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È riportato dalla stampa che alla manifestazione di “Libertà e giustizia” uno degli intellettuali convocati avrebbe detto che la sera non guarda la televisione, preferendo leggere Kant.
Dato che il contesto generale era quello della stigmatizzazione moralistica del comportamento del Presidente del Consiglio; secondo i promotori (v. le recenti proposte di patrimoniale) poco impegnato – come i governanti di centro-sinistra – a mettere le mani nel portafoglio dei cittadini, perché le tiene occupate a palpeggiare le zone erogene delle starlettes. Onde, per tanto (e svariato) palpeggio è tenuto a dimettersi dalla carica, a dispetto della maggioranza che l’ha votato.
Mi sono chiesto se filosofia (e morale) davano veramente un supporto alla tesi del raduno dei moralisti chic, ovvero se si possono trarre dalla cultura occidentale – filosofica o teologica in primis, conclusioni contrarie a quelle dei talebani dell’imperativo categorico.
Il punto è che da circa venticinque secoli gran parte della cultura occidentale si basa sulla distinzione tra pubblico e privato e tra quanto conviene all’uomo pubblico ed a quello privato.
Cominciamo da Platone: nel Gorgia Callicle sostiene la tesi secondo cui Socrate propugnerebbe scelte morali che si addicono all’idiotes, all’uomo privato, non a quello pubblico. “Sei tu che continui a parlare di ciabattini, cuochi, medici: come se il nostro discorso riguardasse questo tipo di persone” (1).
Qualche decennio dopo Aristotele nella politica, interrogandosi su cosa sia la virtù (del cittadino), sostiene: «Ma c’è una forma di comando col quale l’uomo regge persone della stessa stirpe e libere. Questa forma di comando noi diciamo politica […] La virtù di chi comanda e di chi obbedisce è diversa, ma il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino […]» (2).
Passando per il mondo romano, Cicerone sostiene che la virtù si esercita soprattutto nel governo dello Stato e nell’azione politica (3). Riserva l’eterna beatitudine in coelo definitum locum a coloro che hanno salvato, aiutato, ingrandito la patria (4) (la patria quindi e non la castità).
E il cristianesimo? Nella polemica con le concezioni ireniche del cristianesimo la massima “non uccidere” era distinta se riferita al credente non esercitante funzioni di governo da coloro che queste esercitavano. Scrive Lutero: «Se tu non hai bisogno che il tuo nemico sia punito, il tuo vicino che è debole, ne ha necessità e devi venirgli in aiuto perché abbia la pace e il suo nemico sia represso. E ciò non può verificarsi se potere e autorità non sono onorati e rispettati. Cristo non dice “Non devi servire l’autorità né essere sottomesso, ma “Non devi resistere al male” (5). In particolare all’autorità compete di mantenere l’ordine e il diritto, perché istituita da Dio in vista di tale fine. “Se il potere e la spada sono un servizio divino, come ho provato sopra, tutto ciò che è necessario al potere per impiegare la forza, dev’essere anch’esso un servizio divino. Occorre che ci sia qualcuno per catturare i delinquenti, accusarli, punirli e metterli a morte, e per proteggere, discolpare, difendere e salvare gli uomini virtuosi» (6). Poco dissimile è la concezione di Calvino. Questi ritiene i magistrati “vicari di Dio”, “servitori della giustizia”; rifiutando la posizione degli anabattisti, ritiene che il loro ruolo è necessario e niente affatto contrario alla vocazione del cristiano ed alla religione cristiana. Scriveva poi S. Roberto Bellarmino, polemizzando in particolare con gli anabattisti “compito di un buon principe, al quale è affidata la protezione del bene comune, impedire che le parti corrompano il tutto, per il quale esistono; di conseguenza se non può conservare integre tutte le parti, deve piuttosto recidere una parte che lasciar perire il bene comune; come i contadini recidono i rami e i tralci che danneggiano la vite o l’albero, e il medico amputa le membra, che potrebbero corrompere il corpo”. (7). La distinzione quindi tra morale “pubblica” e “privata” (e relative “sfere”) è saldamente stabilita. Quel che è vietato al privato è concesso - anzi è dovere - dell’uomo pubblico. Ciò conferma il rapporto dell’etica cristiana con l’ordine: il bene morale è in riferimento all’ordine dell’esistenza e della vita, cui deve conformarsi il comportamento del credente. Ordine che non può sussistere (e durare) senza distinzioni di ruoli, di funzioni, e quindi di comportamenti: la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra funzione pubblica e attività privata, tra azioni vietate, permesse o comandate a seconda del ruolo sociale dell’autore, ed in funzione della conservazione della comunità, come essere ordinato (8).
