giovedì 26 febbraio 2009

Bernard Willms: Politica come “philosophia prima” ovvero cos’è un filosofare politico radicale?

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Nel 1996 aveva fondato De Cive. Rivista di pensiero politico, di cui per tre anni uscirono di seguito sei numeri. Da ogni fascicolo ripubblico qui in “Civium Libertas” articoli particolarmente significativi. Una apposita Homepage conterrà tutti gli indici dei fascicoli apparsi, che per gli interessati all’acquisto sono ancora disponibili presso l’Editore. Questa ripubblicazione di articoli prelude alla possibile ripresa della pubblicazione della rivista cartacea nel prossimo anno solare. Le difficoltà che hanno portato all’interruzione della rivista erano esclusivamente di carattere redazionale. Se sarà possibile costituire un’ampia redazione che possa reggere agli impegni propri di una rivista cartacea e se al tempo stesso vi sarà la prenotazione di un congruo numero di abbonamenti, potrà essere valutata la riedizione con lo stesso titolo della rivista interrotta. Scelgo come primo articolo qui ripubblicato un testo del compianto e collega Bernard Willms, al quale rivolgo un commosso ricordo. La traduzione del testo è di Roberto Farneti. L’articolo è apparso su De Cive, n° 1, gennaio-giugno 1996, pp. 17-24.

Antonio Caracciolo

* * *

Bernard Willms

POLITICA COME PHILOSOPHIA PRIMA OVVERO: CHE COS’É UN FILOSOFARE POLITICO RADICALE?


La parola radicale nella formulazione di questo tema accentua qui non tanto il Politico, quanto il Filosofare. Politicamente radicale sarebbe, da un certo punto di vista, un pensiero che arriva a toccare estremi teoretici e pratici. La radicalità politica è liquidatoria, è di parte e può mobilitare le masse. Il suo contegno mentale è ideologico. Essa appartiene all’orizzonte della patologia politica. La radicalità filosofica è, al contrario, la virtù specifica del pensiero. Essa va dritta all’intero, al riconoscimento (Anerkennung) ed è esclusiva nel senso del rigore e dell’unicità. La filosofia politica non sia qui intesa come sottodisciplina della filosofia pratica, nella comprensione della quale mantiene comunque una posizione storicamente e sistematicamente fondabile. Filosofia politica radicale sia qui detto un filosofare che vede nel Politico il fondamento di ogni pensabile. Ad ogni modo, ciò che in un pensiero è fondamento, archè, di ogni altra cosa, sia detto a ragione la sua philosophia prima.

Filosofia politica nel senso del filosofare politico radicale non tiene conto di alcun possibile rapporto esteriore di metafisica e politica. Per la filosofia politica nel senso qui precisato, metafisica nel senso di philosophia prima è la stessa cosa di politica.

Una tale radicalità non è solo il risultato di una decisione soggettiva, ma di una sfida radicale la cui obiettività può e deve essere resa plausibile. Il pensiero si inoltra nella radicalità del politico quando diventa cosciente del caso critico (Ernstfall) radicale. La classica formulazione del caso critico è sempre questo “Essere o non essere” con cui, dopo Adorno, l’individuo moderno calca la scena della storia. La finitudine di ogni esserci dà alla questione “Essere o Non essere” sempre un carattere generale, anche se gli uomini hanno imparato ad accomodarsi su questa questione – nel caso normale – in modo abbastanza ordinato. Allo stesso modo, di fronte ad un’imminente fine del mondo si potrebbe, nella misura in cui essa fosse, religiosamente e teologicamente, integrata in un ordine globale, voler piantare alberi, generare figli e costruire case. Soltanto il caso critico, non assimilabile al caso normale, restituisce a questo, nuovamente, la sua qualità originaria; e allora non bastano più quelle istituzioni ordinate o quelle irresolutezze amletiche. Quando l’improvvisa morte violenta in ictu oculi diventa una minaccia generale, completamente realizzabile per ognuno di noi, allora la questione sulla verità diviene un lusso, quella sul senso, una scappatoia, quella sulla metafisica diventa un parlare di alberi. Rimane appropriata la questione sulla necessità, e rimane certamente concreta quella sulla necessità della fondazione, conservazione e riedificazione di una situazione normale: questa è la questione del Politico.

Per filosofia politica radicale si intenda qui il risultato dell’idea che della filosofia in senso proprio non è rimasto nient’altro; di fronte ad una umanità che con le destre – ma del resto anche con le sinistre – prepara l’autodistruzione del mondo, e con le sinistre così come con le destre, distrugge i boschi, uccide in massa i propri figli, sia prima sia dopo la nascita, e lascia crescere le proprie case come agglomerati che regolarmente diventano letali per una parte dei suoi abitanti.

Queste caratterizzazioni non sono affatto da intendersi come Apocalissi scongiurate, ma come obiettivo divenire consapevoli di una nuova qualità del caso critico. Quella messa in questione che risulta dalla presa di coscienza di questo caso critico deve essere spiegata in due momenti distinti.

Per prima cosa essa deve essere resa chiara, per il diciassettesimo secolo, sulla base del pensiero di Hobbes, che alla luce del più recente sviluppo della ricerca può essere illustrato come pensiero radicale del politico.

Successivamente si dovrà cercare di rendere concretamente accessibile quella un tempo acquisita radicalità del pensiero politico per la quale non ne va di una filosofia politica compiuta, ma di mettere in mostra il tentativo che la riduzione della philosophia prima alla politica non ha un significato bloccante (verschließende) ma ne ha, al contrario, uno dischiudente (erschließende).

