I Popoli Arabi Tutti in Rivolta.
Anche i Palestinesi?
Quello che succede nella sola giornata di oggi, 25 febbraio, nell’intero Medio Oriente e nell’Africa del Nord, ha dell’incredibile: sta diventando una pluri-sommossa in cui tutti i paesi in rivolta sono inter-connessi. E di seguito farò un breve resoconto, Paese per Paese, delle notizie di oggi in diretta.
Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulle vicende arabe, le forze dell’impero americano approfittano per intensificare gli attacchi a Pakistan e Afghanistan. In Pakistan, con cui l’America non è ufficialmente in guerra, si servono vigliaccamente dei letali droni per colpire dall’alto i civili - vecchi, donne bambini - in barba al fatto che si tratta tecnicamente di “invasione” e di violazione dello spazio aereo di un paese alleato. In Afghanistan, in un solo giorno hanno ucciso 60 civili afgani.
Anche gli israeliani continuano indisturbati i loro attacchi ai palestinesi inermi e indifesi. Forse però, i palestinesi hanno iniziato a rivoltarsi!
Da molti anni, ormai, ero in attesa di segnali di speranza in Palestina – ma sapevo che in quella terra abusata e violentata dai governi del mondo, complici dell’Impero Militare USA-Israele, non potevano esserci novità di rilievo senza un aiuto esterno. E l’aiuto esterno sta arrivando dal fronte meno probabile secondo gli esperti: il mondo arabo.
Questa mattina, erano TUTTI in piazza, in Libia, Giordania, Bahrein, Egitto, Tunisia, Yemen, Algeria. E perfino in Kuwait, Arabia Saudita e Iraq (!!!) iniziano le prime manifestazioni. Il messaggio delle folle era lo stesso ovunque: Andatevene via, governi e stranieri! Intervistati dai giornalisti, i manifestanti chiedevano: vogliamo riavere il nostro paese, vogliamo il rispetto, vogliamo la nostra dignità, vogliamo la democrazia, vogliamo essere liberi di decidere sulle nostre vite. Ma gli slogan e le richieste si differenziavano di Paese in Paese, con richieste specifiche. Le elencherò in seguito.
Nelle prime ore del pomeriggio arriva un
Breaking News (ultim’ora): un filmato da Al-Khalil, in Palestina. Mostrava scontri tra manifestanti palestinesi supportati da alcuni attivisti stranieri, e militari israeliani. I palestinesi erano scesi in strada ufficialmente per la commemorazione di un martire, come erano soliti dichiarare pubblicamente ai tempi in cui in realtà scendevano in piazza per protestare – una pratica interrotta da molto tempo: troppo pericoloso. Erano “armati” di sole bandiere e slogan, ma i soldati hanno aperto il fuoco e disperso la folla con “gas lacrimogeni” – tra virgolette perché si sa che utilizzano gas letali.
Infatti ecco la notizia che un bambino palestinese è morto oggi durante una simile manifestazione in Gerusalemme-Al Quds a causa del gas inalato.
Molte cariche con manganelli, molti arresti – che sappiamo si tradurranno in torture nelle terribili carceri-lager in cui vengono detenuti i palestinesi.
Ulteriori immagini e commenti non ci sono per ora sulla Palestina. Sono indecisa su cosa sperare. I palestinesi rischiano forte, se si rivoltano in massa. Rischiano molto più rispetto ai loro fratelli arabi in altri paesi. Gli israeliani non si rassegneranno mai, finché tutto non sarà perduto. Ma sono determinati a non fare arrivare le cose fino allo scontro estremo. Tutti sappiamo dagli articoli degli autori meglio informati, come Seymour Hirsh e
Alan Hart,
che gli israeliani hanno spesso fatto minacce velate di usare l’arsenale nucleare se messi alle corde – e meno velate in ambito diplomatico.
Sono in ascolto permanente, sui canali che trasmettono in diretta 24 H su 24:
PressTV e Al Jazeera. Se ci saranno sviluppi sulla Palestina li comunicherò.
Le news di oggi dalle piazze in rivolta.
LIBIA.
