martedì 23 settembre 2008

Palestina: storia fotografica dell’occupazione sionista dagli albori ai giorni nostri

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Ricerche correlate: 1. Monitoraggio di «Informazione Corretta»: Sezioni tematiche. – 2. Osservatorio sulle reazioni a Mearsheimer e Walt. – 3. L’11 settembre: misteri, dubbi, problemi. – 4. Rudimenti sul Mossad: suo ruolo e funzione nella guerra ideologica in corso. – 5. La pulizia etnica della Palestina. – 6. Studio delle principali Risoluzioni ONU di condanna a Israele. – 7. Cronologia del conflitto ebraico-palestinese. – 8. Boicottaggio prossimo venturo: la nuova conferenza di Durban prevista per il gennaio 2009. – 9. Teoria e prassi del diritto all’ingerenza. – 10. Per una critica italiana a Daniel Pipes. – 11 Classici del sionismo e dell’antisionismo: un’analisi comparata. – 12. Letteratura sionista: Sez. I. Nirenstein; II. Panella; III. Ottolenghi; IV. Allam; V. Venezia; VI. Gol; VII. Colombo; VIII. Morris; – 13. La leggenda dell’«Olocausto»: riapertura di un dibattito. – 14. Lettere a “La Stampa” su «Olocausto» e «negazionismo» a seguito di un articolo diffamatorio. – 15. La sotterranea guerra giudaico-cristiana dei nostri giorni. – 16. Jürgen Graf: Il gigante dai piedi di argilla. – 17. Carlo Mattogno: Raul Hilberg e i «centri di sterminio» nazionalsocialisti. Fonti e metodologia. – 18. Analisi critica della manifestazione indetta dal «Riformista». – 19. Controappello per una pace vera in Medio Oriente. –