Il risultato più sorprendente della ricerca hobbesiana degli ultimi dieci anni è il lavoro su di un Leviathan intégral, che sta a significare una lettura ricostruttiva di Hobbes, che comprenda in una maniera più approfondita sia la dimensione scientifica, sia quella politica, sia quella teologica dell’opera, nel senso della supposizione di coerenza a favore dell’autore. Con ciò, il breve periodo di disperazione dovuto a quella disparità delle interpretazioni che vent’anni fa fu accentuata da Quentin Skinner è da vedere nel suo volgere al termine in tempi brevi. Secondo Skinner le interpretazioni hobbesiane significative del secondo terzo del nostro secolo – quindi l’interpretazione morale-giusnaturalistica di Taylor e Warrender, quella politico-aristotelizzante di Leo Strauss, quella economica di MacPherson e quella teologica di Hood e Kodalle – pagano la loro rispettiva plausibilità con l’incompatibilità reciproca, da cui Skinner dedusse l’impossibilità di una interpretazione consistente, non senza sviluppare egli stesso la proposta assai costruttiva di una accresciuta ricerca contestuale (1).

La generazione dei ricercatori hobbesiani che abbraccia sia la filosofia analitica anglosassone sia le tradizioni europeo-continentali – ed è da contrassegnare coi nomi di Aryeh Botwinnik, Sheldon J. Eisenach, David Johnston, Michele Malherbe, Tom Sorell e Yves Charles Zarka – lavora oggi, nuovamente e con successo, al Leviathan intégral, per riprendere ancora una volta l’espressione di Malherbe (2). Ciò significa che in merito a ciò non si tratta solo del Leviatano, bensì dell’opera complessiva di Hobbes, nella misura in cui essa integra gli aspetti metodologico-epistemologici, politici e teologici. In questo senso, questi autori non debbono in alcun modo pagare il prezzo della inconciliabilità delle loro interpretazioni, neppure quando gli uni non sanno nulla degli altri (3).

La nuova dimostrazione della coerenza del pensiero di Hobbes – così come può essere evidenziata, e di fatto lo è stata – ha la sua espressione più convincente nel fatto che, e nel modo in cui, la philosophia prima – nel senso metafisico della parola – sia da intendersi, in Hobbes, nel quadro della fondazione politica del suo intero pensiero. Thomas Hobbes è, per un verso, l’erede della grande tradizione filosofica occidentale, per l’altro, uno dei fondatori del moderno razionalismo scientifico: la sua philosophia prima è politica nel senso di una arché nel significato classico della parola.

Tutti questi recenti sforzi orientati alla coerenza nel pensiero politico e metodologico in Hobbes devono essere visti sullo sfondo del problema generale, che è noto come problema-Leo-Strauss e che ha giocato nella letteratura un ruolo importante (4). Leo Strauss, per farne breve menzione, ha rappresentato la concezione secondo la quale le idee, le opinioni, il pensiero di Hobbes, si fossero pienamente formati già prima della sua scoperta di Euclide all’età di quarant’anni.

Questo problema, e qui ha inizio la questione intorno alla philosophia prima di Hobbes, non si lascia tematizzare sulla base del principio: che cosa sia nato prima, l’uovo o la gallina. Piuttosto, io credo, potrebbe costituire un aiuto ulteriore se si prende a tema una distinzione che fa Karl Marx nel Poscritto alla seconda edizione del primo volume del Capitale, e cioè la distinzione tra modo di indagare e modo di esporre:
«Certo, il modo di esporre deve distinguersi formalmente dal modo di indagare. L’indagine deve appropriarsi nei particolari la materia, analizzarne le diverse forme di sviluppo e scoprirne i legami interni. Solo dopo che questo lavoro sia stato condotto a termine, si può esporre in modo adeguato il movimento reale. Se questo tentativo riesce, e se la vita della materia vi si rispecchia idealmente, può sembrare di trovarsi di fronte a una costruzione a priori» (5).
Più brevemente e più elegantemente si lascia esprimere quanto menzionato con una espressione dai Cahiers di Paul Valery:
«C’est qui est au premier plan dans la tete de moi, ne l’ets pas dans mes écrits» (6).
Ricordiamo ancora brevemente che anche Hobbes è “un figlio del suo tempo”, in questo modo ci riesce più facile considerare che per un filosofo come Hobbes – per il quale non ne va di una rielaborazione scolastica di sistematiche filosofico-tradizionali, bensì di una trasposizione filosofica delle esperienze concrete della sua epoca – questo, quindi ciò che infine nella costruzione metodica viene descritto come il primo passo, come philosophia prima, cioè la corretta definizione dei nomi generali (7), può certamente essere una premessa metodica, che significa necessaria al procedimento descrittivo, ma non sufficiente, e cioè non la sua philosophia prima in senso fondativo. Qui rimane interamente determinante per Hobbes un’idea aristotelica secondo cui qualche cosa è “il primo”, “il più alto”, “il più valido”, per mezzo del quale ogni altro riceve la sua fondazione, oppure che fonda tutti gli altri (8).

