Imperversano
campagna e programmi elettorali. In particolare a sinistra, oltre alla consueta
demonizzazione del nemico, titolo che attualmente compete alla Meloni, e alla
ripetizione ossessiva del solito armamentario propagandistico, vi si leggono
tanti buoni propositi, che comunque non mancano negli altri. Tutti i programmi essendo
ricolmi di buone intenzioni diventano perciò altamente condivisibili. Che è poi
la loro funzione: acchiappare voti il 25 settembre. Per meglio valutarli (e votare)
ricordiamo all’uopo qualche regola realistica.
Prima di tutto,
giudicare sulla base di quanto partiti e candidati hanno fatto (in passato) e
non a quanto dicono di voler realizzare in futuro. Fare è spesso ostico e
complicato, promettere facile. Già lo sapeva Dante il quale mette in bocca a
Guido da Montefeltro come si fa: “lunga promessa con l’attender corto ti farà
trionfar ne l’alto seggio”, Seggio cui i candidati aspirano (che non è quello
papale, ma comunque appetito ed appetibile).
Ad esempio ad
urne aperte (o quasi) i partiti, soprattutto di centro-sinistra (e sindacati)
hanno scoperto… l’acqua calda. E cioè che da circa trent’anni le retribuzioni
italiane calano, di guisa da aver perso diversi punti percentuali. C’è da
chiedersi perché l’abbiano scoperto solo in apertura (o in prossimità) di
campagna elettorale, dopo circa trent’anni di stasi retributiva: chiunque, anche un diversamente intelligente, se ne sarebbe accorto prima. Oltretutto
se ciò non sia per caso in relazione col nostro PIL da un trentennio stazionario
(e altro). Ma soprattutto cosa abbiano fatto in questo periodo i governanti – avendo il centro sinistra governato o fiduciato esecutivi amici per circa
vent’anni – per invertire la tendenza. A poco serve “rimediare” ora, se non a far
passerella per le elezioni, dopo un’inerzia durata un trentennio (o poco meno).
A dipingere
rosei futuri, a rivelare di avere le chiavi del paradiso è capace qualsiasi Dulcamara,
magari supportato da tecnici, la cui “tecnicità” è convalidata dal superamento di dubbi concorsi. Giudicare dalle
opere è la conseguenza del consiglio di Machiavelli di agire e progettare in
base ai fatti e non all’immaginazione; ai risultati e non alle intenzioni.
Consiglio fondante non solo della scienza politica moderna, ma ancor più della
prudenza politica pratica.
Secondariamente
e quale diretta conseguenza: che credibilità ha chi consiglia o propone bene,
dopo aver operato male? Poco o nulla, così da incidere sul quantum minimo di autorità che la classe dirigente (uomo, ceto,
partito) necessariamente deve avere sui governati.
Dopo trent’anni
(o quasi) di stasi italiana, con la crescita del PIL peggiore sia nell’ambito
UE che dell’area euro (e salvo altro) pensare che partiti e coalizioni i quali
hanno diretto l’Italia – peraltro spesso senza aver ottenuto la maggioranza
alle elezioni, anzi malgrado le sconfitte elettorali – abbiano la credibilità e
l’autorità minima per governare è un atto
di fede. Ancor di più è confidare che gli italiani siano tutti diversamente intelligenti. A proposito
occorre ricordare che se il pregio
dell’autorità è ottenere l’obbedienza dei sudditii anche per misure e necessità
estreme (ricordate il “lacrime e sangue” di Churchill?) l’inverso comporta che a un governo privo o
carente di autorità (e credibilità) finiscono per essere rifiutati dai
governati anche provvedimenti condivisibili presi in situazioni meno
drammatiche (v. Covid).
In terzo luogo occorre
ricordare che la politica è attività che ha più a che fare con l’utilità che
con la bontà. I popoli (come gli individui) sono più propensi a essere
governati da chi assicura il benessere generale che da coloro che propongono
obiettivi eticamente condivisi. Chi governa non è un sant’uomo (e può non
esserlo). In fondo la definizione più moderna
di bene comune è di Bentham: il più alto grado di felicità per il maggior
numero possibile di persone. Ma ci sono programmi di partiti più orientati a
soddisfare (direttamente ed esplicitamente, ma per lo più indirettamente) delle
minoranze – talvolta di scarsa rilevanza numerica, in nome di bontà,
solidarietà, ecc. ecc. - che perseguire l’utilità di tutti. La cattivissima Meloni che indica come
proprio obiettivo di perseguire l’interesse generale degli italiani, non fa – mutatis mutandis – che affermare l’inverso.
Ciò è poi il compito che la dottrina politica moderna (realistica soprattutto)
assegna ai “buoni” governanti.
Non vi lamentate
quindi se dopo le elezioni scoprite che il governo ha ridotto il PIL ma, in
ossequio alle promesse fatte, ha favorito l’eutanasia e i matrimoni
omosessuali, il reddito di cittadinanza ai migranti da poco sbarcati, ecc. ecc.
Tutte promesse fatte e che, se consentite nelle urne, andavano soddisfatte. Gli
è che la politica è, come riteneva Croce, pertinente alla categoria (distinto) dell’utile,
più che al “bene”. Così che la concreta esistenza viene prima dell’essere
morale: “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”.
Il quarto
consiglio (dei più che occorrerebbero) è non far caso alle demonizzazioni
dell’avversario; ancor più laddove gli anatemi hanno ad oggetto vizi e mancanze
private e non pubbliche. In generale è “naturale” che l’avversario politico sia
dipinto male, con improperi, sfondoni, calunnie, esorcismi, ecc. ecc.
Aristofane ne dà un esilarante rappresentazione (venticinque secoli fa) nello
scontro oratorio tra conciapelli e salsicciaio nei “Cavalieri”. E la sostanza è
ancora la stessa. Quando oggetto di tanto fervore accusatorio sono le tendenze
sessuali o comunque private dell’avversario,
come per lo più è, allora diventa poco o punto rilevante. Perché il fatto che
il nemico sia un omosessuale o un donnaiolo riguarda fatti suoi privati e non
pubblici. Rassicuratevi quindi: se si fa ricorso a tali argomenti vuol dire che
non ne trovano altri; è un motivo per votare il “nemico” e non per non farlo.
Cesare era sia donnaiolo (v. Cleopatra) che omosessuale (il Re di Bitinia): ciò
non toglie che da millenni il suo nome designa, in tante lingue, la massima
autorità. Segno che nessuno ha mai dato peso ai suoi “vizi” privati.
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