Di ritorno da una libreria Feltrinelli mi è capitato di vedere un bel volume, una storia fotografica dell’occupazione della Palestina, dal 1967 al 2007, fotografata tutta dall’angolo visuale del vincitore e occupante: si legga la recensione di De Luna, che riporto integralmente, sottraendolo ai benevoli commenti dei “Corretti Informatori”:
Moshe Dayan, affiancato da Yitzhak Rabin e Uzi Narkiss, varca la Porta dei Leoni nella città vecchia di Gerusalemme. E’ appena finita la guerra del 1967. I tre vincitori sono consapevoli della presenza dei fotografi (è stato lo stesso Dayan a convocarli) ma non guardano verso l’obiettivo; i loro occhi spaziano lontano, abbracciano tutto l’orizzonte: è uno sguardo da padroni, ma il loro sorriso è anche quello di chi si sente finalmente a casa. Comincia così, con questa immagine, l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, un’immagine che la studiosa israeliana Ariella Azoulay ha scelto come foto-simbolo per il suo libro Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967- 2007. Storia fotografica dell’occupazione (a cura di Maria Nadotti, Bruno Mondadori, pp. 313, e55). Si tratta di 700 scatti che provengono dagli archivi di oltre 70 fotografi, quasi tutti israeliani (nelle strade dei Territori furono affissi cartelli con il divieto di fotografare). Azoulay è consapevole della loro intenzionalità, sa benissimo cosa significhi che siano gli israeliani a fotografare e i palestinesi a essere fotografati e del complesso intreccio che si stabilisce tra gli uni e gli altri. Ma proprio questa consapevolezza segnala il suo libro come uno degli esempi più efficaci di come si possano usare le fotografie per raccontare la storia. Non sono immagini che illustrano il testo, che servono da contorno alla narrazione: parlano da sole, ci restituiscono una realtà altrimenti destinata alle nebbie dell’incertezza e dell’ignoranza. A seconda dei punti di vista i Territori sono considerati «occupati», «liberati», oppure - ed è questa la terminologia ufficiale israeliana - «sotto custodia». Quale che sia la definizione da adottare, le immagini ci mostrano un’esistenza collettiva scandita dalla violenza e dalla brutalità (scontri, demolizioni di case, scioperi del commercio, arresti di massa), ma anche punteggiata da oasi di irreale normalità, da momenti di serenità inaspettati. Nonostante la censura, la propaganda, spesso a dispetto delle intenzioni di chi le ha scattate, quelle fotografie creano uno spazio di relazione tra vincitori e vinti, consentono a chi è stato ridotto alla condizione di apolide e privato della cittadinanza di trovare uno spazio pubblico in cui emergere dall’invisibilità e dalla rimozione. «Atti di Stato» sono quelli che in altre circostanze sarebbero definiti come crimini e che invece possono essere impunemente commessi da individui a cui lo Stato garantisce la piena immunità. Ce ne sono molti nel libro. Due per tutti, non cruenti e proprio per questi esemplari: la famiglia cacciata dalla propria casa perché i soldati israeliani possano assistere ai mondiali di calcio; il piccolo sciuscià palestinese che lucida gli scarponi di un civile israeliano, travestito da ufficiale. Una domesticità infranta, un’infanzia abbandonata: la riproposizione, per noi italiani, degli incubi di un passato non ancora cancellato.
Il prezzo per acquistarlo mi è parso proibitivo, ma ho potuto carpirne l’idea che ne sta alla base, un’idea non protetta da copyright. Inoltre non mi è sufficiente il termine temporale a quo. L’occupazione ha inizio molto prima, in pratica da quando si può documentare un apposito disegno di occupazione di un territorio noto come Palestina e ribattezzato dagli occupanti con il nome di Israele. Una documentazione fotografica dovrebbe partire dagli inizi stessi del sionismo, certamente anteriori al 1967 ma successivi all’invenzione del dagherrotipo. Se è vero che un’immagine vale 1000 parole, si può scrivere per i tempi moderni una storia fatta di immagini, dove le didascalie sono un necessario complemento. Del resto, è proprio su una visione di corto raggio che si basano tutti i tentativi israeliani di auto-legittimazione: abbiamo vinto nell’ultimo scontro ed è da questo momento in cui sorge il diritto! Il passato non conta. Scordiamocelo, secondo una noto proverbio napoletano. La Memoria non è solo quella che immagina l’on. Furio Colombo, cui si deve la celebrazione nelle scuole di una Memoria che non ci riguarda e che è profondamente autolesionista. Esiste anche la memoria dei vinti. Esistono tante memorie diverse per ogni individuo che ha vissuto lo stesso evento. In rete sono presenti moltissime immagini riguardanteila moderna Guerra dei Cento Anni e i momenti del secolare processo di occupazione dei territori palestinesi. Il guaio è che queste immagini sono spesso prive di didascalie. Non si sa bene dove e quando sono state scattate e a cosa esattamente si riferiscono. Ciò che in questo post mi accingo a fare è una raccolta sistematica di immagini, cercando per ognuna di esse di darne la fonte originale, la cronologia e un’adeguata didascalia. Mi rendo conto che è facile incorrere in errori, ma mi dichiaro fin d’ora pronto a correggerli appena mi verranno segnalati. La realtà dell’occupazione è di per sé tanto tragica ed eloquente da non aver nessun bisogno di consapevoli falsificazioni. Confido nella collaborazione dei lettori per sviluppare il progetto. Se vi saranno per le singole immagini questioni di copyright, non avrò difficoltà a rimuovere il file appena ciò mi verrà richiesto o segnalato. Sempre, potendo, darò tutte le indicazioni sulle fonti da cui attingo. Per “fonte” intendo qui, più sotto, non quella originaria, ma quella da cui ho potuto concretamente e casualmente attingere. La vera e propria citazione iconografica potrò darla con la dovuta evidenza solo se e quando ne verrò a conoscenza. Il Sommario sarà continuamente rielaborato via via che aumenterà il patrimonio di immagini. I criteri per la loro migliore sistemazione e fruibilità si verranno via via precisando e perfezionando.

Versione 1.9
status: 9.11.08
Sommario: 1. King David Hotel. – 2. Piani di spartizione e occupazioni di fatto. – 3. La Nakba. – 4. La Striscia di Gaza. – 5. La Cisgiordania. – 6. Sabra e Shatila. – 7. Prima Intifada. – 8. Seconda Intifada. – 9. La costruzione del Muro. –10. Terza guerra israelo-palestinese. – 11. Akka. – 12. Hebron: una vita da apartheid. – 13. La vita quotidiana a Gaza. – 14. Insediamenti ebraici: a) Kiryat Arba. –