Con l’età moderna, il tutto è ancora più chiaro. A partire da Machiavelli (è inutile ricordarlo data la notorietà universale delle sue tesi), per seguire con Hobbes. Quanto all’etica (politica) Hobbes scrive: “La virtù di un suddito è interamente compresa nell’obbedienza alle leggi dello stato”; e “Le virtù dei sovrani sono quelle che tendono al mantenimento dell’ordine all’interno, ed alla resistenza contro i nemici stranieri”; e conclude “tutte le azioni e abitudini devono essere considerate buone o cattive in base alle loro cause, ed alla loro utilità in relazione allo Stato, e non in base alla loro mediocrità, o al fatto che siano lodate”.
Ma è Montesquieu che, preoccupatissimo che la virtù dallo stesso ritenuta principio di governo fosse intesa erroneamente, nell’Avertissement all’Esprit des lois (cioè nella prefazione alla celebre opera) avvisa il lettore che la virtù di cui parla non è quella del buon padre di famiglia, tutto casa e chiesa – e lavoro – ma l’amor di patria.
Scendendo (e omettendo tanti pensatori) ricordiamo che Benedetto Croce ripeteva anch’egli la stessa concezione: “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’«onestà» nella vita politica.
L’ideale che canta nell’anima di tutti gl’imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorte d’areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia per altro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica.
Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo… nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatoria, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini”. E ne concludeva che “l’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serve da strumento di vita morale” e soprattutto “non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica: prima il “vivere” (dicevano gli antichi), e poi il “ben vivere”. Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo. E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica” (9).
La pertinenza di una diversa etica al governante o al governato, inclinante la prima verso il “tipo ideale” dell’etica della responsabilità l’altra verso quella dell’etica dell’intenzione (10) era l’opinione di Max Weber, il quale scriveva (11): “l’etica assoluta non si preoccupa delle conseguenze”; e invece la politica – e l’uomo politico, proprio a quelle per primo deve pensare, non foss’altro perché le sue azioni si ripercuotono sugli interessi di molti uomini. Da qui la nota distinzione di Weber tra etica della convinzione e etica della responsabilità. Per cui “v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale – in termini religiosi – suona: “Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio”, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni” e proseguiva: “Anche i primi cristiani sapevano che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo” (12).
Hegel era sospettoso verso la concezione della virtù dei suoi contemporanei: “il discorso sulla virtù, però, sconfina facilmente nella vuota declamazione, perché se ne parla solo come di un’entità astratta e indeterminata, e, analogamente, un tale discorrere, con le sue ragioni e le esposizioni si rivolge all’individuo come un arbitrio e capriccio soggettivo” (13), e probabilmente pensava che tanto parlare di virtù fosse ipocrisia. “nell’ipocrisia, infatti, si aggiunge la determinazione formale della non-verità – cioè della falsità – di affermare il Male come buono innanzitutto per altri, e di porsi esteriormente, in generale, come buono, coscienzioso, pio, ecc. – e questa, in tal modo, è soltanto un’acrobazia dell’atteggiamento che vuole ingannare gli altri (14).
Mette in guardia contro le visioni della moralità secondo cui quest’ultimo sarebbe permanente e soltanto una lotta ostile contro il proprio appagamento (come per gli antichi stiliti). E prosegue: “è proprio tale intelletto astratto a produrre quella visione psicologica della storia che mira a ridimensionare e disprezzare tutti i grandi atti e i grandi individui… Si tratta della visione dei camerieri psicologici, «per i quali non ci sono eroi, non perché questi non siamo eroi, ma perché quelli sono soltanto camerieri»” (15).
