dei lavoratori e della fratellanza ed unità dei popoli e dei gruppi nazionali della Jugoslavia» (i corsivi sono nostri).

Anche in tal caso gli eventi successivi si sono incaricati di dimostrare come il socialismo realizzato aveva soltanto coperto i conflitti esistenti, che, una volta finito quello si sono ripresentati con ferocia quasi pari a quella manifestata nella seconda guerra mondiale: dai libri di storia sono riemersi cetnici, ustascia, domobrani, come se mezzo secolo di socialismo (e di socializzazione dei mezzi di produzione) non fosse passato.

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4. Utopia e realtà. – Secondo una concezione tante volte ripetuta da più di venti secoli, nell’agire sociale, e in particolare in politica, esistono dei rapporti necessari. Anche nelle “utopie” più note (dalla “Repubblica” alla “Città del sole”) l’ordinamento immaginato non prescinde da quelli (che, a ben vedere, sono in primo luogo i “presupposti del politico”), Platone ad esempio non descrive nella sua polis ideale un mondo senza politica. Si propone solo che i governanti-filosofi dirigano bene la città, ma è consapevole che il governare presuppone la politica e la polis e non che vi sia un sistema per estinguere il politico e le istituzioni relative. Sta con i piedi per terra. E così molti altri: immaginano il buon governo della società e non la società senza governo. Città e Stati con i loro capi, i loro eserciti, le loro guerre. Anche la teologia cristiana solitamente definisce l’uomo come zoon politikon (ovvero naturalmente cittadino): che può, come sostengono i teologi, cambiare regime politico, ma non decidere di uscire per sempre dalla politica e dalla Storia, e neppure di prendersi una vacanza da quella. In primo luogo perché è libero di scegliere, e anche di decidersi per il male. La storia più recente ha provato che quella marxista era pura utopia, in fondo il collasso dell’ideocrazia comunista è riconducibile al (celebre) passo di Machiavelli nel XV° capitolo del Principe: «E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua». La “ruina” è (sollecitamente) arrivata. E che l’utopia di Marx fosse in definitiva (almeno) altrettanto astratta – anche se in un senso diverso – di certe concezioni degli illuministi lo prova il fatto che il socialismo reale non è riuscito non dico a fare a meno di eserciti, governi e così via, ma neppure a ridurli. Freund scrive al riguardo che «la politica nel marxismo non ha significato perché stretta tra un mito originale e un’utopia finale” . Tra mito ed utopia quello che fa difetto è la realtà.

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5. Il crollo del socialismo reale. – Tuttavia se è chiaro che il marxismo è un’utopia radicale e il suo fine non è nelle possibilità umane, resta da spiegare perché sia finito il socialismo reale, malgrado avesse, in concreto, potenziato tutti i presupposti del politico, che negava per il futuro (e in astratto). Peraltro il collasso dei regimi comunisti è un fatto eccezionale, con caratteristiche pressoché uniche nella storia. In primo luogo per la breve durata. Le “formole politiche”, come le chiamava Gaetano Mosca hanno una parabola e sono di durata per lo più plurisecolare, e talvolta millenaria. Ad esempio l’impero romano durato in Occidente, a seguire la datazione convenzionale, cinque secoli (in oriente quasi dieci di più, sempre secondo la datazione convenzionale) o l’impero inglese durato tra le due Elisabette circa tre secoli e mezzo. Il comunismo nella sua forma più durevole, cioè l’URSS, è durato settantaquattro anni (1917-1991). Secondariamente la generalità della rovina, che ha interessato una ventina di Stati e che pur con modalità diverse (da quella “riformista” cinese a quella “radicale” sovietica, fino al tirannicidio, come nel caso rumeno) è stata praticamente totale, rapida e contemporanea, consumata, nel giro di circa un decennio (dalle modernizzazioni in Cina allo scioglimento del PCUS e dell’Unione sovietica nel 1991). Il crollo è stato rapido e generale (con l’eccezione di Cuba, Corea e, forse, Vietnam).