1.
King David Hotel
(26 luglio 1946)
1.1
Fonte

26 luglio 1946: attentato al King David Hotel, per opera dell’Irgun. Se si legge cosa fosse e significasse all’epoca il King David Hotel, credo ben lo si possa paragonare alle Torri Gemelle. L’impatto terroristico non credo sia stato inferiore. Ben si può collegare la nascita dello stato di Israele a questo atto terroristico. Vi furono circa 200 vittime fra ebrei, arabi e inglesi. L’Irgun fu fondato nel 1931 da Avraham Tehomi (1903-1990) a seguito di una spaccatura ideologica e politica con l’Haganah, che quindi preesisteva a dimostrazione di una lunga gestazione del disegno sionista di impadronirsi delle terre dei palestinesi. Non vi è da stupirsi che la volontà di sopraffazione e di conquista violenza formi nel tempo una sua ideologia alla quale si attribuisce perfino il carattere della legittimità. Il gruppo dell’Irgun condusse una sua propria politica basata su attacchi terroristici. Si sciolse dopo il 1948.

1.2
Fonte

L’attentato al King David Hotel fu il più noto atto terroristico dell’Irgun, ma non il solo. Fu portato a termine da sei membri dell’Irgun travestiti da arabi: si noti la perfidia. Morirono un centinaio di persone e non è mai stato chiarito il fatto che gli attentatori avessero avvisato o meno la direzione dell’Hotel mezz’ora prima dell’esplosione. La pratica del terrorismo, il cui termine è oggi usato dai servizi israeliani per delegittimare sul piano della propaganda la resistenza araba, fu una costante del sionismo ed è ancora oggi praticato.

1.3
Fonte

L’attentato al King David Hotel fu il più noto di quelli compiuti dall’Irgun, ma non l’unico. Nella foto a sinistra si vede quel che rimase della sede dell’Intelligence britannica. Al centro si vede una documentazione fotografica dell’attentato all’Ufficio delle Imposte. A destra altra foto del King Davi Hotel dopo l’attentato.

Links:
1. La spartizione e la guerra.
2. Wikipedia: King David Hotel.
3. Stefano Liberti: La sacra alleanza del King David.
4. Irgun Zvai Leumi.
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2.
Piani di spartizione e occupazioni di fatto
(1947, 1948, 1967, 2004)

2.1.
Fonte


2.2
Fonte



2.3
Fonte



2.4
Fonte


«I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto dei villaggi arabi. Voi non li conoscete neanche i nomi di questi villaggi arabi, e io non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più. Non soltanto non esistono i libri, ma neanche i villaggi arabi non ci sono più. Nahlal è sorto al posto di Mahlul, il kibbutz di Gvat al posto di Jibta; il kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tal al-Shuman. Non c'è un solo posto costruito in questo paese che non avesse prima una popolazione araba». David Ben Gurion, citato in The Jewish Paradox, di Nahum Goldmann, Weidenfeld and Nicolson, 1978, p. 99.

3.
La Nakba
(1947-48)

3.1
Fonte

«Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle terre e l’eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba». David Ben-Gurion, Maggio 1948, agli ufficiali dello Stato Maggiore. Da: Ben-Gurion, A Biography, by Michael Ben-Zohar, Delacorte, New York 1978.
3.2
Fonte

3
Fonte

«Ci sono stati l’anti-semitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro in questo cosa centravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?» Riportato da Nahum Goldmann in Le Paraddoxe Juif (The Jewish Paradox), pp. 121-122.


