giovedì 27 maggio 2010

Si arrampicano sugli specchi: riflessioni critiche sulla conferenza stampa Nirenstein. – Prove tecniche di regime

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Sommario: 1. Fatto e antefatto. – 2. Inermi e indifesi. –

1. Fatto e antefatto. – Ho ascoltato e vado riascoltando la registrazione (clicca sul link) di quella che avrebbe dovuto essere una conferenza stampa, riservata a dei giornalisti, che teoricamente avrebbero potuto e dovuto fare domande in contraddittorio: nella registrazione non se ne sente nessuno, se mai qualcuno è intervenuto. Riascolterò più volte la stessa registrazione per farne oggetto di riflessione. Le osservazioni sarebbero proprio tante e vi è di che allibire. Certo, ben lo sappiamo che quelli sono parlamentari che siedono sugli scranni del parlamento italiano ed ognuno di loro percepisce non meno di 20.000 euro al mese, mentre a noi tagliano gli stipendi. Si tranquillizzino lo sappiano che sono parlamentari della repubblica. Ma pensavamo che stessero lì per difendere le nostre libertà e per rappresentare i nostri diritti: non per negarli!

Anche questa volta non hanno ritenuto i signori “onorevoli” che a noi “sudditi” non possa neppure essere concesso l’«onore» di essere indicati con il nostro nome. Ci vogliono fare la “festa” – come in Germania l’hanno già fatta a 200.000 – ma senza neppure degnarsi di fare il nostro nome. Direi che di “negazionisti” dei diritti e della dignità altrui, di quei cittadini ai cui diritti dovrebbero vegliare, non ve ne siano di maggiori. Veramente cascano le braccia nel pensare in quali mani siamo messi. E vogliono prenderci in giro, coperti da immunità parlamentare, e così poco stima dimostrando della nostra intelligenza.

Che cercassero il pelo nell’uovo per dare la stura ad una campagna repressiva è evidente perfino ai ciechi. Ognuno di noi può debordare nel linguaggio, ma un giudice normalmente sa distinguere l’intenzione effettiva, distinguendola dalle parole, che sono spesso inadeguate e che possono essere distorte in mille modi da chi parte da posizioni preconcette ed è in chiara malafede. Ciò che gli onorevli deputati dimostrano fin troppo chiaramente è di aver timore della critica dei cittadini, al di sopra dei quali pensano di avere il diritto di elevarsi. Hanno anche chiaramente dimostrato di non essere loro quei “filosofi” che Platone poneva al governo della Repubblica.

E qui viene in causa la legge elettorale per la quale e solo in virtù della quale siedono in parlamento e fanno i guasti che possiamo vedere e sentire. Un ex parlamentare, professore nella mia facolrtà e ritornato all’insegnamento, mi ha detto – se non erro – di non aver voluto più riopresentarsi con questa legge elettorale: il prossimo passo – dice lui – sarà l’abolizione del voto dei cittadini. Già adesso si tratta per ogni parlamentare di una “nomina” sostanziale mascherata da elezioni. Con il sistema delle liste prefissate da oscuri personaggi in pratica potrebbe andare a votare solo il 5% degli elettori. Avremmo la stessa composizione parlamentare, dicono “bipartisan” ma in realtà “omologata”, secondo l’accezione che a questo termine dava Pasolini. Certo, parlano! Ma cosa dicono? È consentito a noi poveri sudditi, poveri goym, esprimere un giudizio critico su ciò che dicono? O ci è solo concesso e ordinato di applaudire? Sembrano che abbiano un’assai bassa concezione dei cittadini e della loro capacità di comprendonio.

2. Inermi e indifesi. – Così ci vogliono: inermi ed indifesi. Remissivi come l’agnello che viene portato in sacrificio, in “olocausto”, se è ancora consensito l’uso normale ed originario che il termine ha avuto per millenni. È un dubbio lecito, giacché quotidianamente viene contestato – perfino nelle prediche dei preti – il normale uso del linguaggio. In un clima pesante di censura, che non ha nulla da invidiare a quella vigente ai tempi di Hegel, costretto in tal modo al suo stile astruso, proprio delle opere a stampa, mentre per fortuna sono intellegibili gli appunti delle lezioni, non destinata alla stampa. Mi esprimerò non con una metafora o una finzione letteraria, ma con un episodio assolutamente vero, benché minimo, che risale all’epoca della mia infanzia, oltre mezzo secolo fa, quando io e la persona di cui dirò avevamo meno di dieci anni di età.