La frase di Hegel è ripetuta nei Lineamenti di filosofia del diritto, (par. 124) con modifiche dalla Fenomenologia dello Spirito, e ancora nelle Lezioni di filosofia della storia.
C’è poi da chiedersi se quel riferimento a Kant fosse un sottile invito alla platea a leggersi il filosofo di Könisberg.
Infatti se appare chiaro che nelle concezioni dei moralisti-chic non è chiara la distinzione tra morale e diritto, da ciò derivano due conseguenze: o si giuridifica (e si giudiziarizza) la norma morale o si moralizza quella giuridica. Ma è proprio Kant che nella Metafisica dei costumi ha distinto nettamente (e persuasivamente) morale e diritto; il cui fundamentum distinctionis è la coazione: “al diritto è quindi immediatamente connessa, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” (16). La legge universale del diritto è: “Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale” (17).
Quando scrive di etica di converso sostiene che “il sistema della dottrina generale dei doveri si divide in dottrina del diritto (iurisprudentia), che è suscettibile di essere tradotta in leggi esterne, e in dottrina della virtù (ethica), che sfugge a ogni legislazione di tal genere… Siccome però l’uomo è un essere libero (morale), il concetto del dovere, se si considera la determinazione interna della volontà (l’impulso), non può contenere altra costrizione se non quella che ci imponiamo da noi stessi” e prosegue: “Gli impulsi della natura rappresentano dunque nel cuore dell’uomo degli ostacoli all’adempimento del dovere, e vi oppongono delle forze potenti, che egli deve sentirsi in grado di combattere e di vincere con la ragione”.
Per cui a Kant sarebbe risultata a dir poco bizzarra l’idea, probabilmente maggioritaria in quella platea di dover imporre la morale con i carabinieri, i procuratori, o, almeno, con gli avvocati. Almeno quanto lo sarebbe pensare a norme giuridiche affidate alle buone intenzioni (e soltanto a quelle) degli uomini.
Si può replicare che la (pretesa) intemperanza sessuale di Berlusconi lede l’ “immagine dell’Italia”. Ma anche qua l’apprezzamento è del tutto soggettivo, dato che pretende di attribuire all’estero le stesse opinioni della platea. E perché mai? Avete sentito di una guerra (che è “continuazione della politica con altri mezzi”) scoppiata per questioni di “letto”? Io si: la guerra di Troia. Ma ho sempre pensato che lo stesso Omero nel tramandarla, dubitasse che tutto quello sconquasso fosse stato causato da una regina allegra, un principe intemperante e un re cornuto. E che tanti Achei si fossero fatti ammazzare per vendicare l’onore reale.
Note:
(1) Gorgia 491, a.
(2) Politica, III, 4, 1277 a-b, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, 2002.
(3) De Republica, Lib. I, II.
(4) Ibidem, Lib. VI, III.
(5) LUTERO, Sull’autorità temporale, Oevreus, tome IV, p. 23, Ginevra 1975.
(6) Op. cit., p. 29.
(7) S. ROBERTO BELLARMINO in Scritti politici, Torino 1950, p. 250.
(8) Behemoth, trad. it., Bari 1979, p. 53.
(9) L’onestà politica ora in Etica e politica, Bari 1931, pp. 165-166.
(10) In effetti ci si trova costretti a dare, per ragioni di spazio una esposizione quanto mai concisa di una doppia distinzione: governante/governato – etica della responsabilità/etica dell’intenzione, in relazione al metodo weberiano dei tipi ideali, cui forzatamente potrebbero trovarsi tante eccezioni e precisazioni. Ce ne scusiamo e rinviamo il lettore a una lettura di Max Weber, in particolare al “Politik als beruf”.
(11) Politik als Beruf, trad. it. ne “Il lavoro intellettuale come professione”, Torino 1966, p. 109.
(12) Op. cit. p. 113.
(13) Lineamenti di filosofia del diritto, § 150.
(14) Ibidem § 140.
(15) Ibidem § 124.
(16) Die Metaphysik der Sitten, Introduzione alla dottrina del diritto, § D.
(17) Op. cit., § C.