4.
La Striscia di Gaza
(1948-2008)

1
Fonte
Per Striscia di Gaza si intende una parte di territorio risultante dalla spartizione della Palestina, sancita dall’ONU e di dubbia legittimità. Questa spartizione non fu spartizione non fu mai riconosciuta da parte araba, ma solo da parte israeliana che aveva un suo progetto di fondazione dello stato di Israele sul suolo già occupato dai palestinesi. Ad una strategia sionista lungamente meditata e premeditata i palestinesi non erano in grado di opporre nessuna resistenza se non il loro materiale esserci, il loro mero esistere in senso antropologico. La visione sionista presuppone il totale annientamento delle popolazioni indigene, le quali hanno la grave colpa di esistere e di disturbare con la loro stessa presenza. Il problema da un punto di vista israeliano è cosa farne. La pulizia etnica e la progressiva dispersione fu e resta la principale ed unica soluzione mai concepita dai governi israeliani che si sono succeduti, ma era già presente nei pensatori sionisti. Al massimo i palestinesi avrebbe potuto costituire una manodopera a basso prezzo, una specie di schiavi negri. Via via che si affacciò la soluzione dei due stati, volta a scongiurare la più temibile soluzione dello stato unico a carattere egualitario e binazionale, i palestinesi furono relegati nella Striscia quale embrione del futuro stato palestinese. La Strisca fu dapprima amministrata dagli egiziani e dopo la guerra del 1967 passò sotto il dominio israeliano che vi insediarono coloni. Viene presentato come un gesto di buona volontà il fatto che ad un certo punto il governo israeliano abbia deciso di ritirarsi dalla Striscia, lasciandola ai soli palestinesi con un simulacro di Autorità Nazionale Palestinese. Fu una conseguenza necessaria per evitare o un vero e proprio sterminio – impossibile in modo aperto sotto gli occhi della comunità internazionale – o l’evoluzione verso quello Stato Unico binazionale che avrebbe tolto allo stato sionista la caratterizzazione di ebraico. In pratica, la Striscia di Gaza si è venuta caratterizzando come un vero e proprio Lager di 360 kmq, al cui interno vive 1.500.000 di palestinesi con una densità per kmq che è la più alta del mondo e che rende impossibile condizioni civili di esistenza.



Links:
1. Wikipedia: Striscia di Gaza.
2. Oltre il Muro.
3. I giorni della penitenza.
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5.
La Cisgiordania

(1948-2008)
1
Fonte


6.
Sabra e Shatila
(16-18 settembre 1982)

1.
Fonte

2.
Fonte


3.
Fonte


4.
Fonte

7.
Prima Intifada
(1987-1993)

1
Fonte
2.
Fonte

8.
Seconda Intifada
(2000- )

1
Fonte


Links:
1. Israel Shamir: La favola dei due stati.
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9.
La costruzione del Muro

(2002- )

1
Fonte
L’idea e la progettazione del muro risale all’aprile del 2002. Doveva essere lungo 350 km, alto 8 metri e con una zona di rispetto da 30 a 100 metri, in pratica una parte di terreno sottratta ai bisogni alimentari dei palestinesi che spesso vi tenevano il loro orto. Il muro di Berlino era lungo 150 km e alto solo 3,5 m. Ariel Sharon fu l’iniziatore del muro che secondo le motivazioni addotte avrebbe dovuto avere uno scopo difensivo. Una motivazione quanto mai ipocrita che verrà ripetuta regolarmente dalla propaganda mediatica e fatta propria da politici europei sostenitori dell’occupazione israeliana. Il muro fu dichiarato illegale tanto dalla Corte Internazionale di Giustizia quanto dall’Assemblea dell’ONU. Furono 25 i paesi europei che votarono la risoluzione ed Israele - contrario insieme con gli USA - ebbe a definire “vergognosa” la posizione europea. Dovrebbero ricordarsi di ciò quanti oggi proprugano l’ingresso di Israele nell’Unione Europea.

2
Fonte

«Fortuna i bambini, che sono uguali ovunque. La palla, con cui stanno giocando questi bambini palestinesi, sembra l’allegoria del fatto che, indifferentemente dal loro atteggiamento nelle trattative, essa rimbalza sempre e comunque verso il campo palestinese e mai invade il campo d’Israele. I palestinesi giocano sempre a battimuro».

3
Fonte

«Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti». David Ben Gurion, 1937, Ben Gurion and the Palestine Arabs, Oxford University Press, 1985.

Links:
1. L’Assenblea ONU chiede a Israele di smantellare il muro.
2. Il muro in Palestina.
3. Stefania Pizzolla: Il muro della vergogna.
4. Questione Palestina: Dai campi profughi in Siria al muro della vergogna.
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10.
Terza guerra israelo-libanese
(luglio-agosto 2006)

1.
Fonte

Didascalia originale: «Bombardamento israeliano nel cenro di Tiro, sud del Libano».

Links:
1. Wikipedia: Guerra del Libano (2006).
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11.

