lunedì 20 novembre 2017

Il Principe di Gaetano Mosca, recensito da Teodoro Klitsche de la Grange


Gaetano Mosca, Il Principe di Machiavelli, Ed. Il Foglio, Piombino 2017, pp. 103, € 12,00.

Ottima idea questa, di una nuova edizione nella collana “Biblioteca di scienze politiche e sociali”, diretta da Carlo Gambescia e da Jeronimo Molina Cano, del saggio di Gaetano Mosca sul “Principe di Machiavelli” pubblicato (in italiano) nel 1927, in questo volume preceduto da un attento saggio dello stesso Gambescia.

Leggere “il padre nobile” del realismo nelle scienze politiche (e umane), interpretato da uno dei suoi epigoni più brillanti del secolo scorso è sicuramente di grande interesse.

Scrive Gambescia che “Mosca, da scienziato sociale, quindi come ricercatore di costanti, si pone subito due questioni. La sua analisi, sia detto per inciso, va oltre il Principe, per abbracciare l’intero pensiero del Segretario.

La prima: se Machiavelli «può essere considerato come il fondatore, o almeno il precursore, di una vera scienza politica, come colui che, dopo Aristotele, ha per primo enunciato alcuni canoni fondamentali sulla natura politica dell’uomo, ossia sulle tendenze costanti ed indistruttibili che in ogni società umana politicamente organizzata possono riscontrarsi».

La seconda: «Vedere quanto meno se egli è riuscito a formulare una serie di precetti che possono servire come una buona guida pratica agli uomini politici di tutti i tempio e di tutti i luoghi»”; dopo aver tolto di mezzo la questione dell’immoralità del Principe, Mosca si interroga sul Machiavelli fondatore della scienza politica. La sua risposta è negativa: «Machiavelli ebbe senza dubbio due intuizioni felicissime, anzi per i tempi in cui scrisse veramente geniali; egli cioè comprese che la spiegazione della prosperità e della decadenza degli organismi politici va ricercata nell’esame delle loro vicende, e perciò nella storia del loro passato, e comprese pure che, in tutti i popoli arrivati ad un certo grado di civiltà, si possono riscontrare alcune tendenze politiche generali e costanti».

Tuttavia «quando egli scrisse il Principe ed anche i Discorsi, l’indagine e la critica storica erano nell’infanzia»; per cui “non creò una scienza politica perché gli faceva difetto i materiali per costruirla ed anche per gettarne le fondamenta e perciò si limitò, ed altro non poteva fare, a tracciare alcune delle linee sulle quali l’edificio potea sorgere ed a gettarne la prima pietra. Se fosse nato almeno quattro secoli dopo avrebbe probabilmente saputo innalzare qualcuno dei muri maestri”.

Quanto all’altra questione, Mosca da anche qui, da un giudizio negativo, un po’ perché giudica Machiavelli “libresco”; in altre ingenuo (così nell’applicazione ai giorni suoi ed all’Italia delle Signorie di soluzioni adatte a quelli di Scipione ed alla Roma repubblicana); onde Gambescia conclude il proprio saggio introduttivo “gli aspetti deboli dell’approccio machiavelliano, dal punto di vista della tripartizione dell’euristica moschiana, sono nell’ordine”: a) l’enfatizzazione del ruolo (singolo) del capo; che a un teorico della classe politica come il costituzionalista siciliano appariva enfatizzato (ed errato); b) la sottovalutazione della “formula politica” come insieme di credenze ed ethos condiviso, anch’esso determinante nelle comunità politiche per Mosca; c) la scarsa o nulla attenzione che il Segretario fiorentino ha per la difesa giuridica, come “prevalere della legge e degli ordini pubblici sull’appetito degli uomini”. Termina Gambescia che “siamo dinanzi, non soltanto a ermeneutiche diverse, ma a due forme differenti di realismo politico”: ma il pensiero di Machiavelli, dei più scientifici e, quindi, neutrali (nel senso di Werthfrei).

Mosca, è così, in parte, critico di Machiavelli, e da atto che “per quel che riguarda la creazione della scienza politica, Machiavelli ebbe senza dubbio due intuizioni felicissime, anche per i tempi in cui scrisse veramente geniali”, che sono quelle evidenziate (e sopra trascritte) nel saggio di Gambescia; ciò che in altri termini significa che la natura politica dell’uomo presenta in tutti i tempi ed in tutti i luoghi una certa identità. Bisogna riconoscere che è “impossibile costruire una vera scienza politica sopra basi diverse da quelle testé accennate, come sarebbe stato impossibile di costruire un’economia politica scientifica e trovare le vere cause della prosperità economica o della povertà delle nazioni se, a cominciare dalla fine  del secolo decimottavo, gli economisti non avessero fondato le loro deduzioni sopra premesse analoghe sa quelle dalle quali Machiavelli volea partire per insegnare ai Principi”. Proprio perché quella convinzione era condivisa ed il lavoro già avviato, sia nella pratica che nella teoria, Adam Smith poté scrivere la “Ricchezza delle Nazioni”… “ai suoi tempi il passato ed il presente di parecchie nazioni europee gli fornivano già una quantità di esperienze economiche di fatti accertati e di nozioni precise che erano sufficienti a dargli un’idea  chiara delle leggi, ossia delle tendenze costanti, alle quali l’attività economica dell’uomo generalmente si conformava e si conforma. Lo stesso non potea fare Machiavelli, perché, quando egli scrisse il Principe ed anche i Discorsi, l’indagine e la critica storica erano nell’infanzia, anzi forse non erano neppure nate”. Quindi Machiavelli “non creò una scienza politica perché gli facevano difetto i materiali per costruirla”.

E nel concludere il saggio Mosca spiega la fortuna - che dura da cinque secoli – dell’opera di Machiavelli “Perché quest’uomo che pretese di insegnare ai suoi simili le arti dell’inganno, fu come scrittore uno dei più sinceri che mai siano stati al mondo. Quella che è l’onestà professionale dello scrittore, la quale consiste nell’esporre al lettore il vero pensiero di colui che scrive senza curarsi del successo o dell’insuccesso del libro, egli la possedette in grado eccezionale. E questa volta la sincerità ebbe fortuna, perché molto contribuì a far gustare il contenuto del Principe.

Machiavelli infine che fu onesto… volle dettare le regole dell’arte d’ingannare e di ciò che ora si chiamerebbe alto arrivismo. Non era il suo mestiere; se fosse stato davvero furbo ed un arrivista avrebbe, dato il suo ingegno, fatto una carriera assai più brillante, non sarebbe morto povero e si sarebbe ben guardato dallo scrivere il Principe. Giacché i veri furbi di tutti i tempi e di tutti i paesi sanno benissimo che la prima regola della loro arte consiste nel non rivelare agli altri i segreti del proprio giuoco”.

Ma di quei furbi nessuno conserva il ricordo mentre: a Machiavelli da secoli è riconosciuto di aver meritato il suo epitaffio: tanto nomini nullum par elogium.
Teodoro Klitsche de la Grange

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