Mentre ieri Tripoli era, secondo i testimoni, una città fantasma, questa mattina le strade e piazze di Tripoli erano piene colme di manifestanti a perdita d’occhio. A voce alta chiedevano a Gheddafi di dimettersi. Presto sono arrivati i massacri da parte delle forze mercenarie africane (del Mali, Niger, Sudan, Chad) al soldo personale di Gheddafi. Le immagini erano devastanti: cadaveri orrendamente sfigurati, altri carbonizzati. Un giornalista raccontava che ogni soldato mercenario riceve 1.500 dollari al giorno, + 15.000 per ogni rivoltoso ucciso se porta una prova “concreta” dal cadavere. Una pratica che era in uso durante il dominio belga del Congo, ai tempi in cui il Belgio sfruttava le risorse di caucciù nel Congo per produrre pneumatici. I mercenari fedeli al regime belga tagliavano le mani ai rivoltosi, morti o vivi che fossero, per incassare la “taglia”.
Le cose stanno migliorando per la popolazione in rivolta nelle città libiche più vicine alla frontiera egiziana, ma in Tripoli i combattimenti si sono intensificati. I testimoni raccontano che le forze leali a Gheddafi hanno ucciso decine di manifestanti nei quartieri di Janzour e Fashlum.
Scontri e proteste di massa si sono viste anche in diverse città della Libia nord-occidentale.
Ad un certo punto è arrivato in diretta un filmato di Gheddafi che si rivolgeva ai manifestanti dall’alto di un edificio che si affaccia sulla Piazza Verde nel centro di Tripoli. Diceva alla folla: “Li combatteremo e li sconfiggeremo, come abbiamo un tempo battuto gli italiani. A chi vuole combattere metterò a disposizione i depositi di armi. Tutti devono essere armati. Cantate e danzate e siate pronti.” Il tono era cordiale, quasi di un sovrano in festa.
E se siamo appena stati informati che Mubarak, con il suo patrimonio di 70 miliardi, era segretamente l’uomo più ricco del mondo, ecco che vengono mandati in onda i dati relativi agli assetti di liquidità che Gheddafi ha nelle banche estere: 32 miliardi nelle banche USA, oltre 70 in varie parti dell’Europa, almeno 25 nella sola Gran Bretagna: i proventi del petrolio, a cui il popolo non ha accesso, analogamente all’Egitto e molti altri paesi esportatori di petrolio in Medio Oriente e in Africa.
Quando nel ’69 Gheddafi prese il potere, i cittadini avevano riposto molte speranze nel nuovo leader. Piaceva il tono di sfida verso l’occidente, lo stesso tono che abbiamo ancora potuto apprezzare in occasione dell’ultima Assemblea delle Nazioni Unite l’anno scorso, quando Gheddafi espose nel suo discorso la necessità per una riforma del Consiglio di Sicurezza verso una gestione più democratica, visto che da sempre le Nazioni Unite sono ostaggio dei cinque Paesi con diritto di Veto su qualsiasi risoluzione dell’Assemblea prima e del Consiglio in seguito, che fa dell’ONU un’istituzione dittatoriale. Un discorso bello ma strano, visto che negli ultimi 20 anni Gheddafi si è allineato con le potenze occidentali.
Un segnale che le rivolte non sono più nazionali ma pan-arabe proviene dal fatto che oggi in Libia si sono uniti alle proteste anche molti dei 20.000 egiziani che vivono in Libia, e molti tunisini. Nelle piazze del Cairo, invece, alcuni manifestanti erano Libici fuggiti nel confinante Egitto dalle zone di conflitto e come dichiara al microfono uno dei manifestanti libici in Cairo: “sono venuto in piazza a supportare i nostri fratelli in Egitto che si ribellano al regime militare dei Colonnelli che non hanno mantenuto le promesse fatte ai cittadini egiziani”.
Dall’Egitto arrivano convogli di aiuti umanitari in Libia. Il passaggio alle frontiere è costante. Si portano semplici viveri per la stretta sopravvivenza, ma anche ospedali da campo e tende per i cittadini in fuga.
I primi bilanci non ufficiali circa il numero di morti e feriti comunicati dalle autorità sanitarie della Libia stimano i morti tra 3.000 e 5.000 e i feriti ad almeno 15.000.
E’ arrivata la dichiarazione dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU, Navi Pillay, che ha messo in guardia circa l’escalation della repressione in Libia, sollecitando la Comunità internazionale ad intervenire a sostegno dei manifestanti. Ma cosa significa?