CONSIGLI DI LETTURA
È riportato dalla stampa che alla manifestazione di “Libertà e giustizia” uno degli intellettuali convocati avrebbe detto che la sera non guarda la televisione, preferendo leggere Kant.
Dato che il contesto generale era quello della stigmatizzazione moralistica del comportamento del Presidente del Consiglio; secondo i promotori (v. le recenti proposte di patrimoniale) poco impegnato – come i governanti di centro-sinistra – a mettere le mani nel portafoglio dei cittadini, perché le tiene occupate a palpeggiare le zone erogene delle starlettes. Onde, per tanto (e svariato) palpeggio è tenuto a dimettersi dalla carica, a dispetto della maggioranza che l’ha votato.
Mi sono chiesto se filosofia (e morale) davano veramente un supporto alla tesi del raduno dei moralisti chic, ovvero se si possono trarre dalla cultura occidentale – filosofica o teologica in primis, conclusioni contrarie a quelle dei talebani dell’imperativo categorico.
Il punto è che da circa venticinque secoli gran parte della cultura occidentale si basa sulla distinzione tra pubblico e privato e tra quanto conviene all’uomo pubblico ed a quello privato.
Cominciamo da Platone: nel Gorgia Callicle sostiene la tesi secondo cui Socrate propugnerebbe scelte morali che si addicono all’idiotes, all’uomo privato, non a quello pubblico. “Sei tu che continui a parlare di ciabattini, cuochi, medici: come se il nostro discorso riguardasse questo tipo di persone” (1).
Qualche decennio dopo Aristotele nella politica, interrogandosi su cosa sia la virtù (del cittadino), sostiene: «Ma c’è una forma di comando col quale l’uomo regge persone della stessa stirpe e libere. Questa forma di comando noi diciamo politica […] La virtù di chi comanda e di chi obbedisce è diversa, ma il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino […]» (2).
Passando per il mondo romano, Cicerone sostiene che la virtù si esercita soprattutto nel governo dello Stato e nell’azione politica (3). Riserva l’eterna beatitudine in coelo definitum locum a coloro che hanno salvato, aiutato, ingrandito la patria (4) (la patria quindi e non la castità).
E il cristianesimo? Nella polemica con le concezioni ireniche del cristianesimo la massima “non uccidere” era distinta se riferita al credente non esercitante funzioni di governo da coloro che queste esercitavano. Scrive Lutero: «Se tu non hai bisogno che il tuo nemico sia punito, il tuo vicino che è debole, ne ha necessità e devi venirgli in aiuto perché abbia la pace e il suo nemico sia represso. E ciò non può verificarsi se potere e autorità non sono onorati e rispettati. Cristo non dice “Non devi servire l’autorità né essere sottomesso, ma “Non devi resistere al male” (5). In particolare all’autorità compete di mantenere l’ordine e il diritto, perché istituita da Dio in vista di tale fine. “Se il potere e la spada sono un servizio divino, come ho provato sopra, tutto ciò che è necessario al potere per impiegare la forza, dev’essere anch’esso un servizio divino. Occorre che ci sia qualcuno per catturare i delinquenti, accusarli, punirli e metterli a morte, e per proteggere, discolpare, difendere e salvare gli uomini virtuosi» (6). Poco dissimile è la concezione di Calvino. Questi ritiene i magistrati “vicari di Dio”, “servitori della giustizia”; rifiutando la posizione degli anabattisti, ritiene che il loro ruolo è necessario e niente affatto contrario alla vocazione del cristiano ed alla religione cristiana. Scriveva poi S. Roberto Bellarmino, polemizzando in particolare con gli anabattisti “compito di un buon principe, al quale è affidata la protezione del bene comune, impedire che le parti corrompano il tutto, per il quale esistono; di conseguenza se non può conservare integre tutte le parti, deve piuttosto recidere una parte che lasciar perire il bene comune; come i contadini recidono i rami e i tralci che danneggiano la vite o l’albero, e il medico amputa le membra, che potrebbero corrompere il corpo”. (7). La distinzione quindi tra morale “pubblica” e “privata” (e relative “sfere”) è saldamente stabilita. Quel che è vietato al privato è concesso - anzi è dovere - dell’uomo pubblico. Ciò conferma il rapporto dell’etica cristiana con l’ordine: il bene morale è in riferimento all’ordine dell’esistenza e della vita, cui deve conformarsi il comportamento del credente. Ordine che non può sussistere (e durare) senza distinzioni di ruoli, di funzioni, e quindi di comportamenti: la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra funzione pubblica e attività privata, tra azioni vietate, permesse o comandate a seconda del ruolo sociale dell’autore, ed in funzione della conservazione della comunità, come essere ordinato (8).