Poi, per il carattere pacifico del collasso (o meglio dei collassi) dei regimi comunisti: nessuno dei quali ha comportato una guerra civile (come tra “rossi” e “bianchi”). Circostanza anche questa non frequente, in quanto nella storia moderna ( e non solo) assai spesso la fine di un regime ha provocato la guerra civile. E spesso gli sconfitti della guerra civile sono “risorti”: dai “cavalieri” degli Stuart, ai monarchici ai tempi della rivoluzione francese e così via. Tale “risurrezione” è collegata al “radicamento” del regime: cioè al consenso che otteneva, e che era la stessa ragione della guerra civile.

La fine del comunismo pare, al riguardo, un contrappasso. Infatti il comunismo si è presentato sia sul piano teorico che su quello pratico come la Guerra civile moderna e totale (la Weltbürgerkrieg), in quanto dividente in due raggruppamenti ostili (proletariato e borghesia) l’intera umanità. Milioni d’uomini sono morti per realizzarlo (molti di più perché s’era realizzato); ma per impedire che finisse non n’è morto nessuno e nessuno ha ritenuto valesse la pena di rischiare la vita per conservarlo. Proprio tale fine poco traumatica può essere la chiave per comprendere, almeno in parte, il venir meno del comunismo “maturo” a dispetto del governo di un terzo dell’umanità e del possesso del primo (probabilmente) arsenale militare del pianeta.

Il comunismo ha visto un costante declino delle componenti fondamentali della coesione politica: la percezione del nemico e la fede nella legittimità dell’ordine sociale (esistente e futuro). Il primo declino è stato continuo ed è anche desumibile dalle “parole d’ordine” che ne connotano le varie fasi: dall’entusiasmo (ed azione) per la “guerra civile (o rivoluzione) mondiale” che significa esattamente la traduzione in termini operativi e pratici del conflitto mondiale tra proletariato e borghesia, si passa con Stalin all’ “edificazione del socialismo in un solo paese” (e ai “fronti popolari”) che vuol dire in sostanza da un lato un armistizio offerto alle borghesie dei paesi capitalisti e dall’altro un’alleanza con le forze anche non comuniste di quelli; poi, dopo la recrudescenza al termine della seconda guerra mondiale di una (peraltro prudente) aggressività e correlativa espansione (nelle aree meno “calde” del pianeta, con esclusione dell’Europa e del Giappone), arriva alla “coesistenza pacifica”, che è una rinuncia (anche se ambigua) alla “guerra civile mondiale”. In tutti tali passaggi è evidente che la percezione del nemico va sbiadendosi, sia in termini soggettivi (il nemico si scinde in due: quello reale e totale cioè il nazifascismo e quello potenziale cioè il capitalismo non fascista; per cui il mero fatto d’essere capitalista non fonda uno stato d’inimicizia assoluta o reale); sia in termini d’intensità del conflitto, che diventa più sfumato: a servirsi della terminologia di Clausewitz perde d’istinto ostile (anche se ci guadagna come strumento politico).

Tuttavia l’istinto ostile, ovvero l’odio verso il nemico, è stato sempre un decisivo “collante” della comunità. Già lo sosteneva Eschilo nelle Eumenidi: «E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai mortali»; e poc’anzi nella tragedia Atena raccomanda «e i miei cittadini non aizzarli, come si aizzano i galli, a guerre civili, a violenze di fratelli contro fratelli. Con nemici di fuori sia, se ha da essere, la guerra, che allora non è penosa, e un nobile amore di gloria muove i guerrieri; non è una zuffa di uccelli domestici dentro la gabbia» (i corsivi sono nostri). Sfumando l’istinto ostile si riduce la stessa coesione comunitaria: la saggezza di Eschilo avvertiva che era quella l’ “unica medicina” alle possibili guerre civili. L’effetto che ne deriva, è che man mano quello decresceva si affievoliva anche il senso di appartenenza (e identità) della comunità socialista (il “popolo sovietico” della costituzione “brezneviana”, sopra ricordata). Che questo scemasse, e che diventasse così problematica non solo l’identificazione del nemico, ma anche quella dell’amico risulta da diversi fatti, peraltro poco considerati.

