SARDINE SOTT’ODIO
Dubitiamo molto
che i parlamentari che hanno approvato la mozione Segre contro il “no hate
speech”, ossia contro i discorsi di odio in politica, avessero letto quello che
scriveva negli anni ‘20 Julien Benda: “il nostro secolo sarà stato in senso
proprio il secolo de l’organizzazione
intellettuale degli odi politici. Sarà uno dei grandi titoli nella storia
morale dell’umanità”. Questo perché permetteva alle parti politiche di
incrementare a dismisura la loro potenza
di passione (puissance passionelle).
Di guadagnare consenso indicando dei nemici, anche assoluti, onde consolidare il proprio potere.
Di lì a poco,
l’avvento al potere del nazismo permise di confermare il giudizio
dell’intellettuale francese, che nel momento in cui scriveva La trahison des clercs, pensava allo
sciovinismo, al pangermanesimo e, in genere, all’atteggiamento di molti politici
ed intellettuali durante la prima guerra mondiale.
Il dubbio è
legittimo perché Benda condannava l’ “organizzazione intellettuale” dell’odio in
generale. Mentre il parlamento
italiano (e non solo) lo ha circondato di sostantivi aventi valore (e senso)
illustrativo-restrittivo (intolleranza, antisemitismo, razzismo) che ne
delimitano il campo d’applicazione. In particolare non è indicato il fattore
socio economico come suscitore d’odio. Come sosteneva Duverger “Per i marxisti
gli antagonisti politici sono frutto delle strutture socio-economiche… La
contesa politica è perciò il riflesso della lotta delle classi“. Fattore
ovviamente positivo per i marxisti.
Per cui, al limite,
predicare l’odio di classe non è riconducibile alle cure della commissione
Segre, al contrario di quello razziale.
Prima e dopo è
stato tutto un fiorire – sui media dell’establishment
– e altrove – di dichiarazioni – e invettive preoccupate per l’odio che le
posizioni dei popul-sovranisti presupponevano e comunque esternavano, nonché
contro le relative menzogne (a cominciare dalle fake-news). A giudizio dei benintenzionati
si dovrebbe far politica, ma senza coltivare sentimenti di avversione verso
l’avversario. Una lotta a base di riverenze e buone maniere. Che il tutto sia,
in diversi casi, auspicabile, è condivisibile; che possa esserlo in ogni
frangente è impossibile; che sia poi opportuno, lo è a seconda dei casi.
Spieghiamo il perché. Benda scriveva dell’organizzazione
intellettuale degli odi politici, cioè della sottomissione dei “chierici”
alle esigenze della prassi politica (alla conquista e conservazione del potere),
con relativo tradimento della loro funzione. Che questo sia un connotato del XX
secolo è, in larga parte vero, ma occorre aggiungervi, come, in modo non altrettanto
pervasivo ed efficace, lo sia stato sempre. Nel XX secolo sono state la potenza
propagandistica dei mezzi di comunicazione di massa da un lato e la
democratizzazione della politica (e della guerra) – con la necessità di
coinvolgere, convincere e mobilitare le masse popolari – ad implementare il
ruolo dell’ “organizzazione intellettuale” delle passioni politiche, in primis dell’odio. Ma che questa sia
una componente costante della politica, perfino quando gestita essenzialmente
dai gabinetti ministeriali, (in tal caso in ruolo minore) è cosa nota. Scriveva
Clausewitz di quello strumento essenziale della politica (da cui mutua presupposti
e funzioni) che è la guerra, che consiste di uno “strano triedro composto:
1. della violenza
originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
2. del giuoco
delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
3. della sua
natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
La prima di queste
tre facce corrisponde più specialmente al
popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno
messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”.
E così è per la
politica: una politica senza distinzione tra l’amico e il nemico la quale operi
senza suscitare un sentimento di avversione per il secondo e solidarietà per il
primo è un oggetto sconosciuto. La
lotta, anche se non militare, si fa con i presupposti della lotta. Il primo (e
più importante dei quali è) l’indicazione del nemico. Se non è tale è
necessario crearlo: in mancanza la lotta non ha senso. Il nemico e l’avversione
verso il medesimo è la condizione minima (necessaria e sufficiente) per
condurre la lotta.
Il che è
confermato dal movimento delle sardine, che pare l’ultima (per ora) mascherata
in soccorso delle élite decadenti. Non si riesce a strappare dalla bocca dei loro
portavoce intervistati in televisione una indicazione su problemi reali,
concreti (e divisivi): volete salvare l’ILVA? che ne pensate del MES? o del
reddito di cittadinanza? e così via. Nulla: e a ragione. Perché scegliere è
dividere: pronunciarsi a favore del MES significa perdere i voti dei contrari e
così per il resto. Mentre opporsi a Salvini e al sovranismo unifica gli
avversari più disparati: da quelli che rimpiangono Stalin, a coloro che
disdegnano il leader leghista perché
volgare o perché goloso di Nutella. Così le sardine hanno capito che il nemico
serve ad unificare non solo i diversi
ma anche gli opposti. Cosa che un poeta tragico come Eschilo aveva capito venticinque
secoli fa. Hitler servì a far alleare un conservatore duramente anticomunista
come Churchill a un bolscevico rivoluzionario come Stalin.
State sicuri che
le sardine e chi le consiglia e le sponsorizza l’hanno capito bene: e quindi se
la prendono con l’odio: quello degli altri.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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