E’ proprio un intervento internazionale ciò che gli esperti in collegamento con PressTV dichiarano di temere. Lo dicono Danny Schechter, Allen Jones, Ralph Shoenman, Noam Chomsky, Hisham Jaber, Hilal Khashan, e chiunque intervenga nella lunga diretta. Non solo si teme un intervento militare per prendere controllo dei “terminal” che dalla Libia fanno affluire il petrolio in occidente, alcuni dei quali sono già passati sotto il controllo dei cittadini libici, ma gli esperti che operano in Washington confermano le attività serrate attualmente in corso tra Pentagono e le forze militari in controllo di alcuni paesi arabi, come Egitto e Algeria.
Dice Abdul Malik, a capo della Libya Watch di London: non vogliamo un’invasione militare. Ci occuperemo noi di Gheddafi su suolo libico. Abbiamo un disperato bisogno di aiuti umanitari, di forniture e assistenza medica. Al momento i cittadini libici sono euforici per le conquiste già raggiunte. Si sentono orgogliosi. Provano una sensazione di dignità. Sì, il prezzo è alto, molti sono morti e molti ancora moriranno. Ma la lotta è la loro: non vogliono interventi militari occidentali. Sentono che questa è una nuova nascita, che porta il nome di Libertà.
Sono arrivate le offerte da parte di alcuni capi di stato africani che si dichiarano disponibili a dare rifugio a Gheddafi. Ma, come dichiara il giornalista libico di Londra, i cittadini vogliono che Gheddafi venga consegnato alla giustizia per essere processato davanti agli occhi del mondo. Sarà difficile: gli americani non lo permetteranno perché non devono emergere in modo palese le connessioni di corruzione tra USA e i tiranni arabi. E Gheddafi non risparmierebbe denunce contro nessuno di fronte ad un tribunale, qualora gli venisse concesso di parlare.
Al momento arriva la notizia secondo cui L’ONU sta attualmente vagliando sanzioni economiche nei confronti della Libia. Che ipocrisia. Ali al-Ahmed, della IGA, Washington commenta così: ricordiamo che sono USA, Gran Bretagna e UE a fornire le armi alla Libia e agli altri paesi arabi. Non se lo chiedono gli occidentali contro chi dovrebbero servire queste armi? Non certo contro altri colleghi tiranni della regione, tutti allineati con l’occidente. Il primo ministro britannico Cameron è attualmente in partenza per Egitto con un gran seguito di esperti in transazioni commerciali, allo scopo di vendere armi. E tra poco ci sarà la fiera delle armi ad Abu Dhabi, alla quale prenderanno parte 92 produttori di armi britannici.
GIORDANIA.
3.000 uomini delle forze dell’ordine dispiegati per le strade di Amman, oggi, dove la manifestazione contro il regime monarchico è iniziata all’alba. Enorme l’afflusso di manifestanti nelle piazze della capitale, riempivano le strade a perdita d’occhio.
Le richieste riflesse dagli slogan nelle piazze erano chiare e specifiche, ed erano state comunicate in via ufficiale al governo dagli organizzatori della protesta. Stanno facendo le cose in gran stile i giordani. Chiedono lo scioglimento del parlamento e dell’intero Consiglio dei Ministri. Vogliono un governo eletto dal popolo. In particolare vogliono le dimissioni del primo ministro, ex ambasciatore in Israele, con cui conserva forti legami diplomatici. L’attuale primo ministro era stato nominato dal re Abdullah solo in tempi recenti, quando erano scoppiate le prime sommosse in Giordania e il re aveva
dovuto fare concessioni per placare le ire del popolo.
I cittadini giordani chiedono a furor di popolo l’abolizione del Trattato di Pace con Israele, siglato nel 1994 e la chiusura dell’ambasciata israeliana. I giordani sono fortemente contrari all’occupazione israeliana della
Palestina. Vogliono mettere fine al regime giordano corrotto e repressivo che si presta al gioco del garantire l’impunità di Israele nella persecuzione dei palestinesi, in cambio di ottimi affari con l’occidente.