Non dobbiamo, si sa, cercare a lungo per trovare l’equivalente filosofico di quanto in Aristotele in ultima istanza è il Divino: ma noi conosciamo il dio mortale, il Leviatano. Il Leviatano è un dato di cui Hobbes credette di poter dimostrare scientificamente, con necessità, l’inevitabilità, in quanto risposta alla sfida di quel caso critico che egli riconobbe nel proprio tempo. È fuori questione che Hobbes abbia vissuto il proprio tempo come un tempo di generale dissoluzione. Questa esperienza di dissoluzione sarebbe la base filosofica nel senso del cominciamento della concreta ricerca ed esperienza del mondo. Nell’esposizione sistematica questa dissoluzione corrisponde al cominciamento che ha luogo nella fittizia annihilatio mundi, la cui posizione metodologica è stata sottolineata di recente, tra gli altri, da Zarka, mentre i lavori di Johnston e Eisenach rendono estremamente chiaro un qualcosa per cui, da un punto vista pratico, alla finzione dello stato di natura corrisponde quella funzione della annihilatio mundi (9). L’esperienza reale che sta alla base di questo stato di natura è l’esperienza della dissoluzione di una normatività vincolante nella guerra civile confessionale. Tuttavia, sia annihilatio mundi sia “stato di natura” sono di nuovo, per quanto concerne loro, la premessa per rintracciare ciò che è primo, fondativo, necessario, e questo è il Leviatano ovverosia il concetto propriamente hobbesiano del politico: la philosophia prima di Hobbes è politica.

Un passo importante in questa ricostruzione del Leviathan intégral consiste in una nuova valutazione del Behemoth. Quest’opera che Hobbes compose verso la fine della sua vita è stata per lungo tempo appena presa in considerazione. Il Behemoth è rimasto all’ombra del Leviatano.

Le cose non potranno andare diversamente fintantochè entrambe le opere non verranno comprese sotto le medesime premesse dell’interrogativo che fa riferimento ai contenuti, alle questioni, alle risposte sistematiche che danno forma alla filosofia politica di Hobbes. Sulla base di questa premessa, Behemoth deve restare confinato ai margini del Leviatano. Tuttavia un’altra immagine si forma, quando viene presa sul serio la tesi secondo cui la filosofia di Hobbes, come un intero, anche nei suoi esiti più generali, deve essere compresa a partire dalla premessa delle lotte politiche che caratterizzano il diciassettesimo secolo non soltanto in Inghilterra, vale a dire delle controversie spirituali e politiche della guerra civile confessionale.

Dopo che in Germania, già negli anni Trenta, fu richiamata l’attenzione da Schmitt e Schelsky sul significato del Behemoth e dopo i lavori di McGillivray e Ashcraft negli anni Settanta c’è oggi finalmente, una nuova serie di studi sul Behemoth; di Paulette Carrive, di Noam Flinker, di Mark Hartmann e di Robert Kraynak (10). Il libro in cui Hobbes sviluppò la sua teoria sulle cause della guerra civile deve avere infatti una collocazione altamente significativa. Questo problema delle cause della guerra civile fu visto da Hobbes soprattutto nell’àmbito del conflitto sulle parole e sui significati, nell’àmbito dunque della lingua, ovvero, detto modernamente, del discorso. Il problema delle definizioni politiche legittime e illegittime è elaborato, nel Behemoth, in tutta la sua urgenza. Una delle cause della guerra civile è da vedersi secondo Hobbes proprio nel fatto che nessuno nel popolo sapeva quali fossero i doveri di un suddito; diremmo oggi che da una generale perdita di senso ne verrebbe una cospicua incertezza dei ruoli.
«Lastly, the people in general were so ignorant of their duty, as that no one perhaps of ten thousand knew what right any man had to command him, or what necessity was of king or commonwealth...» (11).
L’ignoranza del popolo non viene tuttavia ricondotta semplicemente alla sua stupidità, bensì all’influenza esercitata su di esso attraverso la diffusione di falsi princìpi, false definizioni per il tramite di sacerdoti presbiteriani e pseudopolitici ignoranti ma ambiziosi.
«In a manner all his subjects, where, by the preaching of presbyterian ministrers, and the sedicious whisperings of false and ignorant politicians, made his enemies; ...» (12).
Questo richiamo al condizionamento ideologico del popolo – attraverso una pubblica influenza retorica che ha luogo soprattutto dal pulpito, il medium di massa dell’epoca – che sta alla base della falsa concezione delle parole e che perciò dovette avere un effetto seditious, ovverosia sedizioso, si estende per tutta l’opera. L’insolita caparbietà colla quale Hobbes si concentrò su questo argomento concernente le cause ideologiche della guerra civile ha indubbiamente contribuito alla relativa sottovalutazione del Behemoth; questa esclusività è potuta sembrare una troppo grossa semplificazione. Ma gli avvenimenti politici del nostro secolo mostrano sufficienti esempi di politica delle definizioni. La concezione hobbesiana delle cause ideologiche e del significato e del ruolo degli intellettuali fanatici nella preparazione di una guerra civile – vale a dire nella distruzione della legittimità politica – fu, proprio in questo senso, confermata da Franz Neumann (nel suo Behemoth) negli anni Trenta: essa è, infatti, tutt’altro che patently ridicolous (13). Behemoth, dunque, è in primo luogo la descrizione di una mistificazione politica del linguaggio – ovverosia del discorso – una nuova Torre di Babele. Ora, si farà qui solo breve menzione su quale significato Hobbes ascrivesse al linguaggio, in particolare in àmbito politico. Egli afferma nel De homine:

«Tertio, quod imperare et imperata intelligere possimus, beneficium sermonis est, et quidem maximun» (14).