Si sa che presupposto di ogni comunità politica, ancor più se retta come democrazia, è l’esistenza di una certa omogeneità nel “popolo”. Omogeneità che può aver i più diversi fondamenti: etnici, religiosi e così via. Nel comunismo a determinare la cittadinanza non era (solo) lo jus soli o lo jus sanguinis ma la collocazione di classe: un proletario, anche se aborigeno nato nella Melanesia, poteva diventare cittadino sovietico. Questo costituiva una trasposizione in termini giuridici (di diritto pubblico) del raggruppamento amico/nemico. Il riflesso giuridico ne era la cittadinanza sovietica (e il popolo sovietico). L’art. 20 della dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, Sezione I della costituzione sovietica del 1919 infatti disponeva: «Partendo dalla solidarietà dei lavoratori di tutte le nazioni la Repubblica sovietica federalistica socialista russa garantisce agli estranei che si trattengono sul territorio della repubblica russa per l’esercizio di un’attività lavorativa e fanno parte della classe lavoratrice o della classe dei contadini che non sfrutta forza-lavoro altrui tutti i diritti politici del cittadino russo e demanda ai Soviet locali il diritto di concedere a questi stranieri senza gravose formalità il diritto di cittadinanza russa» (i corsivi sono nostri). Quindi il raggruppamento “amicale” conseguiva non ad appartenenze storiche, etniche e/o al territorio, ma a quella di classe, che era il criterio dell’ “omogeneità” del popolo sovietico.

In realtà per tenere insieme quel coacervo di popoli e religioni costituenti l’URSS serviva ben altro: e cioè la dittatura del Partito e il principio del centralismo democratico (da ultimo v. artt. 3 e 6 della Costituzione del 7 ottobre 1977). Erano questi strumenti (e modelli) politici il cemento di tutto l’edificio e non la socializzazione (avvenuta) dei mezzi di produzione. Quando Gorbaciov tentò di trasformare – per via d’intesa e “consensuale” - l’ordinamento sovietico, l’impresa si rivelò impossibile: finché la sostanza del potere era la dittatura del PCUS il sistema si reggeva in piedi, ma crollò al vacillare di quel potere col primo vento di cambiamento. I conflitti etnici e le aspirazioni all’indipendenza si presentarono in tutta la loro drammaticità. Il (lavoratore) baltico si sentiva «omogeneo» agli altri baltici, ma non ai proletari russi o turchi. Il fondamento dell’omogeneità politica, che sostiene (sopratutto) la democrazia come forma di Stato, tornava ad essere l’identità culturale e nazionale. È questa a costituire il raggruppamento decisivo, e non la cittadinanza sovietica (l’essere proletario). Il popolo (già) sovietico, elemento fondamentale della costituenda (da Gorbaciov) repubblica federale, in concreto non esisteva: esistevano tanti popoli quante le etnie di quell’immensa repubblica.

Al turbinare di quel vento il popolo sovietico si rivelò per quello che era: un flatus vocis, un nomen juris senza alcuna connotazione (e radicamento) reale. Il comunismo aveva dimenticato che i popoli non si costituiscono con i decreti-legge, né con i rapporti di produzione. Al posto (di quello sovietico) popoli, anche se frammentati e, in certa misura disorientati, costituivano (o ri-costituivano) i loro Stati, che, con tutti i loro difetti, possedevano almeno il dato esistenziale di fondarsi su (e costituire) un vero popolo con le sue appartenenze, i suoi usi, costumi, religione, credenze e valori, sui quali decenni di socialismo (e di socializzazione dei mezzi di produzione) erano scivolati via come l’acqua.

Alla fine della realizzazione del socialismo il popolo sovietico non riusciva così né a identificare l’amico né il nemico, né a distinguere quelli che il sistema, anche se sempre più debolmente, identificava come tali. Ma senza la percezione esatta del nemico (e dell’amico) lo stesso sentimento sia d’ostilità che d’appartenenza scema e spesso viene del tutto meno: e con esso la volontà di lottare per la conservazione dell’ordine esistente.