E qui va ricordato che i giordani in realtà sono di etnia palestinese. Anche le bandiere palestina/giordania sono quasi identiche. Il territorio giordano, un tempo parte della Palestina, rappresenta la fetta più importante dell’originario territorio palestinese che le potenze occidentali suddivisero in diverse entità politiche dopo la 1° Guerra Mondiale, consegnando il territorio oggi chiamato Giordania alla dinastia degli Hashemiti, che i palestinesi/giordani non riconoscono come legittimi sovrani.
Vivono la divisione Palestina/Giordania analogamente a quella che fino due decadi fa era la divisione Germania Est/Germania Ovest. Ma come tutti gli altri stati arabi in rivolta, i giordani oggi vogliono soprattutto riappropriarsi della loro nazione, libera dal giogo israelo-americano, ed avere un governo democraticamente eletto dal popolo.
Forti scontri con le forze dell’ordine, e alcuni feriti. Il popolo manifestava anche in supporto alla popolazione libica. In un secondo tempo, si è formato anche un corteo di contro-manifestazione organizzato da forze vicine al regime monarchico.
EGITTO.
Nonostante l’ufficiale divieto di manifestare sancito dal regime militare attualmente in comando arbitrariamente in Egitto, oggi i manifestanti in Piazza Tahrir erano più numerosi che mai. Per la prima volta, oltre alle bandiere egiziane, si vedevano quelle libiche e tunisine. C’erano molti rappresentanti del mondo della cultura. Le richieste dei manifestanti erano specifiche. Circola la voce che in realtà Mubarak sia sempre in comando dietro le quinte, infatti non ha mai lasciato l’Egitto e si vocifera che il feroce generale Suleiman (capo da molti anni dei servizi segreti egiziani e nominato di recente Vice-Presidente di Mubarak), sia ora agli arresti domiciliari, dopo il recente attentato fallito alla sua vita.
Gli egiziani vogliono vederci chiaro. Vogliono sapere cosa ci facevano due terzi dello Stato Maggiore egiziano a Washington, o meglio al Pentagono, dopo il dimissionamento di Mubarak. Vogliono le dimissioni immediate del ministro degli Esteri e del ministro alla Difesa e l’abolizione del Trattato di Pace con Israele, con immediata riapertura della frontiera Egitto/Gaza. Vogliono inoltre le dimissioni del ministro degli interni, da sempre stretto
collaboratore di Mubarak nella persecuzione e detenzione illegale degli oppositori al regime. Vogliono le dimissioni del ministro per la giustizia e la liberazione dei detenuti politici.
Vogliono che cessi immediatamente il regime militare abusivo da parte dell’esercito, che è anche in controllo da decenni del 90 percento dell’economia, e l’istituzione di un governo civile ad interim fino alle prossime elezioni. Non si sono viste le forze dell’ordine in divisa durante la manifestazione di oggi, e gruppi di giovani eseguivano perquisizioni a chiunque si avvicinasse alla piazza per controllare l’eventuale infiltrazione di agenti in civile armati. L’atmosfera era più combattiva che mai. Molti chiedevano la cessazione di tutti i regimi arabi e la riforma delle istituzioni pan-arabe.
Intanto le notizie in merito all’economia egiziana non sono confortanti. A essere colpito è soprattutto il settore turistico. Le mete storiche più visitate sono deserte. A rimetterci sono i molti cittadini che per sopravvivere dipendono dalle mance dei visitatori stranieri.
BAHREIN.
Una buona notizia e tante meno confortanti. Alcuni prigionieri politici sono stati rilasciati. La tensione era salita alle stelle e la casa reale del Bahrein è stata costretta a fare qualche concessione.
Il Bahrein conta meno di 1 milione di abitanti. Ma oggi erano in piazza centinaia di migliaia. L’inviato diceva che molti manifestanti provenivano dalla vicina Arabia Saudita. La repressione negli ultimi giorni da parte dell’esercito era stata sanguinosa. L’esercito aveva sparato sulla folla che si era accampata di notte in Pearl Square in previsione delle manifestazioni del giorno successivo. Aveva dato fuoco alle tende e impedito l’accesso delle ambulanze alla piazza. Ancora oggi circa 70 persone mancano all’appello.