Quell’univocità che gli uomini costruiscono comunicativamente è il superamento della Babele Behemoth. La guerra civile, il male più grande, è la rottura, la distruzione di questa univocità comunicativa, ovvero, detto in termini moderni, il dissolversi della comunicazione autoritativa in una discrezionalità (Beliebigkeit) di discorsi in cui una gerarchia in quanto tale non è piu rintracciabile. La radicalizzazione filosofica dell’esperienza della guerra civile è lo stato di natura. Hobbes pervenne a questo stato di natura – distogliendo tutto ciò poco alla volta da quell’esperienza del Behemoth ricavata da una data realtà umano-sociale – come ad un qualcosa che, come norma e valore, non aveva in sé più alcuna ovvietà. Questa è la annihilatio mundi pratica che Hobbes riferisce anche alla teoria della natura e alla teoria della conoscenza; ciò che, come ha illustrato Zarka in maniera convincente, conduce ad un punto generale della costruzione ideale del mondo dal Politico.

Lo stato di natura è, senza alcun dubbio, una congettura ideale. Esso, tuttavia, è quella lotta di ognuno contro ogni altro – bellum omnium contra omnes – che si ricava necessariamente da un punto di vista ideale; almeno se si considera l’ovvietà del sistema funzionale delle norme e dei valori. Diritto, ordine e quindi libertà conservano propriamente il carattere di un compito, e certamente di un compito a cui gli uomini non debbono adempiere in un modo qualsiasi; un compito per il quale si dia un soggetto che, laboriosamente, se ne faccia carico: il Leviatano, lo Stato, in qualsivoglia forma esso sia costituito. Nella radicalizzazione filosofica bisogna dunque prendere le mosse dal fatto che, per quanto riguarda gli uomini, e sulla base della loro struttura riflessiva e della loro libertà, è da presupporre un conflitto originario, vale a dire una assenza di consenso (Nichtübereinstimmung), piuttosto che l’armonia originaria o la pace, che certamente in nessun modo possono essere escluse, anzi, il cui realizzarsi nel castigo del declino, non può mai essere abbandonato al caso o alla buona volontà dei singoli, come nello “stato di natura”. Lo Stato, il Leviatano, lo stato politico in quanto guerra civile superata attraverso un grande potere è la soluzione specifica di quel compito politico che pone gli uomini in essere.

L’opera di fondazione e di conservazione del Leviatano, ovverosia del Politico, è la premessa per ogni sviluppo dell’esistenza umano-collettiva, incluso lo sviluppo della scienza, della religione e della teologia. Nella misura in cui il pensiero del caso critico (di essere o non essere) viene preso in considerazione nel senso di cui all’inizio si è fatta menzione, la politica diventa philosophia prima. Quel caso critico fu per Hobbes la guerra civile, di cui cercò di concettualizzare la radicalità ideale nella figura della annihilatio mundi, sia da un punto di vista epistemologico-metodologico, sia da un punto di vista pratico. La francamente indiscussa radicalità di Hobbes non consiste soltanto nell’avere afferrato il problema della comunicazione su di un piano politicamente fondamentale, bensì, in primo luogo, nell’idea anticipatrice di una philosophia prima della cui possibilità concreta noi, ora, siamo divenuti consapevoli; dalla qual cosa deriva quella nuova dimensione di inevitabilità della filosofia politica.
«Perchè sono un filosofo?, chiede Michel Serres, e la sua risposta è: per Hiroshima» (15).
L’attualizzazione del Leviatano, di fronte ad una nuova dimensione nella annihilatio mundi, ha, nell’argomentazione fin qui svolta, due funzioni. Per un verso si deve tener presente il carattere paradigmatico del pensiero hobbesiano, per l’altro verso quella attualità deve servire a preparare una spiegazione sistematica della filosofia politica nel senso di quella menzionata radicalità, una radicalità che si potrebbe chiamare anche profondità di senso (Gründlichkeit), ovverosia esclusività, vale a dire, in un senso terra terra, univoca inevitabilità.

Filosofia del Politico come philosophia prima intesa in un senso anche protometafisico presuppone tre caratteri elementari: la dinamica della libertà, il rapporto di contingenza e necessità e la presenza dell’escluso. E chiamerei antropologici questi caratteri elementari se fossi in grado di ovviare all’argomento heideggeriano di fuoriuscire, con l’antropologia, dall’àmbito del filosofare sostanziale (16). Li definirei da un punto di vista postmoderno, se con ciò non mi gettassi nel pericolo di una dissertazione su moderno e postmoderno, tanto da rimanerne magari invischiato; o se per lo meno mi trovassi a dover dimostrare come mai proprio Hobbes sia un filosofo postmoderno: che non sarebbe forse né così difficile, né così pericoloso ma, in ogni caso, a questo punto, troppo lungo (17). Dunque definisco quei tre caratteri leggi fondamentali del pensiero politico, ovverosia elementi con cui il pensiero politico può e deve fare i conti; un “fare i conti” inteso sia nel senso di Gottfried Benn, sia nel senso di Thomas Hobbes. La parola “leggi”, naturalmente, esprime più di una proposta che si vuole non vincolante; dietro c’è anche il carattere di risultato di studi: quelle leggi sono il distillato che mi impegno fermamente a ricavare per via dimostrativa da ogni filosofia politica, affermativamente o criticamente, ex negativo.