Akka

(ottobre 2008)

1.
Fonte

2.
Fonte


3.
Fonte

4.
Fonte
Didascalia originale: «Emeutiers juifs à Saint Jean d’Acre, criant des menaces de mort destinées aux habitants arabes - Photo : AP/Muhammed Muheisen»



Links:
1. Infopal: progrom contro gli arabi d’Israele.
2. Osservatorio Iraq: arabo aggredito.
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12.
Hebron: una vita da aparthed
(2008)

1.
Fonte

Da un articolo di Francesca Paci, apparso su “La Stampa” del 21 ottobre 2008, p. 18: «Hebron è la più grande città della Cisgiordania, nota per i vetri raffinati. Dal 1997 è divisa in due: la zona H1, dove vivono 130 mila palestinesi, e la H2, «lo Stato apartheid», come lo chiama lo storico israeliano Zeev Sternell, con 34 mila palestinesi, 600 coloni ebrei, 1500 militari israeliani e 76 posti di blocco. «Da alcune settimane la situazione si è aggravata», ammette Ahmed, mercante di ceramiche all’inizio di Shuada Street, fino al 2000 arteria principale della città vecchia e oggi teatro di scontri quotidiani. Basta aspettare qualche minuto, il tempo che Noam, kippà e pantaloni bianchi da cui spunta una pistola M5, incroci due adolescenti palestinesi affatto disposti a cedere il passo. Sullo sfondo la sagoma imponente della moschea al Ibrahimi, lo stesso maestoso edificio che gli ebrei chiamano Ma’arat Ha-machpela, la grotta dei Patriarchi, il luogo dove entrambi, separati da pesanti sbarre, pregano sulla tomba di Abramo. «Siamo tutti in trincea», continua Ahmed. Coloni contro palestinesi tra i vicoli scoscesi e sulle colline punteggiate di ulivi. Coloni contro militari israeliani, rei, grida Noam al blindato con la stella di David, di servire uno Stato che «cede al nemico la terra di Dio». Palestinesi di Hamas, che gode dell’80 per cento dei consensi, contro i fratelli l’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen, il cui mandato scade a gennaio. Una sassaiola incrociata che non risparmia neppure le vetture «peacekeepers» della Tiph, la missione di osservazione internazionale di cui fa parte una squadra di carabinieri italiani. «Hebron è un caso unico, il feudo di Hamas. La legge di Dio qui conta più della politica», spiega l’analista Idhin Tamini. Nawal Akram ripone le sciarpe tessute a mano dalle donne della cooperativa Jaffa nel negozio alla fine del mercato della frutta e aspetta il marito che viene a prenderla ogni sera: «Sono l’unica donna, gli altri commercianti non mi vogliono. La mentalità è tradizionale e l’occupazione israeliana amplifica la chiusura». Laurea in scienze dell’educazione, 42 anni, 2 bimbi, Nawal è un’eccezione tra le coetanee che ne hanno almeno sei. «Hamas ha grandi infrastrutture - continua Tamini -. Nonostante dall’inizio di ottobre le forze di sicurezza comandate da Ramallah abbiano chiuso parecchie associazioni caritatevoli e arrestato 30 persone, il sostegno ai più bisognosi continua sotto banco». Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) l’86,7 per cento dei palestinesi della H2 vive sotto la soglia di povertà e si arrangia con 2 euro al giorno. Uno su 4 conta sulla razione mensile dell’Icrc, farina, olio, zucchero, tonno. «La crisi finanziaria inasprirà la situazione nei territori palestinesi dove, a scapito della pace, torneranno fame e disoccupazione», osserva Gil Feiler, direttore dell’Istituto di ricerca economica del Medioriente di Herzlyia. Molti considerano Hebron il laboratorio della terza intifada, il termometro delle tensioni in Cisgiordania. La settimana scorsa, quando gli agenti dell’Autorità Palestinese hanno denunciato agli israeliani il tunnel scavato sotto il check point di Tarqumia accusando Hamas, Hebron ha temuto la guerra civile. «A chi serve un tunnel così?», si chiede Idhin Tamini. «Hebron non è Gaza, il mercato è pieno di armi illegali». Un cielo cupo attende, a giorni, l’arrivo dei 700 nuovi poliziotti di Fatah addestrati in Giordania dagli americani. «La collaborazione con la sicurezza palestinese è un successo», giura Peter Lerner, portavoce dell’amministrazione civile israeliana. Il vecchio Assad spegne l’ultima sigaretta e incatena la bottega, nella città dei vetri in frantumi non si sa mai».