Schmitt sostiene che quando la capacità di distinguere nemico ed amico si riduce o si estingue, il popolo (il sistema, la classe, il regime) entra in fase di dissoluzione . D’altra parte non è soltanto nell’ex. DDR che si “votava con i piedi”, manifestando così l’insofferenza crescente verso il socialismo reale: un fenomeno analogo è stato già descritto alla fine dell’Impero romano (d’occidente), quando i romani preferivano vivere sudditi dei Goti e dei Vandali che della decadente burocrazia imperiale. Onde diventava “amico” (e con ciò – costitutivo del sorgere di una nuova comunità) il barbaro e “nemico” il funzionario o il latifondista romano, giuridicamente civis romanus come i coloni. È quindi logico che, come si deduce da Salviano, non volessero combattere (e morire) per l’impero.

Ciò che prova come la “sovrastruttura” politica fosse autonoma (dai rapporti di produzione) se non decisiva rispetto alla struttura economica, è come anche il comunismo ha costituito e mantenuto delle unità politiche in virtù dell’intensità del politico che ne ha sostenuto la vitalità: percezione del nemico, nuovo raggruppamento amico-nemico, dittatura, centralismo democratico. Tutte idee, rapporti, relazioni, modelli tipicamente e squisitamente politici i quali, concepiti come transeunti si sono rivelati l’unica risorsa a disposizione per assicurare l’ordine e l’unità politica. La realtà del “socialismo reale” era la dittatura del partito: la socializzazione dei mezzi di produzione non è servita né a preparare il futuro, e quel che più ne dimostra l’inidoneità a modificare le “sovrastrutture” e con esse l’esistente, è il riemergere di tutti i conflitti (preesistenti), non appena decomposto l’apparato di dominio politico.

Contrariamente alle aspettative teoriche, il socialismo reale si è retto essenzialmente grazie al carattere politico della dittatura del partito (e della cosiddetta transizione – in genere – alla società comunista). Cioè si è conservato – per qualche decennio – perché non aveva mai praticato (né lontanamente si era avvicinato) all’obiettivo non politico finale. Si era conservato proprio perché non aveva realizzato (neppure alla lontana) quello che predicava come meta finale. In sostanza il comunismo realizzato aveva mancato proprio l’obiettivo che, nel preambolo della Costituzione sovietica del 1977, sopra riportato, proclamava di aver raggiunto: di aver edificato una “nuova comunità storica umana”. Alla quale mancava, ormai, quello che costituisce una comunità umana, e che nel comunismo, almeno nelle fasi iniziali, era il progetto del futuro, cioè l’“uscita dalla storia” e quello che ne conseguiva: il nemico ossia colui che a quel futuro si opponeva. Benedetto Croce aveva ben descritto il nocciolo del comunismo “il quale, nella sua idea ultima e direttrice, nel principio a cui dà fede, non è la positività di un’azione o di un’istituzione, ma un conato nel vuoto, il quale, nella sua più nuda espressione si risolve nel concepire l’ideale della vita come pace senza contrasti e senza gara, e pertanto con eguali sentimenti e concetti ed eguali e soddisfatti bisogni in tutti i componenti di una società, condizione che toglie radicalmente la necessità e possibilità stessa delle lotte degli uni contro gli altri, delle vittorie e delle sconfitte degli uni sopra o sotto gli altri, e la necessità stessa dell’ordinamento statale. Ogni errore teorico ha, certamente, qualche stimolo e motivo pratico, che in questo caso si ritrova agevolmente nell’affanno e nel dolore del lottare, dai quali si procaccia di saltar fuori col fantasticare e vagheggiare una vita senza lotta, cioè una vita senza vita” ; alla fine, dopo pochi decenni, la tensione politica (il sentimento ostile verso il nemico) non aveva retto all’esaurirsi della credenza escatologica, opposta alla realtà del socialismo quotidiano.