La legge della dinamica della libertà è stata la sfida specifica del pensiero moderno, e lo è tutt’ora. Si presuppongano gli uomini come liberi e ci si dovrà mettere in testa che ciò può essere buono soltanto nella misura in cui può anche essere cattivo. Questa è l’idea fondamentale di Hobbes e l’elemento che sta alla base del suo “homo homini lupus”. Non fa specie che Thomas Hobbes non sia mai divenuto una delle figure di integrazione trainanti in àmbito moderno: si arriva a ciò riflettendo sulle conseguenze del carattere di libertà, piuttosto che accettare la finzione roussoiana che l’uomo sia buono. La libertà come carattere, divenne quantificabile come “emancipazione”: sempre maggiore libertà per un sempre maggior numero di individui. Ciò che soltanto si può dire su quella legge, sempre più libertà per la politica, è quanto di peggio ci sia con cui fare i conti. Lo stato di natura hobbesiano non è altro che la cifra di questo moderno carattere di libertà che soltanto attraverso il morso della tarantola roussoiano, come disse Nietzsche (18), fu pervertito nel moderno carattere edificante della finzione; ciò che significava maggiore libertà, significava anche soltanto un maggiore bene per sé, quindi più valore, più armonia e più progresso.

Naturalmente ciascuno di noi riconosce in questa concezione di una rischiosa dinamica della libertà la propria bestia nera. Ma prima che quanto dico secchi a qualcuno, vorrei ricordare a questo proposito che Hermann Lübbe, oramai trent’anni fa, seppe aggiungere sale all’ingenuo piacere del latte di ogni stile di pensiero pio e democratico, con questa definizione:


«Libertà, infine, non è quella possibilità di essere nel privato tanto dissoluti quanto si vuole»
(19).

L’altra bestia nera, naturalmente, è Carl Schmitt, che penetrò con tale intensità la dinamica del privato da doverci fare i conti; persino al tanto ammirato Thomas Hobbes credette di doverlo rinfacciare (20). La quintessenza che si ricava da questo primario carattere elementare, suona, come è noto:
«Perciò resta valida la constatzione stupefacente e per molti sicuramente inquietante che tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l’uomo come ‘cattivo’, che cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi ‘pericoloso’ e dinamico» (21).
C’è ancora bisogno del rimando alla dinamica contemporanea e alla pericolosità di un homo homini faber e cioè della minaccia definitiva e letale dell’uomo da parte del suo simile, in cui il lupo hobbesiano sveli il suo carattere specifico, per chiarire che questo carattere rende impossibile riconoscere nella parola “libertà” un qualcosa che non sia moneta hobbesiana?

E per rendere più plausibile, forse soltanto più appetibile, questa menzione allo specifico cominciamento del moderno pensiero della libertà – programmato, dal principio fino al suo naufragio, in forma di “progetto del moderno” – si faccia riferimento solamente al fatto che Jean François Lyotard, il più politico tra i pensatori di quel nuovo inizio che si definisce postmoderno, giunge, attraverso Heidegger, Wittgenstein e Feyerabend, al riconoscimento di una pluralità dei generi del discorso in cui non c’è più alcun sistema di regole discorsive (Satz-Regel-System) che possa arrogarsi un’autorità sopraordinata.

«En l’absence d’un régime de phrases ou d’un genre de discours jouissant d’une autorité universelle» (22).

Questa frase deve essere compresa nel contesto di quella radicale coscienza di libertà per la quale, all’inizio dell’età moderna (Neuzeit) Thomas Hobbes ha trovato la cifra dello stato di natura. E proprio questo fu il carattere al quale corrispose, in Hobbes, la annihilatio mundi pratica: e cioè il fatto che tutte le verità che nel diciassettesimo secolo venivano concepite solo da un punto di vista teologico furono ridotte ad una moltitudine di opinioni settarie la cui concretezza significava guerra civile. Quei sistemi di norme fondati trascendentalmente erano divenuti mere contingenze a cui si contrapponeva la necessità di un ordine da fondare ex novo. E questa fondazione non poteva affatto rinviare alla verità, ma soltanto alla necessità.

