La notizia che
la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d’arresto nei confronti
di Putin non è inaspettata: è un altro tassello della tendenza, tutta moderna (ma
non solo) a confondere la politica con il diritto, e segue l’altra simile, di
confonderla con la morale.
Altri exploits del genere, come quando anni
orsono, alla Corte erano intenzionati a procedere nei confronti dei funzionari USA
per gli abusi sui detenuti a Guantanamo, furono respinti dall’allora amministrazione USA come
pericolosi e irresponsabili. Ci sarebbe tanto da scrivere su quella confusione, sulla funzione della
politica e sul carattere del “trasgressore”, il quale in politica è il nemico,
nel diritto penale il reo. Mi limito ad alcune breve considerazioni.
La C.P.I.
nacque, per così dire, zoppa: ad onta
delle grandi manifestazioni di giubilo che ebbe in Italia quando fu istituita,
si capiva che non avrebbe avuto vita e azione facile dal fatto che tutti gli Stati
che avevano maggiori possibilità di trasgredire la normativa applicanda, si
erano ben guardati dal ratificarne il trattato istitutivo: Russia, USA, Cina, Turchia,
India, molti paesi arabi ed Israele. Oltretutto il fatto che la C.P.I. fosse
competente a giudicare del “crimine di aggressione” giovava a tenerne lontani
tutti gli Stati che avevano intenzione non solo di farla, ma anche di essere
coinvolti in una guerra (v. sopra), anche se (talvolta) non aggressori.
In secondo luogo:
la C.P.I. non ha una forza pubblica che ne esegua le decisioni, attività
rimessa alla cooperazione degli Stati. Ovviamente poco intenzionati a farlo ove
a subirle fossero politici e funzionari degli stessi. Da qualche secolo il
carattere distintivo (e intrinseco) del diritto è di essere applicato con la coazione. Come scriveva Kant “al diritto
è immediatamente connesso, secondo il principio di contraddizione, la facoltà
di costringere colui che lo pregiudica” per cui “Diritto e facoltà di
costringere, significa dunque, una cosa sola”. Lo Stato moderno, che ha
rivendicato a se il monopolio della violenza legittima (e della decisione
politica) è l’istituzione che ha assunto la funzione di applicare il diritto esercitando
il monopolio della coazione. Ma se, come nel caso delle decisioni della C.P.I.,
per essere eseguite sono rimesse al bon
plaisir degli Stati, il problema reale è quello di convincerli o costringerli a farlo. Col che il tema della forza,
apparentemente uscito dalla porta, rientra dalla finestra. E in effetti i casi
di applicazione di indagini e decisioni della C.P.I. concernono ex governanti
di Stati falliti o convinti, magari
con qualche previo bombardamento di persuasione, a farlo.
Così come
avvenuto per il processo di Slobodan Milosevic (e altri) dell’analogo (alla C.P.I.)
Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Ma, data l’altissima improbabilità
che la decisione venga eseguita, quali effetti può avere? Quelli più facilmente
prevedibili e di contribuire col timbro della C.P.I. alla criminalizzazione di Putin, cioè del nemico, e, quindi forse, a
rinfocolare il sentimento d’ostilità – per la verità non imponente – dei popoli
della “coalizione anti-russa” nei confronti dell’arcidiavolo del Cremlino.
L’altro, connesso,
è che criminalizzare il nemico, se può soddisfare la vittima ha in genere l’effetto
di intensificare e prolungare la guerra. E qua passiamo ai caratteri distintivi
tra “politico” e “diritto” e alle regole che derivano dalle differenze.
La prima delle
quali è che, come scriveva Hegel, “non c’è il Pretore tra gli Stati”; non
essendoci un’istituzione terza (il “Pretore”) in grado di costringere i
belligeranti, l’unica possibilità è che un
terzo/i volenteroso/i e soprattutto equidistante/i, si offra di
arbitrare il conflitto, anche prospettando sanzioni in caso negativo o benefici
in quello positivo. Ma questo terzo/i è in genere un altro Stato: e nel caso
che tutti gli Stati che finora hanno manifestato (o realizzato) di voler
mediare (la Cina) o raffreddare le
ostilità (come la Turchia per le esportazioni di cereali) sono Stati che, avuto
riguardo (soprattutto) al loro interesse sono, intervenuti in tal senso. Cioè a
mediare: non Tribunali istituiti per condannare
La seconda è che
il nemico in politica non è un criminale: e tale distinzione (già nel Digesto) non
è dovuta tanto ad un disprezzo per regole, leggi, norme, quanto alla
considerazione realistica che, essendo l’ostilità e i conflitti coessenziali
alla politica, il nemico non è solo colui con cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si tratta la pace.
A meno di non volerne la distruzione totale, come entità politica se non fisica;
come nel caso di resa incondizionata e successivo processo quale criminale di
guerra. Ma una tale prospettiva è tutt’altro che incentivante la pace. Un
bel processo e un’esemplare condanna,
sono poca cosa rispetto ai tanti danni che proseguire un conflitto provoca. Un
morto in più, prima della guerra, come detto da millenni da Plotino (il “visir”
di Tolomeo perorante l’uccisione di Pompeo) fino ad un ex Presidente del Consiglio
italiano qualche giorno fa, può evitarne anche decine di migliaia, se eseguito
prima o durante la guerra. Ma nessuno, a guerra conclusa.
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