NÉ POLITICA NÉ GIUSTIZIA
A distanza di
poche settimane l’una dall’altra tre notizie hanno riproposto il problema del
rapporto tra poteri (politico e giudiziario): l’assoluzione (in Cassazione) dell’ex
Sindaco di Roma Marino, le dimissioni della Presidente della Regione Umbra,
Marini e le non dimissioni del sottosegretario Siri, ambedue quest’ultime a
seguito delle indagini delle competenti procure. Dalla combinazione e
comparazione di tali vicende emerge quale potrebb’essere un ragionevole bilanciamento delle rispettive esigenze
della politica e della giustizia, punto dolente
dello stato di diritto.
Politica e
giustizia hanno principi d’azione (e scopi) differenti. La prima si fonda sul
detto salus rei publicae suprema lex;
ne consegue che esigenze e vincoli “giuridici” cedono se è in gioco l’interesse
dello Stato e l’autonomia della politica, organizzata di guisa da rispondere –
almeno nelle democrazie – alla volontà popolare, onde i rappresentanti sono
eletti dal popolo direttamente (Parlamento, Presidenti di Regione, Sindaci) o
indirettamente nominati dagli eletti (governo, Presidente della Repubblica). La
seconda in base al principio fiat
justitia, pereat mundus, ed è organizzata (prevalentemente) con il
reclutamento di personale burocratico con metodi burocratici (in sostanza una
cooptazione).
Dato che sono
pochi i casi in cui l’ordinamento esclude del tutto la responsabilità
(giudiziaria) comune di soggetti
pubblici (come i capi dello Stato), per gli altri rappresentanti occorre
elaborare – per equilibrare i principi - delle norme derogatorie in vario modo alla giurisdizione ordinaria: Tribunali e
accusatori “speciali”, autorizzazioni a procedere, divieto di determinati atti
d’indagine e così via. La giustizia politica è tutta una fioritura di deroghe a
quella penale comune, e non potrebbe essere diversamente - a parte l’opportunità o meno di questa o
quella norma. Il perché è agevole da intendere. E proprio il caso Marino ne
fornisce l’esempio. Il Sindaco di Roma era stato eletto dai cittadini della
capitale; non era un Cavour o un Bismarck, ma comunque aveva ottenuto la (sufficiente)
maggioranza dei consensi. Data la non eccessiva popolarità di cui godeva,
qualche "svarione" amministrativo, e forse un rapporto difficile con
l’allora Presidente del Consiglio, il PD, per toglierlo di mezzo, faceva
dimettere la maggioranza dei consiglieri comunali. Da ciò conseguiva la nomina
del Commissario e la convocazione di nuove elezioni, vinte dalla Raggi. Dato
che non era possibile manifestare, almeno in parte, le ragioni reali (tutte
politiche) della decisione, la stampa iniziò a sbandierare l’apertura di un
processo per avere, il Sindaco, pagato, con la carta di credito comunale,
pranzi (ed altro) di carattere del tutto privato. Che la circostanza non
toccasse granché i romani (preoccupati e) afflitti da decenni di cattiva
amministrazione (dalla “monnezza” ai
trasporti, alla fiscalità locale) era cosa che non sembrava (né sembra)
interessare granché i giustizialisti in
servizio permanente effettivo. A distanza di qualche anno la Cassazione ha
assolto Marino. Risultato: un Sindaco eletto è stato dimissionato dalla strumentalizzazione politico-mediatica di un
preteso reato e del relativo processo. Col risultato (voluto) che l’unico
effetto del processo e della strumentalizzazione del quale non è stato quello
(di giustizia) di punire un reo, ma solo quello (politico) di eliminare un
avversario. Effetto che la vicenda Marino condivide con tanti altri casi di
“giustizia politica” degli ultimi trent’anni (e non solo).
Si dice che c’è la
presunzione d’innocenza e chi non è condannato con sentenza definitiva dovrebbe
continuare a svolgere la sua funzione: ma a parte il fatto che non sempre è
così (v. legge c.d. Severino), è ancora peggio che per una bandiera di onestà e
di illibatezza si pretendano le
dimissioni (preventive) di soggetti come la Marini o Siri che sono solo
indagati. Vero è che la moglie di Cesare dev’essere al di sopra di ogni
sospetto, ma ad esercitare pubbliche funzioni per volontà del popolo era Cesare
e non la di lui signora. Il quale ripudiò la moglie ma conservò la carica (e, notoriamente, fece
carriera).
E ad essere troppo
sensibili all’onestà, si finisce con
l’essere più giustizialisti della pubblica accusa, con il risultato, sovente,
di strumentalizzare (il funzionamento) della giustizia a scopo politico. Né
vera giustizia né sana politica. Cioè proprio quello che, a parole, si vorrebbe
evitare.
Teodoro
Klitsche de la Grange
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