Con questo, siamo al secondo carattere elementare col quale deve fare i conti il filosofare politico: il rapporto tra contingenza e necessità. Ed è forse significativo, nel senso del nesso argomentativo svolto, lasciare la parola anzitutto ai teorici contemporanei, e proprio a Jean François Lyotard. In Le Différende egli sostiene:
«Premieremente, sur une phrase qui arrive, il faut enchainer. (Serait-ce par un silence, qui est une phrase). On n’a pas la possibilité de ne pas enchainer. Deuxièmement, enchainer est nécessaire, comment enchainer est contingent».
«Il faut enchainer. Cela n’est pas une obligation, un Sollen, mais une nécessité, un Müssen. Enchainer est nécessaire, comment enchainer ne l’est pas»
(23).
Questa non è altro che l’espressione concreta del fatto secondo cui gli uomini stanno sotto una coazione ad agire, ma che per nessuno di loro la direzione dell’agire viene programmata, sia pure in un coagulo storico-istituzionale. L’ordine è necessario, ma nessuno sa quale aspetto esso debba avere in verità. Ne consegue che ogni ordine come tale è contingente, e lo si sa realmente da quando Senofonte determinò che presso gli etiopi gli dei dovvessero essere bruni e col naso schiacciato e presso i traci, invece, biondi e con gli occhi blu. Nondimeno Eraclito ebbe a dire, per rimanere in àmbito presocratico, che i cittadini dovevano battersi per la loro costituzione come per le mura delle loro città. Entrambe le cose sono da prendere seriamente: contingenza e necessità. La loro dignità scaturisce dall’ordine come tale, fino agli ordini contingenti. Questa necessità significa che i sistemi di regole una volta trovati – sulla cui attuazione contingente, anche di fronte a tutte le pecularità etnologiche, non può sussistere alcun dubbio – debbono essere relativamente sottratti all’intervento arbitrario dei singoli. Così nascono i miti su di un diritto primigeno, o di una legislazione che scaturisce direttamente dalle mani di dio o degli dei. La necessità è all’origine del sacro, del venerando e della religione, così come di tutti i derivati metafisici. Ovviamente, sta nell’interesse di chi è favorito dal relativo ordinamento, di negarlo e di perpetuarlo nella sua contingenza e, ovviamente, risulta da ciò ogni specie di vincolo al trono e all’altare e al potere in quanto tale e alla filosofia. Nella sobria lingua della teoria delle istituzioni quella necessità resta fuori, dal momento che le istituzioni debbono rimanere relativamente escluse dall’invadenza (Zugriff) dei singoli, e ciò accade semplicemente attraverso la complicatezza della regola di condotta che ha come scopo il loro cangiamento. Sia l’arbitrarietà del costrutto istituzionale, sia quello della deroga individuale alle istituzioni (Ausgriff) sono fattivamente delimitate dalla selezione di possibilità storicamente contingenti. Prima o poi la comprensione della necessità sarà chiarita storicamente – lo stesso per la libertà; e prima o poi sarà un nonsenso voler iniziare di nuovo da un punto zero storico. Prima o poi non rimarrà nient’altro che una presunzione di potere, quella di assegnare alle istituzioni in quanto tali la dignità della necessità; ed è una arroganza di dimensione addirittura fichtiana, che un qualche politico democratico come il cancelliere Kohl sostenga di perseguire in tutta serietà lo scopo di portare i tedeschi, nel corso del suo incarico
«su di una via dalla quale non possano mai più tornare indietro» (24).
A questa assurda pretesa da burocrati di partito coscienti del proprio potere, che non sarebbe migliore di quanto è se essi si comprendessero come democratici e progettassero di intraprendere ogni cosa nel nome della libertà, corrisponde, per quanto possibile, lo sforzo dei filosofi alla giustificazione metafisica dello status quo, per mezzo della quale i filosofi cercano di proporsi come i buenintencionados, i bendisposti, in quanto parte di un establishment, quelli che, se punzecchiati, fanno saltare fuori i capi ideologici. Ma la filosofia non giustifica nulla, nemmeno se stessa: non ne ha necessità alcuna. Se la filosofia, in quanto filosofia politica, si pone in relazione con un sistema politico in quanto tale, ciò accade non nel senso di una giustificazione in senso proprio, bensì, in maggior misura, nella parte del Cid Campeador, che manda il suo re in rovina per costringerlo a comportarsi da re (25). Ma, naturalmente, anche questo è soltanto un sogno eroico di cui, di fronte alla discesa di un certo sistema nelle sconfitte della giustificazione, si conserva pur sempre l’idea; di cui un gelido totalitarismo costringe in prospettiva tutti i linguaggi e tutti i pensieri ad una performatività che consente ad esso di far passare tutto attraverso il collo di bottiglia di una società della comunicazione in rete attraverso tecniche intelligenti, un sistema per il quale sia l’autorità dello Stato e il suo diritto, sia la dignità dell’individuo, vengono concepiti come rumori di fondo, per i quali il sistema sviluppa corrispondenti strumenti di oppressione. Un’immagine che ha origine in Lyotard il quale ha valutato nei medesimi termini e comunque occasionalmente che soltanto per un 20 per cnto al massimo, questo sistema di comunicazione informatico sia del resto, nel suo insieme, ancora comunicabile (26).
«The sciences are small power» (27) ovvero: la filosofia rigorosa è poco potere, come disse Thomas Hobbes.
Ebbene, è fuori di dubbio, la filosofia si trova a mala pena nelle vesti del Cid; essa si trova, invece, in quelle di un riccio su di un’autostrada. Di quest’immagine può consolare il fatto che il riccio, come disse il generale Kutusow, al contrario della volpe può fare soltanto una cosa, anche se l’autostrada non sembra appartenere ai generi di cose seriamente rischiose. Piuttosto sono proprio le volpi a rimanere al suolo, anche se per volpi non si intendono volpi machiavelliane.

Ora, dopo questa digressione per altro prevista, tocca alla spiegazione della terza legge, fondamentale non solo per il Filosofare politico: la legge della presenza dell’escluso.

Essa altro non è che un effetto della dinamica della libertà, la quale corrisponde all’esserci (Dasein) e cioè all’esistenza dell’uomo in quanto uomo, in cui il dover-si-comportare (Sich-Verhalten-Müssen) ovverosia l’agire, è altrettanto necessario in sé dal momento che esso, in quanto agire, è determinabile solamente nell’orizzonte di possibilità in linea di principio infinite. Ogni posizione giuridica (Rechtsetzung) è dunque, in definitiva, un atto selettivo (Selektion) che si attua sullo sfondo della libertà, che condensa arbitrio e necessità e che corrisponde alla libertà in quanto necessariamente contingente, nella misura in cui ciò fa ad essa torto. Teoreticamente, alla durezza della mediazione di questo dissidio, che come tale è ineludibile, corrisponde la realtà di quelle possibilità nell’orizzonte della storia accaduta, che, pragmaticamente, conducono a quanto Hermann Lübbe ha ripetutamente definito una supposizione a favore della ragionevolezza dell’esistente.

