Mentre Kabul
cadeva dinanzi all’offensiva dei talebani, molti ricordavano come la “dottrina”
dell’espansione del modello democratico occidentale con la forza fosse stata
condivisa – a quanto si leggeva - da almeno tre Presidenti U.S.A.: Clinton,
Bush jr. e Obama e i loro consiglieri sia di destra che di sinistra.
Taluni
ritenevano - non infondatamente, che fosse una derivazione degli interessi di potenza – politica ed economica -
degli U.S.A. soprattutto, se non dell’intero mondo occidentale.
Nessuno – che mi
risulti – ha ricordato, come da oltre due secoli, in varie formulazioni e
declinazioni quella concezione è stata ripetuta. Esportava gli immortali
principi dell’89, facendo la guerra alle monarchie europee (ed alle classi
dirigenti) già la Convenzione francese nel 1792, sintetizzandola in una frase efficace: “guerra ai castelli, pace
alle capanne”, con il decreto del 15/12/1792.
Il che a
prescindere dalle buone intenzioni (e dalla buona fede) era nient’altro che un
programma di guerra civile europea.
Che infatti infiammò il continente per quasi un quarto di secolo: le armate
rivoluzionarie e poi napoleoniche trovavano molti alleati nei paesi
conquistati, ma anche un “nuovo” nemico: i combattenti partigiani
controrivoluzionari. I quali, ebbero un ruolo non secondario nella caduta di
Napoleone. Fabrizio Ruffo, Empecinado, Andreas Hofer furono l’altro volto di
una ostilità “irregolare” quanto profonda che, nel pensiero di Clausewitz,
l’avvicinava alla guerra assoluta. Il richiamo agli immortali principi dell’89,
servì a suscitare nemici almeno quanto a trovare alleati-seguaci, e fu comunque
fertile nel provocare e aggravare l’ostilità. Non tanto perché presentarsi a
casa d’altri con le baionette inastate e i cannoni rombanti non è propriamente
il modo migliore e più rassicurante per farlo; ma soprattutto perché quegli
immortali principi erano poco o punto condivisi dalle popolazioni invase.
Già lo aveva
capito Vincenzo Cuoco il quale spiegava la breve esistenza della Repubblica
partenopea (quattro mesi) col concetto di “rivoluzione passiva” destinato ad
una notevole fortuna nel pensiero
politico italiano (a cominciare da Gramsci). Scriveva il pensatore
napoletano che le idee importate dalla rivoluzione francese erano lontane ed
astratte dagli usi e dai bisogni delle popolazioni meridionali, onde queste le
consideravano estranee; per di più condivise da minoranze afrancesade: “le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano
le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue
diverse”. In questa situazione mancava il principale fattore aggregante
dell’unità politica: l’idem sentire de re
publica.
Nell’epoca delle
rivoluzioni Sieyés e Thomas Paine confidarono nella condivisione di idee,
valori, interessi, bisogni e costumi tra francesi e americani per sostenere la
rivoluzione e le Costituzioni dei nuovi ordinamenti nonché delimitare i
“confini” con chi non li condivideva (sia all’esterno che all’interno della
sintesi politica). Renan ne avrebbe formulato, nel di esso concetto di nazione,
una denotazione esauriente.
Il problema si
presenta ancor più difficile quando nella storia moderna tale pratica si è
collegata allo “scontro di civiltà”. Se a popoli facenti parte della stessa
civiltà era ostico esportare certi
principi, soprattutto con le armi, non era da meno, data la maggiore distanza, tra popoli di civiltà diverse;
Toynbee ricorda i principali casi e personaggi che l’hanno tentato e, spesso,
realizzato. In senso positivo (cioè riuscito), Pietro il Grande e gli statisti
giapponesi della rivoluzione Meiji.