Il luogo è un paese della Calabria, assai ma proprio assai malmesso, ed ancora oggi i fatti di Rosarno dimostrano che i miei ricordi non erano campati in aria. Ma veniamo al fatto che voglio narrare. Un bel mattino cosa ti vedo ad una degli angoli della mia casa paterna, dove era stato attratto da pesanti rumori di martello. Ti vedo un mio coetano, da quale anno più piccolo, che con grande serietà, dedizione ed accanimento si applicava con un martello a svellere una delle lastre di granito che formavano la base della facciata della mia casa per tutto il suo perimetro. Mi sembrava del tutto insensato oltre che ingiusto e per la mia famiglia dannoso quello che il ragazzino, più piccolo di me, stava facendo in quel mattino degli anni cinquanta in un paese desolato della Calabria.

Mi avvicinai, per chiedergli che smettesse. Non ricordo se dissi: “per favore!”, ma mi ricordo che assolutamente e rigorosamente mi rivolsi a lui con soli strumenti verbali, senza fare alcun uso di mani per sottrargli il martello, o comunque costringerlo con la forza fisica a fermarsi dal danno evidente che mi stava procurando, pur non avendo ancora il senso della proprietà che ti viene danneggiata da altra: era la mia casa e qualcuno, folle, me la voleva demolire! Senza ragione! Al mio invito, per tutta risposta, il bambino – mio coetaneo di uno o due anni più piccolo – si mise a urlare e frignare così forte che i passanti avrebbero certamente potuto pensare che io lo stessi picchiando violentemente. Ed infatti accorsero i suoi genitori che abitavano davanti. I miei non c’erano. Mio padre si alzava molto presto la mattina per andare a lavorare in ferrovia e lo vedevo piuttosto poco. Io stesso quasi mi spaventai per l’intensità del suo frignare senza che io lo avessi toccato neppure con un dito.

Non ricordo cosa poi successe esattamente, ma esiste ancora oggi la lastra di granito divelta alla sua sommità e in forte disarmonia con le altre lastre integre. Spiego agli ospiti che me lo chiedono la stranezza di quella lastra di granito danneggiata. Vive ancora il mio coetaneo di allora, abita ancora nella casa di fronte. Non svolge nessuna professione, ma campa con una pensione di invalidità mentale che gli è stata riconosciuta. Allora, quando l’episodio qui narrato successe, la sua disabilità non era forse ancora nota, ma a me sembra evidente che già in quegli anni ve ne fosse la fase iniziale. Non penso sia stato per me quello che gli psicologi chiamano un “trauma”, perché credo che di questi “traumi” ne abbiamo tutti, ma l’episodio è rimasto indelebilmente impresso nella mia memoria e qualche volta ritorna come un brutto sogno.

È ancora oggi per me la migliore illustrazione di tutte quelle situazioni della vita dove ricevi tu un danno, un’ingiustizia, un’angheria, ma chi te la procura si atteggia lui a vittima, come se subisse lui il danno, l’ingiustizia, l’angheria, anziché essere lui invece a farla, ad esserne lui l’autore che danneggia il suo prossimo compiendo un danno ingiusto verso altri, una ingiustizia evidente, un’angheria che indigna e suscita giusta e legittima reazione. E magari è proprio la tua reazione a venir se non punita, guardata con sospetto e additata alla pubblica disapprovazione ed esecrazione. Non mi chiamo Kafka, ma sono convinto che l’episodio, assolutamente vero ed accaduto, sarebbe stato degno della sua penna, che ne avrebbe saputo ricavare pagine immortali della letteratura universale.

(segue)
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(segue, prendo una pausa di respiro, dopo tanta indignazione: sono tante le cose che ho da dire, ma devo prender fiato e soprattutto devo stare attento perché stanno lì con il fucile puntato e con le manette pronte!)

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