Un esempio negativo per questa legge sarebbe forse un razionalismo il cui carattere illuminato consisterebbe nell’avere distrutto la religione, oppure un positivismo scientifico che decreta la fine della metafisica. Realizzazione positiva di questa legge è sia la conciliazione di religione e Leviatano in Hobbes, sia una regola di coesistenza di privato e pubblicità che per noi, oggi, è oggetto di una minaccia mediocratica. La sovranità del Leviatano e la sua competenza di regolamentazione sono esclusive, tuttavia l’escluso (das Ausgeschlossene) resta presente; il cristallo hobbesiano, così come è stato illustrato da Carl Schmitt, è aperto sul lato superiore. Nel suo pensiero politico si trovano caratteri che – nel senso della legge della presenza dell’escluso – debbono valere addirittura come classici. Nella tradizione della “politica in quanto politica”, nella cui teoria anche la philosophia prima è già politica domina ovunque in effetti il seguente principio: ogni ordine è, in quanto tale, tanto necessario quanto contingente. Ogni ordine è posto (gesetzt) – se questa posizione (Setzung) viene ora concepita in quanto decisione autoritativa, ovverosia in quanto istituzionalità coagulata storicamente e assurta alla dignità della prova – ed ogni ordine posto è necessariamente concreto, ed ogni ordine concreto è necessariamente contingente. Che significa che esso chiude un orizzonte di possibilità ed esiste tuttavia alla condizione di questa chiusura e cioè del principio della presenza dell’escluso.

Una delle formulazioni paradigmatiche di Carl Schmitt è naturalmente la distinzione di amico e nemico dal Concetto di “politico”. Questa formulazione, certamente sgradevole, non significa altro che ogni ordine concreto deve determinare chi vi appartiene e chi no. D’altro canto ciò non significa altro dall’idea hegeliana del § 92 dell’Enciclopedia, secondo cui i limiti di ogni cosa non sono affatto esterni ad essa, che è quanto, riferito ai limiti interni ed esterni, ha potuto sostenere Dolf Sternberger facendo appunto menzione di questo, che anche una democrazia non può dimenticare che è, ovverosia ha da essere, uno Stato (28).

L’altro esempio schmittiano è quello dello stato normale e dello stato di eccezione; esso si situa nel problema della sovranità. Come soluzione politica oppure come ordine concreto uno stato normale può essere sostenuto solo da colui che può istituzionalmente in quanto sovrano “decidere sullo stato di eccezione”. L’escluso, senza di cui non è pensabile stato normale alcuno, è qui istituzionalmente presente attraverso la decisione sovrana. Una delle formulazioni politicamente più geniali del principio della presenza dell’escluso che io conosca.

Dunque, fin qui arriva la spiegazione dei tre princìpi della filosofia politica ai quali ci si debba formalmente attenere: quanto più chiaramente riusciamo a scorgere la annihilatio mundi del caso critico definitivo – “qui solvet seclum in favilla, teste David cum Sybilla” – tanto più scorgiamo quella minaccia dell’esserci, dunque dell’esistenza dell’uomo in quanto uomo, attraverso un totalitarismo freddo, sociale.

E sebbene io sia comunque mio malgrado cosciente delle possibilità che anche questi fundamentalia del filosofare politico possano essere posti sotto sospetto metafisico – e ciò sia pure soltanto in forma di sospetto ideologico – bisogna dire che ciò va riferito al rapporto di politica e metafisica, dal momento che questo filosofare politico esclude la metafisica nel momento in cui essa non può pretendere ad alcuna verità, nè può appellarsi alla necessità: ciò va riferito, per quanto è possibile, ad un bisogno insopprimibile, a cui corrisponde il compito della filosofia, di rendere pensabile il mondo. Conformemente al principio della presenza dell’escluso, la filosofia politica è esclusiva, ma “aperta sul lato superiore”. La metafisica, o meglio i discorsi metafisici sono una forma della libertà dell’esserci (Dasein) nella misura in cui essa esiste nell’orizzonte della contingenza di ogni possibile esserci. Per cui non vedo alcuna possibilità di definirli come un mero “gioco delle perle di vetro”, o come un parco giochi o come una terapia d’occupazione per intellettuali intenti a rifletterci su, e sono senza dubbio numerosi. Ma questo esito scettico va altrettanto poco a discapito della metafisica, quanto poco il mercato dell’arte va contro l’arte.

In merito alla radicalità e all’esclusività protometafisiche del filosofare politico sia citato, in conclusione, lo storico dell’arte scomparso in questi ultimi anni Max Imdahl, di cui gli anziani abitanti di Münster hanno di certo ricordi altrettanto buoni degli abitanti di Bochum, e tutto il mondo degli specialisti in senso stretto. Imdahl mi disse una volta, trent’anni fa, in una discussione:
«Un pittore è un uomo per il quale il mondo è esclusivamente un mondo pitturabile».
Quindi, un filosofo politico sarebbe qualcuno per il quale tutta l’esistenza è fondata politicamente.

E per completare ora, davvero in conclusione, il mio personale fondo di citazioni, sia ancora una volta citato uno Schmidt, ma non Carl, bensì Arno, e proprio con questa frase da intendersi in senso metafisico-critico in quanto teologico-critico, se non addirittura politico:

«Meglio un cielo senza dei che senza nuvole» (29).

