Questo saggio
prende le mosse dal carattere peculiare della filosofia italiana, d’essere “una
filosofia della ragione impura rivolta… a un’esperienza della negazione, della
fallibilità… dell’impotenza della ragione”, e così filosofia della prassi. Ma “Il
timbro prassistico della filosofia italiana è già tutto latino, ed è
esattamente questo carattere che Machiavelli farà suo e rielaborerà”. In Machiavelli,
scrive l’autore “convivono dunque tre prospettive che consentono, almeno è la
credenza che regge questo saggio, di eleggere Machiavelli a figura del destino
europeo e occidentale: anamnesi dell’antico, immanentizzazione del reale e
possibilità astratta del nichilismo”.
Il confronto con
Platone è indotto dal fatto che il pensiero del filosofo greco è volto alla
ricerca e fondazione della città ideale,
conforme agli ideali di giustizia e virtù; quello del segretario fiorentino all’esigenza
di uno Stato solido perché indipendente e durevole. In questo senso è chiaro
che Machiavelli pensava a Roma: una città che ha creato un impero, e di durata
pluricentenaria: cinque secoli in occidente e quasi quindici in oriente, a
considerare la datazione “ufficiale”.
Che poi, la
caratteristica realista dipendesse
anche dal pensiero latino lo dimostra anche il Somnium scipionis nel De
republica, di Cicerone dove il grande oratore scrive che la costituzione
romana è frutto dell’esperienza e della pratica di governo di molte generazioni:
non di un legislatore o un progetto (come Licurgo, Solone) ma di un lavoro
corale di tanti, raffinato dall’insegnamento delle crisi e delle vicende
storiche.
In questa
visione una particolare attenzione è dedicata al rapporto conflitto/ordine. Mentre
nelle concezioni “ideali” il conflitto è considerato ciò che deve evitarsi nella
polis ordinata, in Machiavelli è il
conflitto interno che ha costituito la ragione dello straordinario successo
della civitas.
Perché, data l’ineliminabilità
del conflitto, interno come esterno, l’ordine idoneo è quello che si serve del conflitto per garantire l’ordine e
accrescere la potenza dell’insieme.
Anche perché le
crisi – ineliminabili come il conflitto – pongono la necessità di novità e
cambiamento. Scrive Dallari “La storia di Roma è archetipo simbolico proprio
perché testimonia che il conflitto è costituente, funzionale alla
strutturazione della forma, che la scissione, la contraddizione è costante “essenziale”
dell’ordine, che i tumulti sono il limite trascendentale dell’atto ordinante,
che la storia è ricerca di equilibrio tra le forze nel co-implicarsi di ordine
e conflitto”.
Una considerazione
in margine a questo interessante saggio. La teoria del segretario fiorentino è
assai simile, tra le altre, a quelle realistiche dei giuristi (non positivisti)
del XX secolo: dalla considerazione di Carnelutti che il diritto nasce dal
conflitto per l’appropriazione (senza conflitto non c’è diritto); che l’ordine
giuridico è sempre in movimento (Hauriou, Smend); che la crisi (l’eccezione) ne
fa parte come la normalità (Schmitt); che è la vitalità a costituire un
ordinamento legittimo (Santi Romano).
Tutte concezioni
ben corroborate dall’esperienza storica: ma finché si ritiene che una buona
costituzione sia quella conforme ai principi, e alle “tavole di valori”, a
diritti umani presenti in dichiarazioni solenni (e non nel cuore dei cittadini),
e non nella capacità di assicurare l’esistenza politica di una comunità, la
pace tra i cittadini e l’indipendenza dello straniero (“a ognuno puzza questo
barbaro dominio”) il pensiero di Machiavelli sarà sempre attuale.
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