Da una cronaca di Michele Giorgio apparsa sul Manifesto dell’8 novembre 2008: «Regna l’abituale confusione a Bab Zawiye. Ambulanti che urlano, acquirenti scettici, taxi che fanno lo slalom tra le bancarelle. Le scolaresche sciamano per le strade intasate di automobili. A pochi metri dal quartiere palestinese c'è l'altra Hebron, la zona H2, controllata dall'esercito israeliano, per la quale si aggirano solo sparuti gruppi di coloni ebrei e pattuglie della polizia. I palestinesi che abitano lì si comportano come topi: rintanati in casa, fanno di tutto per evitare i coloni, che nelle ultime settimane sono più aggressivi del solito. I settler sono infuriati con il governo e con l'esercito israeliano, ma sfogano loro rabbia soprattutto contro i palestinesi». Andando alla fonte si trovano altre immagini della stessa serie ed anche video YouTube.

Links:
1. International Solidarity Movement.
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13.
La vita quotidiana a Gaza

1.
Fonte
Da un articolo di Michele Giorgio sul “Manifesto” del 21 ottobre 2008, p. 11: «Trovare una bombola del gas è una impresa, anche cucinare è un lusso. Mi chiedo come faremo a riscaldarci durante l'inverno». Guida con attenzione Raed mentre corre verso Rafah. Racconta la vita quotidiana di Gaza che non è cambiata da quando Israele e Hamas, lo scorso giugno, hanno deciso di rispettare una tregua di sei mesi che, con ogni probabilità, verrà prolungata. «È cambiato poco qui a Gaza - prosegue Raed - certo non dobbiamo più preoccuparci per le incursioni (israeliane), abbiamo l'elettricità e la benzina per le automobili ma la chiusura è sempre la stessa. Mancano tante cose». Riferisce il caso di un bimbo, Ahmad, di pochi mesi intollerante al latte in polvere. «Può bere solo un latte speciale - spiega - ma qui non si trova e i genitori affidano le loro speranze agli stranieri che entrano ed escono da Gaza. Solo loro possono portare al bimbo quel latte, comprandolo in Israele. Ma non sempre le cose vanno per il verso giusto». Un caso che parla per tanti altri in una Gaza dove la gente passa parte del suo tempo a cercare prodotti divenuti rarissimi o scomparsi del tutto. Israele lascia passare e con il contagocce solo ciò che giudica «prioritario», il minimo indispensabile per non portare al disastro umanitario un milione e mezzo di palestinesi ed evitare condanne internazionali. Afferma di voler strangolare il movimento islamico al potere a Gaza da giugno 2007 ma a soffocare sono solo i civili. «Per trovare le cose che mancano nei negozi non si può far altro che andare a Rafah, sperando che dalle viscere della terra arrivino in superfice i prodotti cercati invano da altre parti», dice Raed riferendosi ai tunnel tra Gaza e l'Egitto attraverso i quali passa di tutto: taniche di carburante, medicine, bombole del gas, lavatrici e frigoriferi smontati, sigarette, dolciumi, profumi, e naturalmente armi e soldi. Un traffico immenso a giudicare dalle numerose tende erette sugli ingressi dei tunnel ad appena qualche decina di metri dal confine. Se ne contano decine, ma secondo la gente del posto sarebbero oltre 200. Alcuni tunnel sono guardati a vista da agenti della polizia di Hamas, altri sono stati abbandonati, altri ancora sono all'interno delle abitazioni di famiglie di Rafah per che anni hanno gestito il contrabbando con l'Egitto. «Queste famiglie hanno dovuto piegarsi agli ordini di Hamas, i traffici ora sono regolati, il governo vuole sapere tutto quello che passa nei tunnel, non sfugge più nulla alla polizia», spiega Abu Firas, contrabbandiere di sigarette egiziane sino ad un anno fa ma ora semplice «grossista» delle merci che passano sotto terra. «Le cose sono cominciate a cambiare la scorsa primavera, dopo che gli egiziani hanno richiuso il valico di Rafah (aperto con la forza dai miliziani di Hamas a gennaio, ndr)», racconta