Con l’età moderna, il tutto è ancora più chiaro. A partire da Machiavelli (è inutile ricordarlo data la notorietà universale delle sue tesi), per seguire con Hobbes. Quanto all’etica (politica) Hobbes scrive: “La virtù di un suddito è interamente compresa nell’obbedienza alle leggi dello stato”; e “Le virtù dei sovrani sono quelle che tendono al mantenimento dell’ordine all’interno, ed alla resistenza contro i nemici stranieri”; e conclude “tutte le azioni e abitudini devono essere considerate buone o cattive in base alle loro cause, ed alla loro utilità in relazione allo Stato, e non in base alla loro mediocrità, o al fatto che siano lodate”.
Ma è Montesquieu che, preoccupatissimo che la virtù dallo stesso ritenuta principio di governo fosse intesa erroneamente, nell’Avertissement all’Esprit des lois (cioè nella prefazione alla celebre opera) avvisa il lettore che la virtù di cui parla non è quella del buon padre di famiglia, tutto casa e chiesa – e lavoro – ma l’amor di patria.
Scendendo (e omettendo tanti pensatori) ricordiamo che Benedetto Croce ripeteva anch’egli la stessa concezione: “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’«onestà» nella vita politica.
L’ideale che canta nell’anima di tutti gl’imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorte d’areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia per altro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica.
Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo… nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatoria, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini”. E ne concludeva che “l’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serve da strumento di vita morale” e soprattutto “non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica: prima il “vivere” (dicevano gli antichi), e poi il “ben vivere”. Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo. E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica” (9).
La pertinenza di una diversa etica al governante o al governato, inclinante la prima verso il “tipo ideale” dell’etica della responsabilità l’altra verso quella dell’etica dell’intenzione (10) era l’opinione di Max Weber, il quale scriveva (11): “l’etica assoluta non si preoccupa delle conseguenze”; e invece la politica – e l’uomo politico, proprio a quelle per primo deve pensare, non foss’altro perché le sue azioni si ripercuotono sugli interessi di molti uomini. Da qui la nota distinzione di Weber tra etica della convinzione e etica della responsabilità. Per cui “v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale – in termini religiosi – suona: “Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio”, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni” e proseguiva: “Anche i primi cristiani sapevano che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo” (12).
Hegel era sospettoso verso la concezione della virtù dei suoi contemporanei: “il discorso sulla virtù, però, sconfina facilmente nella vuota declamazione, perché se ne parla solo come di un’entità astratta e indeterminata, e, analogamente, un tale discorrere, con le sue ragioni e le esposizioni si rivolge all’individuo come un arbitrio e capriccio soggettivo” (13), e probabilmente pensava che tanto parlare di virtù fosse ipocrisia. “nell’ipocrisia, infatti, si aggiunge la determinazione formale della non-verità – cioè della falsità – di affermare il Male come buono innanzitutto per altri, e di porsi esteriormente, in generale, come buono, coscienzioso, pio, ecc. – e questa, in tal modo, è soltanto un’acrobazia dell’atteggiamento che vuole ingannare gli altri (14).
Mette in guardia contro le visioni della moralità secondo cui quest’ultimo sarebbe permanente e soltanto una lotta ostile contro il proprio appagamento (come per gli antichi stiliti). E prosegue: “è proprio tale intelletto astratto a produrre quella visione psicologica della storia che mira a ridimensionare e disprezzare tutti i grandi atti e i grandi individui… Si tratta della visione dei camerieri psicologici, «per i quali non ci sono eroi, non perché questi non siamo eroi, ma perché quelli sono soltanto camerieri»” (15).