Bernard Willms

(Traduzione dal tedesco di Roberto Farneti)


NOTE


– Titolo originale: B. WILLMS, Politik als erste Philosophie oder: Was heißt radikales politisches Philosophieren?, in G. Volker (Hrsg.), Der Begriff der Politik. Bedingungen und Gründe politischen Handelns, Stuttgart, J.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1990, pp. 252-267. Traduzione autorizzata di Roberto Farneti. La prima parte di questo testo rinvia ad una relazione tenuta il 30 maggio 1988, contestualmente ad una conferenza su Thomas Hobbes, presso la Sorbona di Parigi.

(1) In merito a questa discussione, cfr. B. WILLMS, Der Weg des Leviathan: die Hobbes-Forschung von 1968-78, Berlin, 1979, (di seguito Weg), pp. 70 segg. Torna al testo.

(2) M. MALHERBE, Thomas Hobbes, Paris, 1984, p. 218. Torna al testo.

(3) Più in dettaglio, nel mio contributo Der Leviathan und die delischen Taucher. Zur Entwicklung der Hobbes-Forschung seit 1979, in Der Staat, 27, 1988, pp. 587-588. Torna al testo.

(4) L. STRAUSS, The Political Philosophy of Hobbes. Its Basis and its Genesis, Oxford, 1936, tr. it. nel vol., Id., Che cos'è la filosofia politica, Urbino, 1977, pp. 117-350. Sulla discussione del “problema-Strauss”, cfr. Weg, (supra, nota 2), pp. 72 segg. Torna al testo.

(5) K. MARX, Il capitale, Libro primo, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, Utet, 1974, p. 87. Torna al testo.

(6) P. VALERY, Cahiers, 1926, XXVI, XI, pp. 528-529. Torna al testo.

(7) Il luogo meglio noto è in T. HOBBES, Leviatano, tr. it. di Gianni Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1987, cap. 46. Torna al testo.

(8) ARISTOTELE, Metafisica, 1026 a. Torna al testo.

(9) Cfr. D. JONHSTON, The Rethoric of Leviathan, Princeton, 1986, p. 189. E. J. EISENNACH, Two Worlds of Liberalism, Chicago and London, 1981, pp. 7, 18, 33, 67. Y.C. ZARKA, La Décision Métaphysique de Hobbes, Paris, 1987, pp. 183, 250 et passim. Torna al testo.

(10) C. SCHMITTS, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, Hamburg, 1938, (nuova edizione con una importante postfazione di G. Maschke: Köln, 1982), tr. it. in Id., Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 61-143; H. SCHELSKY, Thomas Hobbes, Berlin, 1981, (ma la stesura risale al 1940); R. McGILLIVRAY, Thomas Hobbes' History of the English Civil War. A Study of Behemoth, in Journal of the History of Ideas, 31, 1970; R. ASHCRAFT, Ideology and Class in Hobbes' Political Theory, in Political Theory, 1978; P. CARRIVE, Béhémoth et Leviathan, in AA.VV., Hobbes Philosophie Politique, Caen, 1983; M. HARTMANN, Hobbes Concept of Political Revolution, in Journal of the History of Ideas, 47, 1986; R.P. KRAYNAK, Hobbes' Behemoth and the Argument for Absolutism, in American Political Science Review, 76, 1982; N. FLINKER, Dialogue Structure in Hobbes' Behemoth, (manoscritto, 1988). Torna al testo.

(11) Ibidem, p. 198. Torna al testo.

(12) Ibidem, p. 198. Torna al testo.

(13) M.M. GOLDSMITH, Hobbe’s Science of Politics, New York and London, 1966, p. 239. Torna al testo.

(14) T. HOBBES, De homine, X, 3. Torna al testo.

(15) P. ENGELMANN, Philosophien. Gespräche mit M. Foucault, ...und Michel Serres, Wien, 1985, p. 156. Torna al testo.

(16) M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1987, § 10. Torna al testo.

(17) B. WILLMS, Postmoderne und Politik, in Der Staat, 3, 1989, tr. it. di C. Forte in “Behemoth”, 8, 1991, pp. 9-18 e “Behemoth”, 9, 1991, pp. 11-21. Torna al testo.

(18) F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, Milano, Adelphi, 1990, p. 3. Torna al testo.

(19) Hermann LÜBBE, detto a voce, all'incirca nel 1959. Torna al testo.

(20) Cfr. C. SCHMITT, Scritti su Thomas Hobbes, cit. Torna al testo.

(21) C. SCHMITT, Il concetto di “politico”: Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Id., Le categorie del “politico”, Bologna, il Mulino, 1972, p. 146. Torna al testo.

(22) J. F. LYOTARD, Le Différend, Paris, 1983, p. 10. Torna al testo.

(23) Ibidem, p. 103. Torna al testo.

(24) In una intervista rilasciata al quotidiano Le Monde, nel gennaio 1988. Torna al testo.

(25) Cfr, la traduzione tedesca di Herder, Id. Werke, Suphan, vol. 28, pp. 478-480. La scena è stata rappresentata in modo sorprendentemente efficace nel Film El Cid di Howard Hawks, con Charlton Heston e Sophia Loren. Torna al testo.

(26) J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Milano, 1981. Torna al testo.

(27) T. HOBBES, Leviatano, cit., cap. X. Torna al testo.

(28) Nell'articolo sul “patriottismo costituzionale”, nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 31 agosto 1982. Torna al testo.

(29) A. SCHMIDT, Gadir oder Erkenne dich selbst, Zürich, 1987, tr. it. di E. Picco, Gadir ovvero conosci te stesso, in Id., Alessandro o della verità, Torino, 1981, p. 11. Torna al testo.

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