La situazione del Bahrein è complicata e complessa. La piccola isola si trova nel Golfo Persico, al largo dell’Arabia Saudita. Ospita la base militare della 5° Flotta degli Stati Uniti, che è anche strettamente collegata con le numerose basi militari americane nell’alleata Arabia Saudita.
La 5° flotta americana ha il compito di pattugliare il Golfo Persico e di mantenere una posizione di minaccia nei confronti dell’Iran, non facendo mistero dei sottomarini nucleari che sostano in punti strategici del Golfo. Altro compito della flotta è controllare la sicurezza delle lunghe coste della penisola araba – Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Oman, Yemen – per garantire il passaggio sicuro delle petroliere.
L’esercito del Bahrein consiste interamente di mercenari stranieri, in prevalenza sauditi addestrati dalla difesa israeliana, e non sente quindi alcun legame con la popolazione e spara anche su manifestanti pacifici e inermi, come abbiamo visto in diretta. Nonostante ciò, le strade e piazze del Bahrein erano oggi gremite.
Il popolo chiede le dimissioni dell’intera casa reale degli al-Khalifa, che si considerano conquistatori e non cederanno mai, diceva oggi l’inviato Ali Rizk, che non è un semplice giornalista, ma un esperto in affari mediorientali. Commentava il filmato appena rilasciato in cui il re al-Khalifa annunciava un rimpasto di 3 ministri e riforme di governo. Le solite tattiche per mantenere buoni i cittadini. Purtroppo, commentava l’inviato, i capi dell’opposizione sono ancora tutti in carcere. Ricordiamo che qualche mese fa, in previsione delle elezioni farsa del Bahrein, erano stati arrestati e torturati 260 esponenti dell’opposizione. Qui in occidente non si ricevono queste notizie ma PressTV Londra e Al Jazeera hanno fatto una lunga campagna di informazione e inchiesta sulla faccenda.
L’inviato del Bahrein commentava, che allo stato attuale vedeva poche speranze che le richieste dei cittadini del Bahrein possano trovare accoglienza. Faceva notare, che gli americani si sarebbero schierati con i sovrani dell’isola.
Infatti abbiamo visto il Capo di Stato Maggiore, Ammiraglio
Mike Mullen in questi giorni nel Bahrein a conferire con il re e rilasciare una dichiarazione pubblica in cui sottolineava la stretta alleanza con i sovrani e l’importanza che il governo dell’isola riveste nel tenere alla larga il “pericolo iraniano”. Come sempre, l’Iran è il capro espiatorio, lo spauracchio che mette a tacere ogni eventuale obiezione alla presenza delle forze imperialiste.
Qualche giorno fa, nel talk-show politico di prima serata della CNN “AC 360” (che in Italia si vede di notte), condotto dal famoso Anderson Cooper, era intervenuto l’ex direttore della CIA James Woolsey. Registro la trasmissione ogni notte per vederla di giorno – voglio sapere quali dis-informazioni o versioni “ritoccate” vengono date in pasto agli americani e al pubblico internazionale.
Diceva candidamente Woolsey: “è delicata la situazione nel Bahrein per gli Stati Uniti. Da una parte la Casa Bianca deve manifestare il supporto pubblico ai cittadini che chiedono riforme e rispetto dei diritti civili, dall’altra parte deve salvaguardare i rapporti con il governo alleato e difendere gli interessi americani nella regione. Un bel dilemma”. Bella ipocrisia. Gli “interessi americani” in questione consisterebbero nello sfruttamento delle risorse umane e petrolifere a basso costo, pagando i dittatori ed escludendo i cittadini della regione dai proventi della transazione di risorse che in realtà appartengono al popolo.
L’intesa degli Stati Uniti con i vari dittatori nelle varie parti del mondo è sempre la stessa: noi ti appoggiamo e ti paghiamo (in miliardi di dollari); ti finanziamo, attrezziamo e addestriamo l’esercito segreto fatto di mercenari, ti riforniamo di armi per l’esercito convenzionale, chiudiamo un occhio e anche due sulla questione dei diritti umani e civili, non ti facciamo passare per “dittatore” in occidente, anzi ti dichiariamo leader moderato e alleato prezioso nella lotta contro il terrorismo, e in cambio tu ci garantisci il flusso di petrolio a basso costo e la sicurezza e stabilità nella regione.