La frase di Hegel è ripetuta nei Lineamenti di filosofia del diritto, (par. 124) con modifiche dalla Fenomenologia dello Spirito, e ancora nelle Lezioni di filosofia della storia.
C’è poi da chiedersi se quel riferimento a Kant fosse un sottile invito alla platea a leggersi il filosofo di Könisberg.
Infatti se appare chiaro che nelle concezioni dei moralisti-chic non è chiara la distinzione tra morale e diritto, da ciò derivano due conseguenze: o si giuridifica (e si giudiziarizza) la norma morale o si moralizza quella giuridica. Ma è proprio Kant che nella Metafisica dei costumi ha distinto nettamente (e persuasivamente) morale e diritto; il cui fundamentum distinctionis è la coazione: “al diritto è quindi immediatamente connessa, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” (16). La legge universale del diritto è: “Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale” (17).
Quando scrive di etica di converso sostiene che “il sistema della dottrina generale dei doveri si divide in dottrina del diritto (iurisprudentia), che è suscettibile di essere tradotta in leggi esterne, e in dottrina della virtù (ethica), che sfugge a ogni legislazione di tal genere… Siccome però l’uomo è un essere libero (morale), il concetto del dovere, se si considera la determinazione interna della volontà (l’impulso), non può contenere altra costrizione se non quella che ci imponiamo da noi stessi” e prosegue: “Gli impulsi della natura rappresentano dunque nel cuore dell’uomo degli ostacoli all’adempimento del dovere, e vi oppongono delle forze potenti, che egli deve sentirsi in grado di combattere e di vincere con la ragione”.
Per cui a Kant sarebbe risultata a dir poco bizzarra l’idea, probabilmente maggioritaria in quella platea di dover imporre la morale con i carabinieri, i procuratori, o, almeno, con gli avvocati. Almeno quanto lo sarebbe pensare a norme giuridiche affidate alle buone intenzioni (e soltanto a quelle) degli uomini.
Si può replicare che la (pretesa) intemperanza sessuale di Berlusconi lede l’ “immagine dell’Italia”. Ma anche qua l’apprezzamento è del tutto soggettivo, dato che pretende di attribuire all’estero le stesse opinioni della platea. E perché mai? Avete sentito di una guerra (che è “continuazione della politica con altri mezzi”) scoppiata per questioni di “letto”? Io si: la guerra di Troia. Ma ho sempre pensato che lo stesso Omero nel tramandarla, dubitasse che tutto quello sconquasso fosse stato causato da una regina allegra, un principe intemperante e un re cornuto. E che tanti Achei si fossero fatti ammazzare per vendicare l’onore reale.
Note:
(1) Gorgia 491, a.
(2) Politica, III, 4, 1277 a-b, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, 2002.
(3) De Republica, Lib. I, II.
(4) Ibidem, Lib. VI, III.
(5) LUTERO, Sull’autorità temporale, Oevreus, tome IV, p. 23, Ginevra 1975.
(6) Op. cit., p. 29.
(7) S. ROBERTO BELLARMINO in Scritti politici, Torino 1950, p. 250.
(8) Behemoth, trad. it., Bari 1979, p. 53.
(9) L’onestà politica ora in Etica e politica, Bari 1931, pp. 165-166.
(10) In effetti ci si trova costretti a dare, per ragioni di spazio una esposizione quanto mai concisa di una doppia distinzione: governante/governato – etica della responsabilità/etica dell’intenzione, in relazione al metodo weberiano dei tipi ideali, cui forzatamente potrebbero trovarsi tante eccezioni e precisazioni. Ce ne scusiamo e rinviamo il lettore a una lettura di Max Weber, in particolare al “Politik als beruf”.
(11) Politik als Beruf, trad. it. ne “Il lavoro intellettuale come professione”, Torino 1966, p. 109.
(12) Op. cit. p. 113.
(13) Lineamenti di filosofia del diritto, § 150.
(14) Ibidem § 140.
(15) Ibidem § 124.
(16) Die Metaphysik der Sitten, Introduzione alla dottrina del diritto, § D.
(17) Op. cit., § C.
Teodoro Klitsche de la Grange
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