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6. Vent’anni dopo. – Vent’anni dopo, il post-comunismo, sia nei paesi dell’Est che in quelli occidentali ha confermato alcuni tratti e peculiarità della decadenza e del collasso. In primo luogo tra “dottrina ufficiale” e classe dirigente: se praticamente nessuno (degli attuali governanti dei paesi del già “socialismo reale”) propugna più nazionalizzazione dei mezzi di produzione, economia pianificata, rivoluzione mondiale e così via – cioè tutti gli idola del comunismo statu nascenti – tuttavia molto spesso i componenti delle (odierne) classi dirigenti facevano parte di quelle del passato regime. Questo sia nei paesi del socialismo reale che nelle democrazie occidentali. Tale circostanza (una classe dirigente che, in larga parte, traghetta la comunità in un sistema politico-sociale opposto a quello “di riferimento” fino al giorno prima, o comunque pratica politiche ben diverse) non si presta solo a facili ironie su “carrierismo” “trasformismo” “cupidigia di potere” e così via, dato che anche nelle trasformazioni politiche e istituzionali più radicali si trovano comunque degli elementi di continuità, sociale se non politica .

Tuttavia colpisce che nel caso, la continuità abbia riguardato assai più le persone che non le idee o le cose: di queste le idee sono state radicalmente rifiutate e le cose, quasi altrettanto radicalmente, cambiate. In altri casi la proporzione è stata diversa, e spesso, addirittura inversa. Viene in mente la tesi più nota dell’Ancien régime et la Révolution in cui Tocqueville ricorda i tanti elementi di continuità tra monarchia borbonica e regimi (repubblicano e imperiale) succeduti a quella. Ma, ovviamente, la continuità nelle istituzioni e nell’organizzazione del potere non riguardava – se non in casi rari, come, ad esempio, Talleyrand - le persone. Per cui il collasso dei regimi comunisti è più facilmente inquadrabile in quella classe di residui che Pareto riconduceva (e denominava) come persistenza degli aggregati, in un modo forse non frequente nella storia: quello di élites che cambiano dottrina, sistema di valori, comportamenti e politiche (cambiando cioè la “formula politica”) restando (le stesse - in larga parte) al potere. In questo caso la storia, come scriveva Pareto, non è stata (tanto) un “cimitero di élites,” ma il sepolcro di una dottrina, e delle relative istituzioni.

Anche questo manifesta la radicalità della caduta del comunismo: che a fare una politica capitalista in Cina fosse Ciang-kai-shek ( o i suoi epigoni) sarebbe stato considerato logico e normale: ma che a praticarla siano le élites organizzate nel PC cinese (tuttora vispo e vegeto) e siano le stesse a credere che il marxismo realizzato fosse impraticabile, d’ostacolo al miglioramento dei popoli e inviso agli stessi, ne costituisce un rifiuto irredimibile. Per cui era meglio prevenire l’inevitabile – prima o poi –fine, mettendosi alla guida del processo riformatore (come nel caso – riuscito – del PC cinese, ma non solo) o non opporsi, cercando di “cavalcare” il cambiamento.

Resta il fatto che un’ideocrazia – com’è definibile il comunismo – dove le classi dirigenti, e, ancor più, i governanti non credono alla “dottrina ufficiale”, non poteva reggersi, non foss’altro perché era proprio l’ideologia, il progetto del futuro, a costituire il collante di unità politiche che, di converso, rifiutavano (a cominciare dalla dottrina) quei legami sociali e politici che consideravano vecchi, superati e dannosi, e che da sempre formavano buona parte di quei fattori d’integrazione, in particolare materiale (ma anche personale) che costituiscono una comunità politica. Si può a tale proposito ricordare il giudizio di Gonzalo Fernandez de la Mora il quale, distinguendo nettamente l’ambito religioso da quello ideologico sostiene che “si possono riscontrare analogie nel momento della decadenza, cioè quando una religione si estingue dissolvendosi per cause interne, poiché allora non è più propriamente una credenza sovrannaturale, ma un’ideologia” per cui “una credenza che si sostiene su esteriorità farisaiche è un involucro inerte e fallace” . E per l’appunto un (tipico) prodotto farisaico sono, tra l’altro, quelle enunciazioni nelle costituzioni, prima citate. Perciò che il comunismo sia collassato, per così dire, in pantofole e senza chiasso, cioè sia morto in modo radicalmente opposto da come era vissuto è, in un certo senso, la vendetta della sovrastruttura politica sulla struttura economica. È stata quella la talpa che ha scavato – e fatto crollare – l’edificio del socialismo. Per cui a lei va rivolto l’elogio di Marx, “ben scavato vecchia talpa”.

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Teodoro Klitsche de la Grange

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