Tuttavia, siccome la vicina popolazione saudita percepisce gli abitanti del Bahrein come loro fratelli, commentava l’inviato, è possibile che l’aiuto ai manifestanti potrebbe arrivare proprio da quella direzione.
ARABIA SAUDITA.
Qui la situazione è ancora piuttosto calma, anche se oggi si sono viste timide apparizioni di cittadini in piazza. E’ proprio di due giorni fa la notizia che l’anziano e malato re saudita Abdullah, in previsione del suo rientro in patria dopo la lunga cura a cui era stato sottoposto all’estero, aveva rilasciato dichiarazioni ufficiali in cui annunciava riforme importanti per il popolo. Starà tremando anche quel trono?
TUNISIA.
I tunisini oggi hanno manifestato in massa, ed erano presenti molti abitanti fuggiti dalla Libia. Sono furiosi, i tunisini. Tanta fatica per poi aver un governo che non si discosta affatto da quello mandato in fuga, capeggiato dal dittatore, fantoccio della CIA, Ben Ali. Sono rimasti fino a notte tarda in piazza, i giovani della Tunisia. Come gli egiziani, si dichiarano ben determinati a continuare le proteste finché il Vecchio Ordine sparirà completamente. “Siamo solidali con i nostri fratelli in Egitto, che vivono una situazione simile alla nostra: i regimi sono usciti dalla porta e rientrati dalla finestra”, diceva in sostanza un ragazzo.
YEMEN.
Manifestazione fiume nelle strade di Aden e di Sana’a, e scontri con le forze dell’ordine. Due morti ufficiali, molti feriti. I manifestanti hanno preso d’assalto il ministero degli Interni ma sono stati respinti. Da settimane chiedono le dimissioni del brutale governo di Ali Abdullah Saleh, stretto alleato dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti – tanto alleato, da permettere alle forze alleate americano-saudite di attaccare con droni e carri armati le forze di opposizione, i cittadini del paese da lui governato. Proprio come fanno i presidenti di Pakistan e Afganistan.
Saleh, che è al potere dal 1978, nel tentativo di contenere le proteste ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni del 2013, né passerà il potere a suo figlio. Ha anche promesso un aumento di stipendio per i dipendenti statali e 60.000 nuovi posti di lavoro per studenti neo-laureati. Ma come nel caso di altri regimi arabi con tentativi analoghi, i manifestanti insistono per le dimissioni del dittatore. Dall’inizio delle proteste ad oggi le forze dell’ordine yemenite hanno ucciso 25 manifestanti. I feriti sono centinaia. 7 parlamentari si sono dimessi negli ultimi giorni, in protesta alla crudeltà della repressione.
ALGERIA.
E’ incredibile che nei media occidentali non vengano mai mostrate le manifestazioni costanti che si susseguono in Algeria. Analogamente all’Egitto, l’Algeria è governata da un’élite militare, un regime repressivo e brutale, con a capo l’odiato presidente Abdelaziz Bouteflika. Dato che nella capitale vige il divieto di assembramento e di protesta, le forze dell’ordine sono sempre all’erta e in costante assetto di sommossa. Impediscono che le manifestazioni si svolgano in modo massiccio e compatto, con il risultato che i cortei progettati si riducono in singoli piccoli gruppi isolati tra loro, che perdono di efficacia.
Quando sono scoppiati i primi disordini, le forze dell’ordine hanno brutalmente assaltato i manifestanti: 4 morti, centinaia di feriti. Preso dal panico, il presidente Bouteflika ha annunciato che presto avrebbe revocato lo “stato di emergenza” che vige da 20 anni. Ha anche promesso di revocare il divieto di manifestare ovunque in Algeria, eccetto nella capitale. Le proteste sono quasi giornaliere, ma non attraggono i media, perché poco efficaci. Ma anche oggi, gli Algerini, gente coraggiosa e determinata, erano in piazza a manifestare e a chiedere la fine dell’attuale regime.
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Molte ore sono passate da quando scrivevo sugli scontri tra palestinesi e soldati israeliani. Gli israeliani si sono fatti subito sentire, con i loro jet F-16 e gli elicotteri Apache. All’alba hanno di nuovo fatto incursione sulla località di Khan Yunis, Gaza. Non sono ancora disponibili rapporti di eventuali vittime.
(Segue)