Abu Firas mentre con una mano si protegge gli occhi dalla luce del sole. «Hamas ha capito che l'Egitto non si metterà contro Israele (tenendo aperta Rafah, ndr) e che solo grazie ai tunnel è possibile far entrare quello che serve a Gaza». Secondo alcune stime 1/3 di tutta l'attività economica della Striscia è generata dal contrabbando. A Rafah nessuno osa sfidare gli ordini tassativi giunti dal governo di Hamas. I tunnel ufficialmente rimangono illegali ma vengono tollerati perché sono il tubo che porta ossigeno alla popolazione, il modo per allentare le tensioni sociali ma anche una delle ultime strade che permettono ad Hamas di ricevere il denaro in contanti che serve per pagare la sua struttura amministrativa e di sicurezza. «Prestiamo grande attenzione al movimento sotterraneo, non lasciamo passare sostanze e prodotti illegali, come armi e droga, ma solo effettivamente ciò che serve a Gaza», ha dichiarato qualche giorno fa Ehab Ghussen, il portavoce del ministero dell'interno di Hamas, confermando da un lato la legittimità ormai data ai tunnel e dall'altro di lanciare messaggi rassicuranti all'Egitto. Il governo islamico non ha alcuna intenzione di bloccare l'attività sotterranea che ha generato anche un considerevole indotto. Nafez Abu Rahme, un elettricista, da alcuni mesi riesce a sfamare la famiglia grazie ai cavi e le lampadine che vende agli ommal (lavoratori), come a Rafah chiamano quelli che scavano i tunnel. «A coloro che accettano di dichiarare spontaneamente le merci in transito per i loro tunnel e di versare una tassa al governo, Hamas garantisce l'illuminazione gratuita», dice Abu Rahme che ci tiene a far sapere che sotto terra passa davvero di tutto. «Un mio amico ha acquistato una motocicletta in Egitto e smontata, pezzo dopo pezzo, è riuscito a riceverla a Rafah» riferisce con soddisfazione. Ci sono poi le richieste speciali che non riguardano solo beni di lusso, come lettori di cd dell'ultima generazione o cosmetici prodotti in Europa, ma anche farmaci per malati terminali che scarseggiano negli ospedali di Gaza. Di pari passo con l'aumento delle richieste, sale il numero di coloro che sono pronti a calarsi in un tunnel in cambio di una commissione sulle merci da portare in superfice. «Chi va sotto terra prende una percentuale sul valore complessivo dei prodotti, tra il 5 e il 10%. Ma chi ha bisogno di soldi subito accetta di entrare nei tunnel anche per 1.500 shekel (circa 400 dollari)», spiega Abu Firas.
Una necessità che può costare la vita. Gli egiziani hanno deciso di dare la caccia ai tunnel, sotto la pressione di Israele e degli Stati uniti, e non esitano a farli saltare immediatamente quando li individuano. Nell'ultimo mese hanno distrutto almeno 42 gallerie sotterranee. Ad aiutarli, scriveva qualche giorno fa Alex Fishman sul quotidiano israeliano Yediot Ahronot, sarebbero giunti dei macchinari speciali in dotazione all'esercito Usa. Non solo, ha aggiunto Fishman, ma genieri statunitensi opererebbero accanto a quelli egiziani nelle perlustrazioni alla ricerca dei tunnel. Per le esplosioni causate dagli egiziani, cedimenti strutturali e altri incidenti, almeno 39 palestinesi sono morti nei tunnel dall'inizio dell'anno. Gli ultimi due appena qualche giorno fa, a causa dell'esplosione del gas fuoriuscito dalle bombole del gas che stavano trascinando. «La miseria, la disperazione, l'urgenza di trovare un lavoro, la famiglia da sfamare spingono tanti palestinesi di Gaza, specie i più giovani, a rischiare la vita sotto terra», ha denunciato la scorsa settimana il centro per i diritti umani al Mezan. Hamas qualche settimana fa ha ordinato ai «datori di lavoro» di corrispondere un risarcimento alle famiglie dei morti nei tunnel. «È giusto - commenta Abu Rahme - questo è un lavoro come tanti altri, anzi meglio di altri, perché fa sopravvivere Gaza».