Tuttavia i
tentativi riusciti avevano di solito due caratteri: di essere d’iniziativa interna, e spesso del potere legittimo
(lo Zar o il Tenno), e non d’importazione
armata. Anche se generarono rivolte e repressioni (gli Strelizzi e i
Samurai) al limite della guerra civile, non c’erano “terzi interessati” a
fomentare, indirizzare, sostenere i contendenti, e trasformare così il
conflitto in guerra partigiana (contro il nemico esterno e interno). L’altro,
che si proponevano di introdurre novità sì profonde nelle società tradizionali,
ma non totali. Il fatto che fosse il
potere legittimo ad introdurle era una garanzia a favore della non totalità
delle innovazioni: cambia l’ordine, ma non l’ “ordinatore”. Oltretutto i
cambiamenti erano comunque parziali, e volti ad acquisire ed utilizzare la
tecnica e la scienza (e modelli istituzionali) occidentale, in funzione degli
interessi e del sistema di valori delle nazioni in via di modernizzazione.
Questi elementi
non ricorrono nella guerra afgana né nella fase anti-sovietica né in quella
anti-americana, perché sia il comunismo che il capitalismo globalizzatore
comportano la sostituzione del “sistema di valori” delle società tradizionali,
con quello d’importazione; e così dei titolari del potere legittimo. A farne le
spese è in particolare la religione, onde la guerra che ne consegue presenta un
accentuato carattere di conflitto di religione, che Croce già notava nelle insorgenze
anti-francesi del 1799.
I talebani, data
la loro formazione di studenti di teologia, si può dire che in questo hanno un
vantaggio culturale sui loro
avversari, i quali pensano che la superiorità tecnico-scientifica occidentale
possa sostituire (o depotenziare, anche se di molto) la fede.
Errore antico e
ripetuto. Suscita stupore che, allorquando circa vent’anni fa furono decise le
invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, si fosse anche teorizzato il contrario,
di poter esportare con la forza la democrazia e lo Stato di diritto in
società così distanti da quella del
cristianesimo occidentale di cui fa parte la potenza “liberatrice”; il tutto in
qualche decennio e con i gendarmi alla porta.
Ma fare ciò significa
pensare di ripetere in pochi lustri quanto da noi è stato concepito e
realizzato in più di tredici secoli: dalla lotta per le investiture alla
tolleranza, dalla Magna Charta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, dall’editto di Rotari al Code
civil.
Oltretutto è
sopravvalutato il ruolo che un “sistema
di valori”, per quanto appetibile, può avere rispetto ai fondamenti di un
potere efficace ossia l’autorità o la legittimità, che non si vede come possa
avere un occupante straniero, anche se liberatore.
Neanche in una
società occidentale democratica il potere di un occupante– o del di esso
Quisling – è legittimo perché carente di qualsiasi riferimento al popolo sia ideale
che procedurale (e concreto). E non si comprende perché l’Afghanistan dovrebbe
fare eccezione.
Concludendo, la
caduta di Kabul induce due considerazioni.
La prima è che
se gli afgani (o buona parte di essi) è riuscita a vincere due guerre
partigiane con le maggiori superpotenze del pianeta, difendendo la propria
in-dipendenza, non è detto che la marcia, fino a qualche anno fa (asseritamente)
trionfante della globalizzazione non possa trovare altre battute d’arresto, si
spera in modi meno cruenti.
La seconda che l’impresa iniziata dopo l’11 settembre
era difficile. Oggi si risponde che è comodo e facile giudicare col…senno di
poi.
Ma in realtà,
qua si trattava di senno di prima.
Cioè di valutare gli eventi del passato, le riflessioni che avevano generato da
un lato (le difficoltà delle rivoluzioni passive) nel conformare (anche) le
istituzioni politiche, le controindicazioni all’uso della forza, dall’altro i
fatti più recenti (come la vittoria sull’occupazione sovietica). Tutti ben noti
e determinanti per capire che il tentativo di esportare la democrazia e diritti
umani con eserciti stranieri, quisling, collaborazionisti non sarebbe andato a
buon fine. Neanche – anzi forse ancor più – se non fosse stato un ipocrita
involucro per occultare la volontà ed interessi di potenza (politica ed
economica). Perché, come scriveva Machiavelli, a credere questo si va appresso
non alla realtà dei fatti ma all’ “immaginazione” che se ne ha – o se ne vuole
avere, col risultato di trovare la ruina
propria, cioè la sconfitta sul campo. Puntualmente avvenuta.