LA REPUBBLICA DIMEZZATA
Ha suscitato un
modesto interesse che la Corte di giustizia UE abbia condannato la Repubblica
italiana perché (cito testualmente) “Non
assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i
termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva
2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011,
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa
incombenti in forza di tali disposizioni”.
Che l’interesse
sia stato modesto lo si deve probabilmente da un lato al fatto che tutti sanno
– anche se nei mass-media se ne legge poco – che i ritardi nei pagamenti dei
creditori del settore pubblico sono enormi, molto peggiori di quanto risulti
dagli atti citati dal Giudice europeo nella sentenza, dall’altro che le
decisioni giudiziarie sui ritardi sono tante che non “fanno più notizia”.
Ciò stante,
dall’arresto suddetto della Corte risulta che l’argomentazione dell’Italia per
difendere la prassi (costante e reiterata) del ritardato adempimento (spesso di
anni e talvolta di lustri) consisteva in ciò che (cito testualmente) “le
direttive europee…non impongono, invece,
agli stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi
circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche
amministrazioni. La direttiva 2011/7 mirerebbe ad uniformare non i tempi entro
i quali le pubbliche amministrazioni
devono effettivamente procedere al pagamento… ma unicamente tempi entro i quali
essi devono adempiere alle loro obbligazioni senza incorrere nelle penalità
automatiche di mora”. Cioè non conta se il creditore è stato pagato, perché ad
avviso della nostra Repubblica “non implicherebbe uno stato membro sia tenuto ad assicurare in concreto il rispetto
di detti termini”… perché le “direttive non assoggettano…. lo Stato membro…
ad obblighi di risultato, ma, tutt’al più
ad obblighi di mezzi”. Traducendo tali espressioni tecniche in linguaggio
più corrente, lo Stato membro europeo avrebbe l’obbligo di tradurre in norme
nazionali le direttive U.E., ma se poi queste vengono aggirate o di fatto
disapplicate dalle pubbliche amministrazioni o dai giudici, col lasciare i
creditori “a becco asciutto” il tutto non darebbe adito ad alcun dovere né
responsabilità dello Stato. Cioè i creditori dovrebbero essere appagati che il (loro)
diritto al (sollecito) pagamento sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale,
che magari sia stato anche statuito in
altra sede, tuttavia, senza poter pretendere che lo Stato si attivi perché il
pagamento sia effettuato. A parte la sottile quanto involontaria comicità di
tale impianto argomentativo, dato che per i creditori veder riconoscere il
proprio diritto al pagamento è qualcosa,
ma essere pagati è tutto (mentre per
la Repubblica italiana è il contrario), va esaminato non solo perché la prassi
è reiterata, ma perché rientra nel dibattito sul sovranismo (o meglio sulla
sovranità) tanto demonizzata.
Lo stato moderno è
responsabile in linea generale dell’applicazione del diritto sul proprio
territorio. Scriveva (tra i tanti) un maestro del diritto internazionale come
Triepel che, in caso di violazione di un diritto garantito da norme
internazionali “per quanto lo Stato col mantenersi inattivo verso chi lede un
altro Stato non diventi complice di costui, è tuttavia esatto dire che è
responsabile se non procede contro di lui”. E ciò avviene perché “la
responsabilità ha nel nostro caso un carattere schiettamente territoriale, essa
è conseguenza necessaria della sovranità
territoriale… tale responsabilità è giustificata dal fatto che determinati
interessi furono lesi entro la cerchia cui si estende la esclusiva sovranità di uno Stato”.
Onde lo Stato è
responsabile anche per gli atti dei suoi organi; degli enti pubblici e comunque
“per la condotta delle persone che ha
investito di una pubblica funzione” sia che abbiano commesso atti illeciti
che leciti (secondo il diritto internazionale). Le norme che consentono di
sanzionare i funzionari che li abbiano commessi secondo il giurista tedesco
“costituiscono diritto internazionalmente
indispensabile”.
Diversamente da
quello che pensano gli adepti del “politicamente corretto” è proprio la
sovranità territoriale a garantire non solo l’esistenza politica delle comunità
umane, ma anche l’effettiva applicazione del diritto; e così a prendersi carico
dei relativi obblighi e responsabilità, sia che derivino da fonti del diritto interne
che internazionali. Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”.
È questo un aspetto peculiare dello Stato moderno che consiste anche di
un’organizzazione di applicazione del
diritto, la cui funzione è di rendere reali
e concreti i diritti enunciati nella legislazione o comunque vigenti.
Diversamente dalle monarchie feudali in cui la realizzazione delle pretese era
spesso rimessa agli interessati medesimi (così, in genere, come nelle forme
arcaiche di ordinamenti politico-sociali).
Situazione
pericolosa. Lo Stato moderno, anche per questo, conquistò oltre al monopolio
della violenza legittima, quello dell’applicazione del diritto (ne cives ne arma ruant). che non è il
monopolio del diritto, giacché questo è generato in parte considerevole, spesso
la più importante, non da organi statali: ma è quello della sua concreta
esecuzione e realizzazione.
Se la Repubblica
si difende in giudizio sostenendo che non è suo compito assicurare che il
diritto sia realizzato, vuol dire che sta regredendo verso forme pre-moderne di
ordinamento: o meglio che è in de-composizione. Come, in effetti, è ogni Stato
che non pretende di essere sovrano.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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