14.
Insediamenti ebraici: a. Kiryat Arba
(status al novembre 2008)

Kiryat Arba come insediamento israeliano risale al 1968. È il più grande degli insediamenti illegali e conta circa 6000 persone. È strettamente collegata alla situazione in Hebron, da cui dista poco. Le case che si vedono in basso sono di palestinesi. Accedendo direttamente alla fonte indicata si trovano un intero album con particolari ingranditi. Le più recenti notizie, in data 8 novembre 2008, dicono che
Gli ultimi, gravi scontri si sono avuti qualche notte fa, non lontano dall'insediamento ebraico di Kiryat Arba, quando decine di estremisti si sono scatenati lanciando sassi contro le case palestinesi, profanando decine di tombe in un cimitero musulmano e fracassando i vetri di un'ottantina di auto arabe. Un raid punitivo contro i palestinesi, seguito alla demolizione da parte dei soldati di un «avamposto colonico», illegale non solo per la legge internazionale ma anche per le autorità di occupazione. «Chiedere aiuto alla polizia palestinese è inutile - spiega sconsolato Fares Sweiki, che abita lungo la strada che collega Kiryat Arba e Hebron - : gli agenti non possono avvicinarsi agli insediamenti, e poi sanno bene che se provassero a difenderci si troverebbero sotto il fuoco dei soldati e dei coloni israeliani».
L’articolo prosegue offrendo uno spaccato sulla odierna
«condizione di Hebron, in modo particolare della sua zona H1 - l'85% della città - ufficialmente sotto il controllo dell'Anp, ma dove in realtà a dettar legge è sempre l'esercito israeliano. Dal 25 ottobre ad accrescere l'amarezza della popolazione contribuisce il dispiegamento di 550 agenti dei reparti speciali delle forze fedeli al presidente Abu Mazen. Uomini addestrati in Giordania con fondi statunitensi ed europei e che l'Anp, dopo aver ricevuto il via libera di Israele, ha inviato a Hebron per riportare «legge e ordine» nelle strade. Ma in città sanno bene qual è il vero compito di questi reparti scelti: fare la guerra ad Hamas, che ha già preso il controllo di Gaza un anno fa e gode di molti consensi anche in Cisgiordania. «Proteggono gli israeliani, non noi: li hanno inviati qui non per difenderci dai coloni ma per aiutare Israele», protesta Musa, un disoccupato. Khaled, commerciante e simpatizzante di Fatah, il partito di Abu Mazen, è deluso: «Hamas non mi piace, ma il problema di Hebron non sono gli islamisti ma l'occupazione e i coloni». I leader locali del movimento islamico preferiscono non incontrare la stampa, specie quella internazionale: sanno di essere nel mirino della forza speciale dell'Anp e non si espongono. Militanti e simpatizzanti di Hamas invece sono meno timorosi. «Il governo di Ramallah (l'Anp di Abu Mazen, ndr) ci fa la guerra mentre dovrebbe lottare contro coloro che occupano la nostra terra», dice Mahmoud J., membro di una delle famiglie più in vista di Hebron. Un suo amico, Mustafa M., non è di Hamas ma punta anche lui l'indice contro l'Anp. «A Ramallah - dice con tono minaccioso - pensano solo a spartirsi i soldi che arrivano dall'estero mentre a Hebron tante famiglie muoiono di fame. Hamas invece aiuta la popolazione e sono certo che non resterà a guardare le azioni del mukhabarat (il servizio di sicurezza)».
Ed ancora prosegue dando una lettura della situazione sul terreno che è ignorata dalla maggior parte della stampa internazionale che tralascia il dato più scottante:
«la presenza di 500 coloni israeliani che di fatto tengono in scacco il futuro di questa città spaccata in due parti. Di fatto l'invio dei 550 agenti speciali dell'Anp a Hebron conferma che l'attuazione della Road Map, da tutti considerata morta, è in atto da mesi. Ma solo da parte palestinese. La prima fase di quel presunto “percorso di pace” tracciato dagli americani ma completato con le condizioni poste dall'ex primo ministro israeliano Ariel Sharon, prevede da parte dell'Anp la cosiddetta «lotta alle infrastrutture del terrorismo», cioè Hamas, e la parallela cessazione delle attività di insediamento in Cisgiordania da parte di Israele che, al contrario, prosegue senza sosta». [Nella foto il generale Keith Dayton «che da circa due anni, per conto degli Stati Uniti (e indirettamente di Israele), sta supervisisionando l’addestramento dei reparti speciali dell’Anp in corso in Giordania e nel centro di intelligence di Gerico».]

2.

Links:
1. International Middle Eas Media Center.
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