CHI DECIDE PER SALVINI?
Ha suscitato un
vivace dibattito la richiesta di autorizzazione a processare Salvini sulla
quale si deve pronunciare la camera d’appartenenza.
Ovviamente il
ritornello più battuto dalla maggioranza parlamentare è quello solito: eguaglianza
versus privilegio; giustizia versus politica; in minor misura umanità
versus sicurezza nazionale.
Da una parte si
vuole che la giustizia faccia il suo corso, dall’altra che la politica lo
interrompa. Chi ha ragione?
Si può rispondere,
in prima battuta: entrambi. Questo perché se una condotta è illecita (giudizio
giuridico) o se è politicamente opportuna (giudizio politico) si valutano in
base a parametri diversi, hanno corsi differenti e sono entrambi necessari
all’esistenza comunitaria. Per cui il fatto che un’azione sia illecita non
implica che non sia opportuna e viceversa. Anzi già nella Farsaglia (14 secoli
prima di Machiavelli) il contrasto tra norma e opportunità politica è così
descritto da Lucano: “Sidera terra ut
distant et flamma mari, sic utile recto.Sceptrorum vis tota perit, si
pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti” [1]
Onde nel Principe,
dove si legge a proposito del contrasto tra (norma) morale e opportunità
politica “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere
non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità”, il Segretario fiorentino
non faceva che esprimere mutatis mutandis
l’esigenza di autonomia della politica. E ancora della prevalenza dell’istituzione politica
la cui funzione è la protezione
dell’esistenza della comunità.
Dato che, in uno
Stato, la protezione comporta anche, sia pure in subordine, di assicurare
l’ordine (anche) con l’applicazione del diritto, occorre trovare dei meccanismi
in grado di garantire che, nei punti di frizione tra opportunità e politica ed
applicazione della legge, si prenda una decisione, necessariamente derogativa del corso normale della giustizia. E così è, anche
nei moderni Stati democratici-liberali, nei quali, quando sono in gioco
responsabilità politiche, si prescrivono deroghe alla giurisdizione ordinaria.
Nel caso dei ministri in Italia la norma relativa (l’autorizzazione a
procedere), espressa nella brevità della disposizione è che: a) la camera
valuta con giudizio insindacabile; b)
se il ministro abbia agito per la tutela di un interesse (ripetuto due volte)
pubblico. La camera così non giudica se vi sia illecito, ma soltanto se
l’eventuale illecito, anche se commesso, era comunque in funzione di un
interesse generale (prevalente). La responsabilità è tutta politica: se
l’elettorato non condivide la decisione della Camera, alle prime elezioni può
rimandare a casa politici sgraditi.
Così Salvini non
sbaglia nel sostenere che aver chiuso i porti era volontà maggioritaria degli
italiani (v. risultati elettorali); che rincorrendo interpretazioni, anche ove
non peregrine, è voler sopraffare quella volontà: e se proprio gli italiani
fossero di opinione diversa dalla Lega, hanno il potere di ridurla alle
dimensioni pre-Salvini. La questione è tutta politica e, in una democrazia,
rimessa al popolo e non a un collegio di funzionari, i quali per quanto
stimabili e giusperiti, non hanno il potere di derogare alle leggi, ma solo di
applicarle.
E se anche
giuridicamente fondato e condivisibile, la decisione relativa potrebbe essere
politicamente inopportuna o contraria alla volontà del “potere maggioritario”:
cioè quella del popolo.
Teodoro
Klitsche de la Grange
[1]
“L’utile dista dall’equo come gli astri dalla terra e il fuoco dal mare. Tutta
la forza degli scettri perisce se considera il giusto; il rispetto dell’onestà
abbatte i castelli” Pharsalia, VIII,
487-490
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